Le immagini come documento storico
Attraverso le immagini che ci hanno raccontato la storia, costruendo un immaginario collettivo, abbiamo elaborato nel tempo la memoria della deportazione. Questo strumento di comunicazione non deve, tuttavia, diventare univoco, col rischio di irrigidire la memoria in stereotipi, deve invece aiutarci a scrivere la storia, dialogando con ogni altra fonte.
Come sostiene G. Didi-Huberman, «L’immagine funziona sempre – almeno nell’esperienza che ne ho e che risponde, naturalmente, a una scelta, a una propensione per un certo tipo di immagini – in maniera doppia, dialettica o duplice. La stessa immagine ci mostra qualcosa e ci nasconde qualcos’altro allo stesso tempo. Qui essa rivela e la ripiega. Essa porta una certa verità e apporta una certa finzione. […] Occorre, sebbene non sia sufficiente, spiegare le immagini. Si deve anche comprendere in cosa ci riguardano, ci guardano, ci coinvolgono».
Queste immagini circolarono ampiamente durante i processi ai criminali di guerra. Anche grazie all’Aned, a partire dalla mostra sulla deportazione tenuta a Verona nel 1957, le immagini furono sistematicamente raccolte, mediante la ricognizione delle stesse in archivi stranieri, e fatte circolare in varie esposizioni e pubblicazioni, divenendo così patrimonio comune. A questo lavoro di raccolta (tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta) e di conservazione sono strettamente collegate le personalità di Albe Steiner e di sua moglie Lica, che collaborarono fin da subito alle iniziative dell’Aned. Scopo della loro ricerca era recuperare immagini e documenti da usare in mostre, volumi e convegni, che mantenessero viva la memoria dell’esperienza concentrazionaria. «Le immagini erano per Albe e Lica Steiner materiali preziosi, da non disperdere, perché, “un giorno”, scomparsi i testimoni, qualcuno avrebbe certamente tentato di negare la storia” […] Albe e Lica ritenevano che documentare e comunicare fossero inscindibili. Quanto più la documentazione è importante, tanto più è necessario studiarne le modalità comunicative, che devono favorire la leggibilità e la comprensione, corrispondere ad una “concezione non retorica” della documentazione, per indurre a riflettere: “Pensaci, uomo!”» (Pensaci, uomo!, a cura di Piero Caleffi e Albe Steiner, Feltrinelli, 1960).
Albe Steiner e Piero Caleffi usarono questa fotografia per la copertina del libro Pensaci, uomo!, che è un viaggio nella memoria della deportazione attraverso le immagini. L’impaginazione, i brevi capitoli, il repertorio fotografico, sono per quegli anni una proposta potentemente drammatica e innovativa: ci danno conto, obbligandoci a riflettere, del funzionamento dell’organizzazione della macchina della morte.
Le fotografie selezionate da Albe Steiner sono state il frutto della sua continua ricerca di massima chiarezza e leggibilità del linguaggio visivo, sostenitore quale era della necessità di una relazione tra l’arte e l’impegno politico e sociale.
La storia di «quel bambino» e di «quella foto», la possiamo leggere nel libro Dan Porat, Il bambino. Varsavia 1943 fuga impossibile dall’orrore nazista, Rizzoli, 2013.
Ultimo aggiornamento: 28 Ottobre 2020 [cm]