La tavolozza svelata di Francesco Hayez
La lunga ed emozionante carriera di Francesco Hayez, caposcuola della pittura romantica italiana, si è svolta in parallelo alle innovazioni dell’industria chimica dell’Ottocento e a contatto con gli ambienti artistici più avanzati dell’epoca.
Le ricerche svolte dal Dipartimento di Scienza e Alta Tecnologia dell’Università degli Studi dell’Insubria su un importante nucleo di dipinti realizzati tra il 1823 e il 1878, grazie anche alla collaborazione di Villa Carlotta (Tremezzo, CO), Villa Vigoni Centro Italo-Tedesco per l’eccellenza Europea (Loveno di Menaggio, CO) Accademia di Belle Arti Tadini di Lovere (BG), Musei Civici d’Arte e di Storia di Brescia e Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, ha permesso di aggiungere un importante tassello nella comprensione della tecnica prodigiosa dell’artista, fedele alle tradizionali pratiche di bottega ma sensibile verso la diffusione dei nuovi pigmenti di sintesi, resi disponibili dai progressi della chimica.
La tavolozza pittorica, quasi un’impronta digitale dell’artista, è stata studiata con la spettroscopia infrarossa, una tecnica non invasiva che ha rilevato la presenza di olio di lino, adottato come legante, e sostanze proteiche, plausibilmente riconducibili all’impiego di vernici temporanee a base d’uovo. Presente in tutte le opere esaminate, in alcuni casi tagliata con la barite, la biacca è un elemento fondamentale nella tecnica dell’artista, utilizzata sia pura come pigmento bianco, sia mesticata ad altri pigmenti per ottenere un’ampia gamma di tonalità di colore e per una rapida azione siccativa creando film pittorici elastici e robusti.
La tavolozza di Francesco Hayez è quasi interamente giocata su materiali ampiamente attestati nei manuali antichi e riconducibili alle pratiche tradizionali, pigmenti che molto probabilmente l’artista preparava da sé, dal momento che possedeva un tavolo con macinatoio poi donato all’Accademia di Brera nel 1861.
Le analisi hanno rilevato la presenza di giallo di Napoli (noto fin dall’antichità ma riscoperto nel XVIII secolo), giallorino (giallo di piombo e stagno, menzionato nel XV secolo da Cennino Cennini nel Libro dell’arte), terre o ocre gialle e rosse, nero d’avorio, il blu profondo dell’oltremare naturale in alcune stesure dell’Ecce Homo della Galleria Tadini .
Inoltre, si è ipotizzata la presenza di rosso cinabro, dal momento che sono stati rintracciati i segnali dei minerali argillosi presenti normalmente come impurezze nel pigmento.
A questa gamma cromatica si accostano anche i primi pigmenti di sintesi: il blu di Prussia, inventato per caso da Johann Jacob Diesbach nel 1704 e già largamente in uso nelle tavolozze dei pittori dell’Ottocento, e il più recente blu di cobalto, testato da Hayez su piccole superfici solo a partire dal 1829, quando la sua tonalità fredda e intensa fa la sua comparsa nello straordinario Ritratto di Federica Mylius Schnauss.
La cauta sperimentazione dei nuovi pigmenti che la scienza rendeva improvvisamente disponibili agli artisti si spiega facilmente con la loro lenta diffusione e scarsa reperibilità, ma soprattutto con la necessità di Hayez di garantire la stabilità e la brillantezza dei suoi colori, di esibire una tecnica straordinaria e di imporre il suo primato professionale con la sicurezza e l’orgoglio di un grande maestro.
Ultimo aggiornamento: 30 Gennaio 2017 [cm]