Storie di piombo
Viaggiano anche i torchi, non solo gli esseri umani. E sono proprio storie di migrazioni alcune di quelle raccontate dai torchi e dalle macchine esposte nel Museo di Lodi.
Raro torchio calcografico in legno costruito intorno al 1750, proveniente dalla Casa Editrice Ricordi di Milano. Veniva utilizzato prevalentemente per la stampa di spartiti musicali con l’utilizzo di matrici metalliche in rame o acciaio.
Nel procedimento calcografico, che risale alla prima metà del Quattrocento, il disegno viene inciso nelle diverse tecniche sulla lastra di rame o di zinco che vengono poi inchiostrate e pulite in modo che l’inchiostro rimanga solo nelle parti scavate. Per questo, detta incisione in cavo.
Successivamente la lastra, coperta da un foglio di carta inumidita, viene fatta passare (azionando il volano a stella) sotto un cilindro in acciaio del torchio che, ruotando, applica la pressione necessaria all’impressione del cliché inciso.
Pur essendo una tecnica tuttora molto usata nella produzione artistica, per lo stampatore di libri illustrati rappresentò uno svantaggio rispetto alla xilografia in quanto richiedeva di disporre di due torchi, uno tipografico per i testi e uno calcografico per le illustrazioni.
Il mitico torchio ‘Columbian’ gioiello rarissimo e unico presente in Italia, particolarmente ricco di fregi, borchie e contrappesi stilizzati, ha viaggiato dall’Inghilterra all’India prima di finire in un giardino della Puglia, usato come portavasi, per arrivare infine ad occupare il posto d’onore nel Museo della Stampa di Lodi.
Questo rarissimo torchio tipografico, unico in Italia, fu inventato da George Clymer a Filadelfia (USA) e prodotto a Londra dal 1817. Il modello risale al 1859, costruito dalla fonderia V&J Figgins fino al 1893.
Caratterizzato dalle ricche decorazioni e dal contrappeso a forma d’aquila (americana), ha un formato stampa di 52×65 cm e rappresenta il primo cambiamento nella costruzione dei torchi tipografici in quanto senza viti sulla platina.
La sua esistenza viene segnalata dallo stampatore-editore Enrico Tallone, che lo vede in pessimo stato nel giardino di una famiglia inglese in provincia di Lecce, usato come portavasi.
I volontari del laboratorio di restauro del museo hanno lavorato tre mesi per eliminare inchiostrazioni, ruggine e vernice, procedendo poi al completo smontaggio, ripristino delle varie parti e rimontaggio, fino a renderlo nuovamente funzionante.
Questo torchio fu operativo in India nel periodo coloniale inglese e da là trasferito in Puglia dove si era ritirato il baronetto inglese che lo aveva portato con sé.
Dopo la dichiarazione della Prima guerra di Indipendenza, il 30 marzo ’48, Carlo Alberto, a capo dell’esercito piemontese, entra a Lodi e alloggia a Palazzo Taxis. I tipografi Wilmant, soggiogati dalla figura del re e sostenuti da spirito patriottico, non esitarono a schierarsi a favore della causa italiana, fornendo il piombo per fondere le palle da fucile per i patrioti combattenti. Piombo per diffondere idee e piombo per conquistare la libertà.
Questo modello si deve all’inventiva di un Lord inglese, Lord Charles Stanhope, che nel 1800, con il meccanico Robert Walker, lo realizzò a Londra in Piccadilly dandogli il proprio nome. La caratteristica più significativa del torchio Stanhope è il suo sistema di leve multiple tra la barra e la vite che moltiplicava la pressione trasmessa sulla platina, con la possibilità di ottenere stampe più grandi e in minor tempo.
Amos Dell’Orto fu il primo in Italia a produrre questo modello a partire dal 1840, dando inizio ad un’attività proseguita per almeno trentacinque anni. Ad oggi, in Italia, sono stati censiti circa venticinque esemplari conservati in vari musei e collezioni private. Questo torchio, in fusione di ghisa, si distingue per la base in legno a forma di croce e i piedi a “zampa di leone”.
E’ in grado di stampare fino al formato 60×80 centimetri. Si tratta di un esemplare molto interessante già appartenuto alla storica tipografia di Claudio Wilmant. Con questo torchio, Luigi Wilmant stampò nel 1850 le cartelle di Prestito mazziniano, ideate da Carlo Cattaneo.
Durante la rivoluzione delle Cinque Giornate di Milano, il giovane Alessandro Lombardi, poi addetto stampa al seguito dell’armata piemontese, con il suo modello Stanhope con ‘piedi di leone’ stampava volatini per i patrioti incurante di fucile scambiati fra le barricate. Il torchio custodito a Lodi è il gemello del ‘modello 1848’ andato distrutto durante un bombardamento nel secondo conflitto mondiale.
E’ completo di una matrice tipografica per l’annuncio di morte di Garibaldi, fatto stampare dalla Giunta Municipale di Lodi il 3 giugno 1882.
Questa macchina, inventata dall’americano John Raphael Roggers nel 1890, è fra i primi modelli che furono costruiti nello stesso anno a Berlino e rappresenta una delle poche macchine compositrici meccaniche che riuscirono ad ottenere un certo successo commerciale negli ultimi anni del XIX secolo, dopo che centinaia di inventori si cimentarono inutilmente per tutto l’Ottocento nell’impresa di costruire una macchina compositrice veloce e affidabile, utile alle grandi stamperie.
Come la più celebre Linotype, per il suo funzionamento richiede un solo operatore che, battendo sulla tastiera, fa scendere le matrici, appese a fili d’acciaio legati a un telaio dalla caratteristica forma di ventaglio, in un compositoio per formare una riga di piombo che veniva quindi messa a contatto con il crogiolo per la fusione. Dopodiché il compositore alzava il telaio e le matrici scivolavano lungo i fili d’acciaio per raggiungere la posizione iniziale.
Questa macchina, anche se più lenta rispetto alla Linotype, fu apprezzata per la semplicità, la compattezza e il prezzo relativamente basso. Tuttavia, una causa legale intentata dalla società produttrice della Linotype, portò alla chiusura della fabbrica Typograph negli Stati Uniti.
La Tipograph, comunque, continuò ad essere prodotta sia in Canada sia in Germania e prima del 1910, nella sola fabbrica di Berlino, ne furono costruite più di 2600.
Fra le molte macchine tipografiche esposte nel museo della stampa di Lodi, spicca in modo particolare un reperto molto interessante.
Si tratta di una piano cilindrica manuale costruita in Italia nel 1895 dalla “Fonderia Tipografica e Figlio di Achille G. Commoretti & C. Sas”.
Pezzo piuttosto raro, costruito probabilmente su progetto Augusto Dell’Orto, ditta assorbita dal Commoretti nel 1899.
Dotata di sistema manuale di puntatura del foglio, ha un piano di lavoro di cm 70×50, in grado quindi di soddisfare ottimamente le esigenze dei piccoli e medi tipografi per la stampa dei grandi formati con l’uso anche di caratteri in legno.
Questa pianocilindrica venne prelevata nel 2003, in stato di rottame, dalla tipografia Bossi Aurelio di Cernusco sul Naviglio e riportata nella splendida forma attuale da un magistrale restauro filologico.
Questa macchina, apparsa sul finire del secolo XIX in Inghilterra per la stampa di incisioni calcografiche ottenute meccanicamente su lastre d’acciaio mediante un sistema rapido di incisione fatto brevettare dalla “Johnstonia Engraving”, fu adottata anche in Russia, Svezia e Norvegia per la stampa di banconote.
Il modello esposto nel museo della stampa di Lodi proviene dalla Rilievografia Bonelli di Bianchi D. – Milano , ed è una macchina imponente (più di due metri d’altezza per un peso di circa due tonnellate), capace di stampare a più colori fino a un formato di cm 20 x 10.
Costruita appositamente per ottenere stampati in rilievo, vanta un ingegnoso meccanismo che permette la stampa, l’inchiostrazione e la pulitura della placca incisa in un ciclo automatico continuo. Poteva essere azionata manualmente o con cinghia di trasmissione.
Sfrutta il principio rilievografico, procedimento grafico molto elegante e raffinato, circoscritto quasi esclusivamente alla stampa di carta da lettera e buste molto fini, di biglietti da visita, cartoncini per inviti e partecipazioni.
Matrice è una piastrina d’acciaio incisa che viene inchiostrata in modo che l’inchiostro rimanga solo negli intagli. La carta, compressa fra la matrice e una contro matrice, preleva l’inchiostro dai cavi in corrispondenza dell’incisione. Gli inchiostri devono essere densi e brillanti per dare pregio allo stampato.
Un sistema di pinze meccaniche fissate su un meccanismo ruotante a forma di “stella”, preleva i fogli da stampare e provvede a sistemarli sulla platina, messa in verticale, per la stampa. A stampa eseguita i fogli vengono prelevati automaticamente e impilati uno sopra l’altro, pronti per essere asportati.
L’operatore, attraverso vari comandi, ne regola la velocità e l’intensità di pressione. Le Heidelberg sono in grado anche di eseguire lavori di cordonatura, fustellatura, taglio, perforazione e molto altro ancora.
Si può considerare l’evoluzione elettrica della Platina. Viene costruita dalla fabbrica tedesca Heidelberg, la più rinomata nel mondo, che fino al 1970 ne produce oltre settecentomila esemplari.
Ancora oggi queste macchine sopravvivono nelle piccole tipografie per l’estrema maneggevolezza e convenienza per effettuare lavori di formato ridotto e in tirature medio-piccole. Questo modello stampa formati fino a cm 26×38 e fa parte della prima serie del 1912. Pezzo rarissimo in Italia.
Questa macchina, costruita nel 1920 dalla Nebiolo di Torino, è in grado di stampare fogli con dimensioni fino a cm 70 x 100, utilizzando caratteri in legno. Il modello presente in questo museo, che dispone di un sistema di puntatura del foglio a mano, in origine funzionava con cinghia ad albero centrale e solo successivamente fu dotato di motore elettrico autonomo.
Le piano cilindriche erano molto diffuse nelle piccole e medie tipografie per la stampa di grossi manifesti. La Società Optima, nata dalla fusione della milanese Urania con la Nebiolo di Torino, divenne la maggiore produttrice di macchine da stampa in Italia.
Con atto di grande generosità, fu donata al museo dalla Tipografia Rampi di Trecate nel 2003. Per poterla estrarre dal piccolo laboratorio ove era collocata si rese necessario smontarla in parte e abbattere una parete. Ora, perfettamente restaurata e funzionante, è la regina del reparto stampa tipografica del museo.
Contestualmente all’evoluzione registrata nella stampa industriale con l’introduzione di macchine cilindriche e rotative, nel XIX secolo la richiesta di maggiore velocità anche da parte delle piccole tipografie viene soddisfatta dalle cosiddette pedaline che ben si adattano per la stampa di piccole tirature e formati ridotti.
Queste macchine, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, si diffondono rapidamente un po’ in tutta Europa e vengono molto apprezzate per la loro compattezza, economicità e relativa velocità. Prevedono l’inchiostrazione automatica attraverso un sistema multiplo di rulli che prende l’inchiostro da un calamaio e lo distribuisce uniformemente sulla forma tenuta in posizione verticale. Un unico operatore aziona l’apertura e la chiusura della platina con un pedale mentre con le mani provvede all’alimentazione e al ritiro dei fogli.
Questo modello viene costruito nella fabbrica Ernesto Saroglia di Torino nel 1923 e resta in attività fino agli anni Settanta presso la tipografia Spazzini di Sant’Angelo Lodigiano, prima di essere completamente restaurato dai tecnici del Museo della Stampa. Di pedaline Saroglia, nel giro di cinquant’anni, ne vengono costruite oltre diecimila, diffuse in tutto il mondo.
Per tutto l’Ottocento in tanti si cimentarono nel tentativo di costruire una macchina capace di essere più veloce e competitiva rispetto alla composizione a mano dei caratteri in piombo.
Fu il tedesco Ottmar Mergenthaler, emigrato negli Stati Uniti nel 1872 per lavorare in un’impresa di ingegneria, a vincere la sfida dopo tentativi andati a vuoto realizzando la celebre “Linotype” che si diffuse rapidamente nelle maggiori tipografie di tutto il mondo soprattutto per la sua velocità di composizione: 8/10 mila segni contro i mille della composizione manuale.
La versione definitiva della “Linotype” (riga di caratteri), fu portata a termine nel 1890 e la sua produzione continuò fino agli anni Settanta del Novecento, quando la fotocomposizione e l’avvento del computer, la relegarono fra gli oggetti obsoleti. Prima della sua invenzione nessun giornale al mondo era stampato in più di otto pagine.
Nelle fabbriche americane, inglesi e tedesche si produssero più di 120 mila Linotype. Macchine simili furono prodotte anche nell’Unione Sovietica a da altre società, come l’americana Intertype e la società Menta di Milano.
Questo modello di “Intertype”, utilizzato nel museo prevalentemente per dimostrazioni didattiche, è stato costruito negli U.S.A. nel 1950 ed è dotato di ben 4 magazzini di matrici con protezione trasparente che permette di vedere i loro movimenti durante il funzionamento.
Reperto ormai storico molto interessante costruito in scala ridotta ( 1:10) nel 1970 da Annini Renato, tecnico nello stabilimento G.A.T.E. di Roma, ove in quegli anni veniva stampato il quotidiano l’Unità.
Il modellino, completo di grafico funzionale, fu donato alla direzione del Partito Comunista Italiano di Roma nell’aprile del 1972.
La piccola rotativa è stata restaurata dal museo ed è tuttora perfettamente funzionante potendo stampare un giornalino a due colori di 8 pagine formato mm. 68×90.
Fu donata al museo nel 2008 dal figlio Claudio Annini che la recuperò da uno scantinato dov’era finita completamente dimenticata.
Posta su un carrello metallico tubolare originale e debitamente protetta da una vetrinetta trasparente, fa bella mostra di sé nella sala dedicata alle macchine per la stampa tipografica.
Ultimo aggiornamento: 14 Gennaio 2016 [cm]