La lavorazione del ferro a Lecco
Da Archeologia industriale nel territorio lecchese di Barbara Cattaneo
Dalle origini all’età contemporanea
La lavorazione del ferro a Lecco costituisce un eccezionale “fenomeno di lunga durata”, termine con il quale le scienze sociali ed economiche definiscono la persistenza temporale in una stessa area del medesimo tipo di attività, ripartita su un consistente numero d’imprese.
Infatti i recenti ritrovamenti delle campagne di scavo condotte ai Piani d’Erna di Lecco provano l’esistenza di un impianto siderurgico in funzione dal II secolo a.C.
I primi documenti scritti risalgono però al XIII sec. e riguardano l’esclusiva sulla estrazione e lavorazione del ferro in Valtorta da parte della famiglia De Domo di Lecco e nel 1294 l’affitto da parte dell’arcivescovo di Milano, Ottone, del suolo e del sottosuolo della Valtorta a soci che ne detenevano le varie quote.
Ulteriori documenti del 1380 e del 1397 testimoniano la presenza dell’attività di trafileria nel territorio pure gestita da gruppi di soci. Il principio della “consorzialità”, riconfermato nel tempo, divenne uno dei segni distintivi del sistema produttivo lecchese, riscontrabile ancora nel XIX secolo nella gestione delle fucine grosse della Valle del Gerenzone e, all’inizio del XX, anche nella costituzione dell’Acciaieria del Caleotto.
Gli Statuti di Lecco della fine del ’300, trattando della regolamentazione delle acque della “Fiumicella” del torrente Gerenzone, attestano la presenza di numerose officine per la lavorazione del ferro lungo questo corso d’acqua.
Nei medesimi strumenti normativi sono elencati anche i prodotti principali della zona (ferro crudo e cotto, caldaie, padelle), i luoghi della produzione (fucine grosse) e i mezzi (incudini e i cosiddetti “arzoni” usati per assottigliare il filo). Un sistema dunque tecnologicamente avanzato già alla fine del XIV secolo, anche grazie all’introduzione degli altiforni, quando nel resto d’Europa erano ancora in uso i bassi fuochi.
Il ferro lecchese aveva il suo mercato privilegiato a Milano, presso gli abilissimi armorari che producevano le armi bianche e le armature più famose d’Europa. Con la perdita del Bergamasco e del Bresciano, passati alla Repubblica di Venezia dopo la pace di Lodi (1454), la Valsassina e Lecco divennero le principali aree di produzione siderurgica e metallurgica lombarda, mantenendo questa caratteristica per più di tre secoli.
L’industria lecchese riuscì infatti a superare la crisi di fine ’500 e quella conseguente la grande peste del 1630, grazie al fatto che, intorno alla fine del secolo il governo spagnolo assunse una serie di provvedimenti per armare al meglio il proprio esercito, promuovendo la realizzazione di fabbriche di munizioni e archibugi a Lecco in cambio di detrazioni fiscali e contributi in denaro.
Fu incentivata anche l’immigrazione di esperti tecnici del bresciano che trasferirono il loro know-how nelle nostre aziende, aumentando la qualità e la quantità della produzione di minerale ferroso in Valsassina e di semilavorati e lavorati in città.
Quest’ultima tendenza si mantenne costante anche durante il XVIII secolo con la creazione di nuove fucine grosse e piccole a Lecco, mentre risultavano in calo quelle valsassinesi. Rinnovamento e rinvigorimento della lavorazione del ferro furono poi determinati dal governo austriaco che realizzò le prime strade per il trasporto del materiale ferroso e istituì nel 1785 nuove leggi per il mantenimento dei boschi e lo sfruttamento minerario.
Ma verso la fine del secolo, in seguito all’esaurimento delle miniere della Valsassina, venne abbandonata la produzione della materia prima a favore della lavorazione della ghisa e del rottame di ferro importati dall’estero o dagli 17 altri stati italiani, per la realizzazione di attrezzi di ogni genere, dal filo alla rete di ferro, alla minuteria metallica (catene, chiodi, viti, serrature, fibbie…), che divennero la principale voce di esportazione del territorio di Lecco per tutto il XIX e XX secolo.
In particolare l’attività maggiormente diffusa era quella della trafilatura con cui si otteneva filo di ferro, un’attività praticata, fino alla metà dell’800, a mano da un operaio (tirabagia) che, stando seduto su una specie di altalena da cui riceveva una forte spinta, traeva il filo con delle tenaglie attraverso fori di diametro sempre più piccolo.
Nel 1831 Giuseppe Badoni, introdusse per primo nella sua azienda i mulinelli meccanici che, azionati da ruote idrauliche e meccanismi di trasmissione, permettevano di produrre molto più filo in minor tempo, sollevando i dipendenti da quella faticosa operazione. Questa famiglia, presso cui lavorò all’inizio della sua carriera Enrico Falck, diede un impulso de incisivo all’industria metalmeccanica e metallurgica lecchese non solo per i rinnovamenti tecnici, ma installando anche grandi e moderni opifici a Bellano e a Castello di Lecco (1840), ritenuti tra i più importanti del Lombardo-Veneto.
Nel corso del secolo e ancora agli inizi del ’900 il complesso di Lecco venne ingrandito e la produzione si specializzò in costruzioni meccaniche: gasometri, pensiline ferroviarie, ponti e successivamente gru e carri-gru.
Purtroppo in seguito alla chiusura della ditta, tutti i fabbricati, eccetto la villa dei proprietari e il più antico capannone neogotico, sono stati demoliti e sostituiti da edifici residenziali agli inizi del 2000. Altrettanto determinante per lo sviluppo dell’industria metallurgica lecchese fu nel 1874 la fondazione del Laminatoio di Malavedo, costituito dall’unione societaria di due importanti famiglie industriali di Laorca, Bolis e Redaelli, e da Enrico Falck.
A quest’ultimo successe il figlio Giorgio Enrico che nel 1905 lasciò Lecco per dedicarsi alla fondazione delle grandi “Acciaierie e Ferriere Lombarde” di Sesto San Giovanni. La gestione monopolistica cui tendevano i proprietari del Laminatoio spinse nel 1896 un gruppo di produttori di medie dimensioni ad associarsi nella “Società Anonima Ferriera del Caleotto” , finalizzata alla costruzione di un laminatoio per la fabbricazione della vergella, da cui tutti i soci s’impegnavano ad acquistare il quantitativo di materiale loro necessario.
La nascita di questa società fu fondamentale per la produzione siderurgica lecchese che si sottrasse alla necessità d’importare la vergella dall’estero, costituendo un sistema autonomo d’integrazione verticale tra siderurgia e metallurgia. Nei primi anni del ’900 cominciò inoltre ad affermarsi il settore della meccanica, che costituì nei decenni successivi il nuovo campo di espansione dell’economia lecchese.
La crescita del settore continuò rapidamente per tutto il primo decennio del XX secolo e, dopo la crisi siderurgica nazionale tra il 1911 e il ’14, l’industria del ferro lecchese trasse rinnovato vigore ed espansione dall’ingresso italiano nella prima guerra mondiale con le forniture di prodotti bellici: teleferiche metalliche fabbricate dalla S.A. Antonio Badoni & C , lingotti e vergella del Caleotto, catene, funi e ancore del Laminatoio di Arlenico, filo spinato, reti, chiodi, badili e fibbie per l’equipaggiamento delle truppe, nonché munizioni e proiettili della ditta Fiocchi.
Con la fine della guerra ci fu un momento di arresto nelle attività economiche nazionali, in particolare nel settore siderurgico, per la cronica mancanza di combustibile e di rottami ferrosi o ghisa e il forte aumento dei loro prezzi sul mercato, che comportò anche nel nostro territorio una riduzione del numero di addetti. Questo trend negativo subì un’inversione di tendenza verso la fine del 1922, grazie al blocco delle agitazioni operaie e all’introduzione di una tariffa doganale a favore della produzione interna.
Negli anni ’30 del ’900 Lecco fu la città lombarda col più alto numero di addetti al settore secondario (73%) di cui 13662 unità proprio nella siderurgia e metallurgia, grazie alla produzione di materiale bellico per l’espansione coloniale italiana e all’economia autarchica instaurata dal regime fascista. Alla fine della seconda Guerra Mondiale, con gli aiuti provenienti in Europa dal Piano Marshall (E.R.P) e la liberalizzazione del mercato mondiale, si aprirono nuove prospettive per l’economia nazionale e di conseguenza anche per il territorio lecchese, in cui la ripresa fu particolarmente favorita dal la capacità degli imprenditori locali, anche medio-piccoli, di razionalizzare e potenziare la produzione, specialmente meccanica e metalmeccanica.
Nel 1951 le industrie del settore presenti nel territorio lecchese erano 510, rappresentando il 45,3% del totale provinciale, con una occupazione del 64,4% degli operai metalmeccanici.
Ultimo aggiornamento: 12 Giugno 2019 [cm]