Zoran Mušič
Profilo biografico
Nato nel 1909 per alcuni a Boccavizza in Slovenia, per altri a Gorizia, studia all’Accademia di Belle Arti di Zagabria, viaggia poi tra la Spagna e l’Europa centrale e si stabilisce a Venezia. Lì è arrestato nel 1944 dalla Gestapo per la sua amicizia con alcuni esponenti della resistenza slovena e il 18 novembre viene deportato a Dachau. Nel campo riesce a realizzare in segreto una serie di disegni che fissano sulla carta le atrocità quotidiane alle quali assiste. “I cadaveri si trovano dappertutto – racconta – impilati gli uni sugli altri”. Raccogliere la testimonianza di quanto vede è per lui l’unico modo per sopravvivere e salvare la sua integrità umana.
Liberato dagli americani nel giugno 1945, Mušič torna a Venezia e riprende la sua attività di pittore e incisore. Nel 1970 rivisita i suoi ricordi del lager nel ciclo Noi siamo gli ultimi e trasforma in tragedia universale l’inferno del campo di concentramento.
Muore a Venezia nel 2005 all’età di 96 anni.
Disegni
“Comincio timidamente a disegnare. Forse così mi salvo. Nel pericolo avrò forse una ragione di resistere. Prima provo, di nascosto nel cassetto del mio tornio. Cose viste strada facendo verso la fabbrica: l’arrivo di un trasporto; carro bestiame aperto: cascano fuori i morti…Qualche sopravvissuto impazzito che urla, con gli occhi fuori dalla testa… Più tardi disegno nel campo. I giorni passano. Presto sono preso da una incredibile frenesia di disegnare. […] Disegno come in trans, mi attacco morbosamente a questi fogli di carta. Ero come accecato dall’allucinante grandiosità di questi campi di cadaveri…” (cit. Giuseppe Mazzariol, Music, Electa, Milano, 1980).
Fig. 1.3.5 – Riproduzioni di disegni di Zoran Mušič. Cadaveri in un campo di concentramento
Così, Zoran Mušič descrive il suo approccio al disegno mentre è nel campo di concentramento di Dachau, dove realizzerà di nascosto circa duecento fogli dei quali ne sono rimasti trentasette, conservati in collezioni pubbliche e private. Alcuni di questi disegni sono pubblicati in Music. Testimone a Dachau, Civici Musei di Storia ed Arte, Trieste, 1997.
Zoran Mušič sostiene anche che non ha mai voluto “illustrare” delle cose, tipo le baracche o fare il ritratto di un milite delle SS. Le sue erano immagini che arrivavano dal profondo, “qualcosa di interiore che sta agli altri captare, accettare, capire e sentire. Si tratta della forza del pittore, della forza, del valore di quello che ha fatto, lui stesso non può giudicare. C’è solo la speranza che ci sia qualcosa, c’è sicuramente la verità, il pittore c’è dentro, c’è la sincerità”.
L’esperienza terribile dei campi di concentramento si è profondamente sedimentata nel suo animo ed è riemersa intatta e dolorosa alla sua coscienza d’artista nello straordinario ciclo di disegni “Non siamo gli ultimi”. Qui abbiamo proposto alcuni di quei disegni prodotti da Mušič negli anni Settanta. Zoran Mušič, nel rispondere alla domanda dell’intervistatore, nel testo sopra citato, che gli chiedeva quando è uscito il ciclo “Non siamo gli ultimi”, rispondeva con queste parole: “Lo sa perché ho dato questo titolo? Perché noi andavamo al lavoro a fianco del crematorio, della ciminiera che fumava sempre, e un amico ceco… diceva sempre che saremmo passati anche noi là… Si diceva che mai più sarebbero successe cose simili, che eravamo gli ultimi ad aver vissuto cose simili. Dopo tanti anni, ho visto che non eravamo gli ultimi”.
Fig. 2.3.5 – Riproduzioni di disegni di Zoran Mušič. Cadaveri in un campo di concentramento
In Mušič, la verità, l’indicibile, il gesto artistico, si fondono in una sorta di “bellezza tragica”. Alcuni artisti deportati hanno dichiarato di aver prodotto dei disegni per un bisogno artistico, più che testimoniale, tra questi è Zoran Mušič. Nel saggio di Anna Paola Bellini*, Arte e Memoria. La testimonianza artistica della deportazione è ben chiarito quanto Mušič non parli “mai di testimoniare ma sembra legare questo profondo bisogno ad una necessità di tipo artistico che si nutre della bellezza derivante dalla tragicità dell’esperienza”.
Resta evidente quanto, pur muovendo da esperienze tra loro assimilabili, ogni artista deportato abbia vissuto e percepito in modo diverso e soggettivo quello che ha visto e subìto, e a proprio modo lo abbia messo a nudo con il proprio segno grafico, rispondendo sempre alla medesima esigenza di dover testimoniare l’indicibile, mediante un altro linguaggio.
Fig. 3.3.5 – Riproduzione di un disegno di Zoran Mušič. Cadavere appeso per il collo
Scrive ancora Gianfranco Maris, esortando all’impegno della trasmissione della memoria, che “Chi ha vissuto questa esperienza non può uscirne attraverso le nebbie dell’oblio. Porta con sé visioni e ricordi che si sublimano, nel tempo, e ripropongono agli uomini, a tutti gli uomini, alle generazioni di oggi, degli anni a venire, l’essenza di una storia, di un processo politico non avvertito e stroncato per tempo, di un pericolo non capito, di un mostro che si è tardato troppo a riconoscere e che ha potuto aggredire, distruggere, sconciare l’umanità, violentare tutta la famiglia umana. Questo mostro può risorgere. Chi ha ricordi li scriva, chi ha visioni le rappresenti con il segno grafico, con il pennello, con i colori”.
(*Anna Paola Bellini, Arte e Memoria. La testimonianza artistica della deportazione, sinestesie Online, Associazione Culturale Edizioni Sinestesie, maggio 2019, A.8, n° 26, pp.27-34).
(*G. Maris, presidente Aned, dalla presentazione del catalogo della Mostra Artisti italiani nei campi di sterminio nazisti, Electa, Milano, 1985).
Ultimo aggiornamento: 15 Settembre 2022 [Anna Grazia Pompa]