Archivio del Comune di Bormio, Quaterni inquisitionum sorte invernale 1630-31 5 19 23 24 26 27 29 30 settembre 1 2 4 5 7 8 11 14 15 16 19 21 23 24 29 30 ottobre 3 5 8 9 13 15 16 novembre 5 dicembre 1630; 12 marzo 1631

Persone
Domenica Trameri junior di Isolaccia, detta Chieriga
Procedimento giudiziario
Inchiesta su Domenica Trameri junior di Isolaccia, detta Chieriga, per stregoneria (5 settembre 1630 - 12 marzo 1631; 28 settembre 1630; 13 giugno 1631; 19 novembre 1631)

L'inchiesta che il Tribunale di Bormio avviò per conoscere le ragioni dell'espatrio furtivo in Engadina di Domenico Gaglia mise in moto una delle più feroci cacce alle streghe che il Contado di Bormio abbia istituita.

Avendo appreso che il giovane era ricorso all'astrologo che risiedeva a Camoasco, villaggio dell'Alta Engadina, nel disperato tentativo di portare qualche aiuto alla moglie afflitta da grave malattia, attribuita dalla credulità popolare a un maleficio, i giudici vollero approfondire la ragione che lo aveva spinto a violare le perentorie disposizioni emanate dalle autorità per scongiurare ogni contatto con i paesi limitrofi, dove la peste stava decimando gli abitanti. Fu così che si giunse alla denuncia di tre donne, alle quali il veggente aveva attributo l'insorgere del male.

Incarcerate le autrici del gravissimo crimine, prendendo le mosse dalle loro rivelazioni estorte sotto tortura e suffragate dalle conferme dei molti testimoni che rivelavano ogni diceria a proposito di fatti sussurrati, che si attribuivano ai supposti appartenenti alla setta delle streghe, si iniziò a perseguire decine di persone, in genere per grappoli di famiglie, le quali, pressoché senza eccezioni, non riuscirono a sottrarsi alla mano del boia.

Domenica Chieriga junior fu arrestata con la madre e l'istruttoria che la riguarda è contenuta nel normale fascicolo dei processi frapposta a quella di Domenico Gaglia e a quella della sorella Caterina, sospettata di gravidanza fuori dal matrimonio.

Si rileva il particolare dell'istruttoria nel fascicolo corrente perché lascia intendere come non vi fosse da parte del magistrato alcuna premeditazione nel perseguire quella che era detta "empia eresia delle streghe". Gli incartamenti seguenti relativi a tale reato saranno redatti singolarmente per ognuno degli indiziati e fascicolati separatamente.

1630. Die iovis 19 mensis septembris.

Coram illustrissimo domino pretore Jasone Foliano (1) et domino Ioanne Francisco Alberto regente ac domino Gervasio Grusino consiliario, citatus fuit Dominicus quondam Ioannis Gaglie (2) dicti de Resonello, (3) de Pedenosso et interogatus che vogli dire la verità, s'esso li giorni prossimi passati (come alli sudetti signori è stato referto) esso fu in Egnedina, sapendo esser prohibito l'andarvi per causa del sospetto dil contagio et per qual'occasione et bisogno vi è andato.

R. L'occasione è stata che saranno di già tre mesi che io ho pigliato per moglie una figliola di Franciolin di Casa per nome Barbera, la quale mi parse doppo un dì che non fosse sana al vederla, che mi pareva che guardasse molto greve, cossì gli disse: Barbara, mi pare che tu non sii sana, che habbi qualche cosa di male. Mi rispose essa: Sono alcuni giorni che non posso far le mie orationi perché, quando voglio dir il Pater, non lo posso mai fornire, perché al me vene alla gola non so che, che me impedisse. Sentendo a dir cossì, subito mi venne prosontione e sospetto che fosse maleficiata e di questo ne partecipai con il reverendo signor curato, il qual mi disse come ella li havea detto a lui l'istesso, e dimandando che rimedio si potesse usare, mi rispose: Non so che se gli possa fare. Se mi havesse licentia di leggerli, (4) la vorei guarire. Et perché altre volte quel medico di Camoasco (5) era stato a Bormio e mi haveva dato a me medicine che mi haveano giovato, mi venne in pensiero di ricorrere da lui. Cossì doppo sette o otto giorni mi misi in strada e di notte son andato in Egnedina, a Camoasco, che non credo alcun dil paese me habbino visto. E cossì, arivato là in quelle parti, perché non volsi andar là nella Terra, pregai un pradaro (6) che andasse a dimandarlo, come fece. Venuto che fu, gli racontai la causa per la quale vi era andato et li raccontai la indispositione della detta mia moglier, (7) il quale disse subito che la verità era che fosse stata maleficiata et che di già fosse un anno et come lui mi haverebbe dato medicine che sicuro, (8) con l'agiuto di Dio et della Beata Vergine, saria guarita, comandandomi che aspettase sino che andava a casa e ritornava. Cossì se partì et fra un'hora vel circa ritornò con alcuni scartozzi (9) di polvere et boletini scritti (10) del modo di dargleli, dicendo che saria guarita mentre che li pigliasse conpitamente. Cossì ricevei queste medicine, li dei cinque ducatoni (11) e poi ritornai a casa.

Venuto a casa la sera, la mattina seguente essendo mi alla presenza [di] Franciolin, suo padre, gli ne dei una [qualità di medicina], cioè il vino solo, nel quale vi erano poste radici e polvere. Il spesso (12) mi comandò che lo bruciasse. Della quale parte n'inviò (13) et parte sputò via. La seconda volta non la volse, la gittò via, et l'altra volta parte ne bevete et parte la buttò via. Doppo le quali ha perso la loquela, né più ha parlato, né magnato cosa alcuna per otto giorni, per quanto mi ha rifferto quella che la guardava, perché è in casa del padre. Doppo poi li 8 giorni fece segno di voler del'aqua, e cossì sono alcuni giorni, circa 22, che beve sempre aqua.

I. s'ha sospetto che sia maleficiata.

R. Signori, sì, che per questo andai dal detto medico.

Sibi dicto: Dove (14) havete il sospetto.

R. Non so de chi sospettare.

I. se quel medico li disse da qual persona fosse maleficiata.

R. Signori, no, né lui me lo disse, né mi interquerì, (15) perché dicendomi che sicuramente saria guarita, non ricercai altro, né so da chi sospettare.

Sibi dicto: Noi habbiamo per relatione come che il detto medico nel darvi le medicine, mostrandovi un'ampoletta (16) vi fece vedere in quella due persone che l'havevano maleficiata.

R. Signori, no, che questo non è la verità.

Sibi dicto: Habbiamo di più per relatione che voi sete andato a casa d'una donna a voi sospetta et gli havete dimandato che volesse ritornare la sanità alla detta vostra moglie, minaciandoli se non lo facea.

R. Signori, no, questo non è. È ben la verità che molte persone mi hanno dimandato (come si fa) quel che facea la detta mia moglier, e dicendoli del suo essere, me dicevano: Iddio e la Beata Vergine Maria li doni la sua sanità.

Et factis ei aliis interogationibus, petiit terminum ad diem lune proxime futurum ad melius cogitandum et comparendum sub pena scutorum 50.

Et qui Dominicus dedit securitatem de parendo iuri et iudicato solvendo, quia contra ordinem se contulit in Egnedinam absque licentia. Et pro eo se constituit fideiussorem dominus Bartolomeus Quadrius, obligando [omnia sua bona].

Die lune 23 mensis septembris.

Coram illustrissimo domino pretore et dominis regentibus in termino sibi constituto etc. comparuit etc. suprascriptus Dominicus Gaglia.

Et ei dicto se vi ha pensato in questo termine di dire la verità sopra quanto fu essaminato nel suo primo constituto.

R. Mi non ho più altro che aggiongere o diminuire a quello ho detto di prima.

Et offertoli il giuramento, havendo ricusato di voler giurare a miglior consiglio, (17) fu il detto Dominico tratenuto in palazzo sotto sicurtà di 300 scudi sino alla prima congregatione del magnifico conseglio.

Die vero martis 24 septembris.

Denuo interogatus dictus Dominicus super contentis in eius depositione.

R. La verità è che andai una sera a casa della nominata Domeniga, detta la Chierica e, ritrovando serata la porta, piccai alla porta. La detta Domenega venne fuori, et aperta la porta li dissi: Bona seria. Et (a) essa li rese il saluto. Mi gli dissi: La mia Barbola è amalata. Essa disse: Mi non so niente. No me dire a mi queste parole. Li dissi: Tu l sai ben che male l'ha. Essa rispose: Dio e la Madona l'agiuti, per quel che posso mi. Cossì me partì.

Die mercurii secundo mensis octobris.

Denuo citatus fuit suprascriptus Dominicus Gaglia. Sibi dicto se vi ha pensato di aggiongere alle sue depositioni a quanto fu essaminato.

R. Signor, non [ho] altro che dire.

Sibi dicto. Avertite che voi havete protestato con persone, che hanno deposto per suo giuramento le infrascritte cose, delle quali sarete interrogato, che perciò guardate a dir la verità e confessarlo.

Et interogatus se, essendo stato a Camoasco da quel medico, esso gli fece vedere due o 3 effigie in un'ampola, quali havevano faturato sua moglier.

R. Signori, no.

I. se esso medico li disse che erano state due persone che l'havevano maleficata, et erano madre et figliola.

R. Signori, no.

I. se la verità è ch'esso habbi detto con alcuna persona che de tre di loro donne che hanno fatturato sua mogliere, che ben due di loro li haveria fatte venir a dire che gli restituissero la sanità, ma che l'altra terza non poteva farla venire perché era troppo grande. (18)

R. Signori, no, che non so di haver detto tal cosa, né posso credere ch'alcuna persona habbi detto questo con iuramento.

Dicens: Mio padre et il marito della detta Domenega erano germani. (19)

Sequitur processus formatus contra Dominicam, dictam la Chieriga.

1. (b) 1630. Die martis 24 mensis septembris.

Coram illustrissimo domino pretore et dominis regentibus Burmii, citatus fuit Ioannes quondam Tonii Gotardi della Gotarda de Isolacia, antianus hominum in dicta vicinia, ut dicat che cosa dica di Caterina, figliola quondam Bertolo della Gaspara, quale se dice esser gravida.

R. Domenica prossima passata, a mio ricordare, andando a monte da compagnia con Madalena di Bertol di Menena, venendo fra di noi a raggionare, questa Madalena disse: Questa Caterina ha propriamente ciò vergotta. (20)

Sibi dicto che dechiari il ciò.

R. Essa disse: Mi haveria mala presontione che la fose gravida. E discorendo fra di noi chi fosse la persona, (21) fu cossì detto fra di noi: Potria esser stato il Cramer, (22) il pastorello overo il germano, ment[r]e forno (c) [a] lavorare dentro al monte. Come se sia, né lei, né mi non credo che l sapiamo, né possiamo sapere. Et questa Caterina è stata et forse ancora è fantesca, e sta con Domenico di Tonio del Cottol (23) et sua madre.

I. se ha sentito a parlare di simil cosa altre volte della detta Caterina.

R. Signori, no, perché questa è la prima parola che n'ho sentito mi.

I. se ha inteso che Domenico di Giovanni del Gaglia sia andato a casa di Domenighina della Chieriga e gli habbi voluto dar delle botte.

R. Ho inteso da Gervasio di Giuliano come il detto Domenico vi sia andato con un bastone per dargli, che così l'havesse inteso d'altri.

I. se fu detto per qual causa.

R. Et l'haverà imbutada (24) de vergotta, che la fosse stria, che mi non lo so.

I. de voce et fama dicte Domenighine.

R. Et par che la non [sia] in troppa buona consideratione.

Et hoc per interogationes eius offitii. Et factis ei aliis interogationibus.

R. Sono molti anni che questa Domenighina è mormorata, et che la faceva malfici a bestiami.

I. da chi habbi questo inteso.

R. [Da] Bartolo di Menena, che li habbi faturato bestiame.

Et l'istesso ho inteso da Gervasio di Giuliano, et come fosse andato lui e sua moglie dalla detta Domeneghina a voler che restituisse la sanità al bestiame.

2. Eadem die.

Coram magnifico concilio Burmii etc., Ioannes Iacobus Marnus consiliarius interogatus.

R. Sono sette o otto giorni, vel circa che intesi da Gervasio di Giuliano come che Catarina sopranominata sia gravida. Gli dimandai come lo sapesse. Mi disse haverlo inteso da Christofero de Pezel. Di più l'istesso ho sentito a dire di mio cugnato Domenigo del Gaglia, che la detta Caterina sia gravida, et che l'habbi inteso da Giovanni Antonio della Gotarda. Di più dice haver inteso da mio cugnato Vidal di Gioan del Folonaro (25) di Semogo, come che tre di loro sono stati in un letto, cioè Caterina di Bartolomeo di Gaspar Posclaino (26) et una figliola di Giovanni Cottin et Domenico di Antonio Cottol, et come che l'istesso Domenico se n'à vantato (d) di questo con Christofer del Valar et altri.

I. a dir la verità quello sappi et habbi inteso de voci et fama di Domenica quondam di Vas di Zoanolin Trameiro (27) de Isolacia.

R. Se dice che la sia strega.

I. se sa l'occasione di tal imputatione.

R. Perché molti si lamentano de pochi boni andamenti di lei, particolarmente de fatturatione de bestiami, come si potrà examinare Bartolomè di P[ietr]o Lazer, detto di Menena, qual dise che, essendo dentro al monte in Valeia, viddi a venir duoi lupi, uno più grande di l'altro, li quali gli traversorno il prato et caminavano senza timore, pian piano, e lui per curiosità li andò dreto a veder dove andavano. Cossì arivato doppo un dossetto, non più li vidde, ma ivi ritrovò nel ajrale dove (e) si [trova] ancora del carbone due donne, cioè questa Domenica, detta la Chierica, con sua figliola Domenighina.

Interogatus.

R. Si potrà examinare mia cugnada, moglie di Gervas di Giuliano, per nome Malgherta, (28) come che questa Chierica li dimandò il vestidello che portava il suo putto. Essa gli rispose che ben ne haveva fatto un di novo al putto, ma che li faceva bisogno ancora di quello per mandarlo tal volta, et come, passati doi o 3 giorni, il putto della detta Malgherta s'infermò. Questa Malgherta senza dir altro mandò il vestidello a Domenega, le quali doi donne doppo pochi giorni, ritrovandosi da compagnia, Domenica disse a Malgherta: Vedi mó (29) che il mio putto porta il vestito et il vostro figliolo guarisse? Di più ho inteso de Balsar di Sc[i]uett, come che Christofero Pogliatto quondam di Lorenzo, havendo dimandato la nominata Domenega Chierica per lavorante, a falcolare, (30) essendo esso Christofero andato sul campo a principiare il lavoro, la detta Domenega vi andé per lavorarli, e cossì andò adreto al detto Christofero che non s'accorse e li mise le mani alla testa, e come che di subito al detto Christofero li vene gran furia di testa, che non ritrovava riposo. Et essendo esso per il dolore che haveva ritirato fori in tablato, gli venne in pensiero che costei gli havesse fatto qualche malia. Cossì ritornò dentro nel campo e disse alla detta Domenega che, se non gli restituiva la sanità, che la voleva scanare. Essa li disse che non bisognava haver cattiva cretta, (31) che saria guarito. E cossì disse che Dio e la Vergine Maria gli dasse la sanità, et come di subito li passò via tutto il male.

Dicens ipse ser Ioannes Iacobus Marnus: De queste informationi ne trovarano sin che ne vogliono. Se potrano examinare le sottoscritte persone, cioè Zuana et Barbara del Camozeir, Lorenz di Menic del Marno, ser Martin di Donà, Gioanina d'Abondi d'Anetta.

In causa Caterine.

3. Die iovis 26 mensis septembris.

Coram magnifico domino pretore citatus fuit et interogatus Christoforus del Valar, qui dixit: Ritrovandosi Abondio del Buron (32) et io dentro nei boschi, il detto Abondio disse che haveva per presontione che questa Catarina di Bertol della Gaspera fosse gravida, et che si dubitava da Domenico del Cottol, et come esso Abondio, per tirar fuori di parole (33) il detto Domenico, disse al'istesso Domenico che vi erano persone che erano stati ad ascoltare che lui fosse stato in compagnia a far male con la detta Catarina, ma che Domenico fece mentir per la gola che non fosse la verità. Sarano poi circa 15 giorni che, essendo in chiesa in Santo Abondio, mio fratello Giacomo me disse: Ti non sas che i disen (34) che Caterina di Bertol è gravida. Mi meravigliandomi, esso disse che fuori per l'Isolaccia se dice da tutti.

I. se Abondio sudetto parlò di Caterina sudetta overo d'altre.

R. Non sentì che nominasse la detta Caterina, ma sì bene Martha di Cotin. (35)

I. se esso ha detto, overo habbi inteso d'altri che questo Domenico del Cottol sia stato in letto dove fossero le due nominate, cioè Caterina et Martha.

R. Né mi lo so, né l'ò detto, né sentito a dir d'altri. E questo è quanto posso dir in verità. Et qui iuravit.

In causa Dominice.

Eadem die.

Citatus fuit et interogatus Baldesar quondam Ioannis Balser de Sc[i]uatt, [su] quello habbi per sentito da Christoforo Pogliatto in persona di Domenega la Chieriga nominata.

R. Sarano circa otto o dieci giorni che vene il sudetto Christoforo al mio molino, qual disse che cosa fosse andato Domenigo Gaglia a far a Camoasco. Mi li dissi che non sapea altro. Esso disse: Quella mia gudaza (36) Domeniga Chieriga meritaria esser abbrugiata. Dissi: Perché? Esso disse: Perché, essendo una volta venuta fuori in Pendei (37) a falcolare, la m'è instrià, che la me haveva fatto vegnir tutto balordo, (38) et come esso andé della detta Domenega e gli dise: Se tu non mi torni la sanità a me et a mio figliolo, te voglio scanar. Et essa rispose: Perché? Sono forsi stria? Esso: Sì, che tu sei, perché ti m'as instrià. Et come essa disse: Dio et la Vergine Maria te doni la sanità. E come esso si sentì sano de longo. (39)

I. de voce et fama dicte Dominice.

R. La ven lei pizada de stria, (40) como anco di Domenega sua figliola maggiore, ma a mi non me alla mai fatto mal alcuno, né vista a farne, ma la mormoratione vi è.

I. se ha sentito d'alcune persone lamentarsi delle dette madre et figliuola di qualche offese ricevute di maleficio.

R. Si potrà examinare Malgerta, moglie di Gervasio di Giuliano, di la quale intesi come che, havendo ella mandato a l'aqua il suo bestiame, (41) essendovi la detta Domenega giovine, il bestiame cominciò andar in torno e far strepito. Parte beverno et parte no. Ritornato il bestiame alla stalla, faceva pacia (42) et alcune [bestie] se butorno fuori per il ledame. Et come che la detta Malgerta andete dalla detta Domenega giovine e li disse che, essendo ella a l'aqua quando vi fu il suo bestiame, che bisognava che li havesse fatto vergotta, perché il bestiame faceva a quella guisa, che dovesse andarvi [a restituire la sanità] et credo che la vi andasse, et come il bestiame guarì, come meglio essa dirà.

Et hoc etc. Et qui iuravit.

In causa Caterine.

4. Die antescripta.

Christoforus de Pezel (43) quondam Laurencii del Trameiro, nominatus in processu, interogatus.

R. Mi non ho saputo altro di costei, che solo hieri sera mia sorella Maria me disse che se dicesse che questa Caterina fosse gravida, et io, domenica proxima passata, passando ella giù per chiesa, guardandola mi parse esser disfatta in faccia, al suo ordinario, perché altre volte si vedeva esser più grassa. Et la guardai per questo, che un de miei figlioli, segando a Giovan Battista Tampello a termine (44) di un prato di Domenica, madre della detta Caterina, detta sua madre disse che la sua figliola Caterina era vegnuda sozza (45) et che non mangiava niente.

Et dixit: Domenica, madre di detta giovine è mia cuggina.

I. che cosa si dica et sappi che alcuni habbino patito qualche danno per causa della sudetta Domenica.

R. Se l'accade vergotta in bestiami o altro, el pare che la Chieriga ne sia la causa, cosa che non so né credo. Et imputandola di tal cosa, ella piange e dice: Dio n'è testimonio.

Et dixit: La detta Domenica è mia cugina. Et qui iuravit. (46)

5. Eadem die.

Citatus fuit et interogatus Gervasius quondam ser Iuliani Gasparis.

I. quale informatione habbi di Caterina, figliola della Cieriga, che sia gravida, essendo che di questo ne ha conferto con altri.

R. Ritrovandosi in casa mia Menico, figliolo di Balser Sc[i]uatto, venne a raggionare di questa Catarina, digando (47) che fossero stati dentro al monte di quei del Cottol, ch'era del conte, (48) che i havevan fatto de grandi lavorerii nominando il Cramer et da lì un po' disse che questa Catarina doveva esser gravida, né più altro di questo se parlò.

Interogatus.

R. si potrà examinare Tonio di Lorenzin di Planalbino (49) che li anni passati hebbe una sua sorella amalata, qual si stimò esser stata maleficiata dalla figliuola della Chieriga, per nome Felice. (50) Di più se potrà examinare Piligrina de Domenic[h] di Guerin, come la detta Chieriga haveva fatto non so che a un suo figliolo.

Eadem die.

Citatus fuit Ioannes Antonius della Gottarda, et interogatus a dir la verità [di] quello esso sia informato de Caterina della Chieriga de Isolacia che sia gravida.

R. Mi non lo so per altro che, havendo per lavorante Giacomo di Francesco di Lorenz, esso disse che si diceva che la nominata Caterina fosse gravida, né più altro fu detto, et è vero che mi l'ho detto con Domenigo del Gaglia, né so altro.

Et dixit: Il padre di questa Caterina era mio germano.

I. de voce et fama di Domenega Chieriga.

R. Sono alcuni anni che ho sentito a dire da persone che la detta Chieriga sia stria, ma mi di fatti suoi non so altro.

6. Die veneris 27 mensis septembris.

Coram domino pretore comparuit citatus Christoforus quondam Laurentii de Donà de Isolacia.

I. che dica la verità quello li occorse di male per mano di Domeniga detta la Chieriga di Isolaccia, particolarmente quella volta ch'essa fu in un suo loco a falcolare, et essendo che voi vi sete lamentato con altre persone che sostenesti per causa sua di certo atto usatovi dalla detta Domenega sul campo gran balordimento di testa, (51) che poi dall'istessa fusti risanato con dire che Dio et la Beata Vergine vi restituisse la sanità.

R. L'istesso male lo patisco ancora adesso alcune volte, né da la detta Domenega, mia germana, ho ricevuto mai dispiacere da lei, né la tengho per tale. Né manco credo che persona alcuna con verità potranno dir che mi gli habbi parlato da simil cosa.

Die mercurii 2 octobris.

Denuo citatus suprascriptus Christoforus, et ei dicto se vi ha pensato di dire la verità sopra quanto fu examinato in fatto di quello li sia occorso in persona sua di male per mano di Domenega Chieriga, et se di ciò ne ha conferto con altri, come è deponuto per inscripto.

R. Signori, no, che mi non ho mai ricevuto male alcuno di lei, né tanpoco me ne ho potuto lamentare, (52) né mi son lamentato con alcun altro.

7. Die antescripta 27 septembris.

Coram antescriptis domino pretore etc. comparuit citatus Abondius della Barona. Interogatus super antescriptis in depositione Christofori del Valar, quid sentiat de Caterina, Bertolomei della Gaspara et Martha de Cottin, prout ipse alloqutus fuit cum dicto Christofero.

R. Non so di haver raggionato (53) con persona alcuna della detta Catarina, né so cosa alcuna da male di fatti suoi, né conosciuto alcun mancamento. È vero che havendo io lavorato in questa estate prossima passata dentro al monte che hamo (54) comprato, ch'era del detto conte, a fabricare là un casamento di novo, dove vi son stato anche io dal principio al fine et molti altri, et vi è stato alcuna volta ancora Andrea Malenco Cramer, né essendo niuno loco coperto dove potessemo dormire, ne ha convenuto dormire all'aperta (55) tutti su in poco de paglia, e homini e donne, et vi era ancora la detta Caterina come fantesca di detti Cottoli. E perché si dormiva così a rifosa, (56) alcuna volta ha dormito Domenico Cottol appresso di lei, come ho fatto ancora mi, ma per questo non li ho visto né conosciuto atto verono disonesto. Caterina de Cottin non vi fu là dentro. È ben vero che una volta, balando con il detto Domenico, per tentarlo e farlo smalgrizare, (57) li dissi che se diceva che havesse dormito con Martha di Cottin, ma esso negò, meravigliandosi che li dicesse tal cosa. Et iuravit.

8. Eodem die.

Comparuit citata Zuanna, detta della Camozera, de Isolacia. Interogata super contentis in processu, presertim de voce et fama Dominice Chieriga et eius filie Dominice.

R. Mi non l'ho vista a far alcun male, né so che habbi nociuto ad alcuno. La mormoratione gh'è, che li sian stria. Mi non so pó altro di male. Et massime doppo che la moglie del Gaglia, figlia di Francello, è amalata, questa mormoratione è cressiutta contra de la Chieriga, et se il more, o si amala vache o capre, si dà la colpa alla Chieriga, ma mi non so che l'habbi fatto mal alcuno come ho detto.

Et que iuravit.

9. Eo die.

Coram ut ante citata comparuit Barbara, soror antescripte Zuanne.

Interogata.

R. Mi non so che Domenega Chieriga sia né bona né mala, perché non so che habbia fatto mal ad alcuna né persona né robba. Pure che la moglie di Gervas di Giuliano, havendo una stalla di bestiame amalato, la tolse un poco di non so che con lei, (58) e andò dalla detta Domenega, che li dicesse che Dio et santo Antonio l'agiutasse.

I. se ha presentito d'altri alcune lamente, et per qual essa Domenega fu reputata nella contrada.

R. Mi non so dire. Nolglio (f) che dica una cosa che mi non sei.

[I.] Se vi dice che dica quello sa.

R. Se dice che l'é stria, parlando della vechia. Della giovine non ho sentì altro.

Et que iuravit.

Eodem die.

Citatus comparuit Laurentius del Marno.

I. quello sia informato per sé, o inteso d'altri alcune lamente di Domenega Chieriga de Isolacia, stando le mormorationi che sono contra di lei.

R. Mi non so altro, salvo quello ho inteso da mia moglier, perché mi non ho visto, che una sera una mia putta (59) era andata in casa della detta Chieriga, e sua figliola Domenega li haveva fatto le treze, et la sera istessa la putta pigliò male su la testa che puzava. La mattina seguente, venendo in casa nostra Domenega figliuola sudetta a imprestare una lesna, (60) mia mogliere gli disse: Guarda un po', Domenega, che la mia tosa d'hieri sera in poi, che gli facesti le trezze, la piglia mal su la testa. Et essa Domenega disse: La guarirà se Dio vol e santa Maria. Et come la putta doppo guarite.

I. de voce et fama delle due Domeneghe, madre et figliuola.

R. Se mormora che le siano strie tutte due, ma si raggiona (61) più della madre che della figliuola. In quanto a mi, non mi hano mai fatto mal nisuno, né so altro.

Et factis aliis interogationibus.

R. Mi non so d'altro.

Et iuravit. Addens che ha inteso da Domenico del Gaglia che l'era stato in casa della detta Chieriga, e ridendo disse: La mancò poco che vi habbia fatto correre meza la Vicinanza.

10. Die dominico 29 mensis septembris.

Coram illustrissimo domino pretore et dominis regentibus comparuit citata Piligrina, uxor Dominici de Guerino. (62)

I. de voce et fama Dominice della Chieriga et Dominice filie eius.

R. La mormoratione è che li sian stria. Che lo siano né no, non lo so, né credo che li siano.

Sibi dicto: Vi è mai occorso in persona vostra o alcuni di casa vostra occorso alcun male, che vi habbi dato occasione di sospettar d'esse, madre o figliola?

R. Saranno di già 15 o 16 anni che, havendo una puttina che li dava latte, intanto che una mattina andai a messa, la portai a casa di Bertol de Menena. (63) Fornita la messa, andai a tuor la puttina e, venendo per strada, andando verso casa, non m'incontrai in altre persone che nella sudetta Domenica la vechia. Non se disse altro che bondì e bon anno l'una l'altra, né manco essa mi toccò, che sappia. Andai a casa e, sclecciandomi (64) il petto per dar latte alla putta, me trovai il petto tutto pieno di fiacche, (65) come anco haveva il resto della vita, che mi causava spiurigine (66) grande. Venne mio marito e gli lo dissi. Esso andete da una nostra vicina, qual'è morta, a dimandarli che cosa si potese fare; ella gli disse che andassemo dal curato, come gli andai, et esso mi dimandò se havesse havuto qualche cattivo incontro. Li dissi che non mi era incontrata in altri che in Domenega Chieriga. Esso disse: Se havete qualche presontione di lei, andate ad imbutarla. Venni a casa, lo dissi a mio marito et esso andò alla casa della detta Domenega e dimorò alquanto a parlar con essa Domenica. Non già che l'imputasse di tal cosa, ma solo disse: Mi sto qua e la mia Pelegrina è tutta mal al'ordine. Et essa: Se la se sente qualche male, Dio e la Vergine Maria l'agiuti. Mio marito mi referì quello essa haveva detto, e cossì la sera avanti fosse notte quelle fiacche et spurigine mi passò in tutto, che non più mi sentì quel male. Che tal cosa mi sia ocorso per causa sua, non lo posso dire. Forsi sarà stata cossì la volontà di Dio. Per questo non posso dire che lei me habbi fatto alcun male.

I. se sa ch'altri si siano lamentati di lei in simil materia di maleficii.

R. Mi non sei altro (67) [che] quella di Gervasio di Giulian, che si lamentò non so che del suo bestiame. Si potrà examinare Felice, figliuola di Lorenzin del Blancho, che cosa li ocorse in persona sua. Del resto non so altro, se ben se mormora asai. Dicens: Questa Domenica era germana di mio marito.

11. Eodem die.

Comparuit citatus Bartolomeus quondam Petri Lazari.

Et interogatus super contentis in processu.

R. La verità è che, ritrovandomi dentro a Valeia (68) ha un mio loco, dove haveva il mio bestiame, et sarà circa 12 o 13 anni, che un'altra volta havete scritto di questo, che lavorava dreto al prato, et vi era lì dreto il mio (g) bestiame, vennero doi lupi che mi spaventà [il] bestiame, uno de quali pigliò un agnello e se ne andò, l'altro non potè far altro male, perché gli fui dreto. E cossì, essendoli andato dreto per il spacio di doi tratti di pietra, lontano del mio prato, questi doi lupi sparirno, né più li viddi. Andai più avanti e passai via l'aqua, né li viddi. Nel ritornare adrieto, venendo appresso il prato di questa Domenega Chieriga, la viddi lei con una sua figliuola che facevan via grassia. (69)

I. se in persona sua, o di casa sua, ha ricevuto qualche dispiacere dalla detta Domenega, o sua figliuola, o se sa ch'altri se ne siano lamentati.

R. Sarano tanti anni, come ho detto, che havendo una puttina in cuna, una sera venne in casa la detta Domenegha, che non era solita venirvi, e se mise appresso la cunna. E doppo un giorno più o manco, che non me ricordo, la figlioletta si amalò. Venessem in sospetto di questa Domenega, e mia cugnada la Zoppa la fece venir in casa a veder la putta, dicendoli che dicesse 3 volte che Dio e la Madonna li rendesse la sanità. E cossì fece la detta Domenega una volta, dicendo alla detta mia cugnada: Ho ben ditto. Gli disse che volesse replicare due altre volte l'istesse parole, e cossì fece. Poi andò via, ma la puttina fra duoi giorni morì.

Addens che un'altra volta, andando il suo bestiame al'aqua, la figliuola della detta Chieriga, lassò fuori ancora lei le due sue vache e, facendosi a pognare (70) una delle sue con una mia, la sua restò scornata, e la detta Domenega giovine disse: Maledetto sia la vacha et chi la tene in casa, che la non va del male! Fra duoi o 3 giorni la vacha pigliò mal nel ovri (71) che quasi si smarzì, et da lì alcuni altri giorni trovassemo la vacha in stalla morta con la testa fra le gambe da dreto, tutta in un groppo.

I. de voce et fama dicte matris et filie.

R. La vechia è mormorada per stria. Che la sia, chi lo po sapere?

Et qui iuravit.

12. Eodem die.

Comparuit citata Ioannina quondam Abondii de Anneta.

Interogata a dir la verità di quello sa.

R. Questa settimana passata, ritrovandomi dentro li prati a restelare in compagnia di Zoannina, sorella di Giovan Giacomo Marno, disse essa parlando di quella ch'ha tolto il Gaglietto: (72) Mercè, (73) se la toleva il mio nevodo, (74) non li andava cossì.

I. che cosa se dica della detta Domenega.

R. Son molti anni che prattico in casa sua. Mi non gli ho mai vedù nisun mal atto.

Et dixit: Il marito quondam della detta Domenega era mio zermano, nato da sorella.

13. Eodem die.

Comparuit citatus Vitalis quondam Ioannis del Folonario.

Interogatus super contentis in depositione ser Ioannis Iacobi Marni.

R. Questa estate, havendo in compagnia Tonio di Giacom del Sosio ha segarmi su alle Arsure, (75) venendo a raggionare fra di noi, il detto Tonio mi disse come Domenegho del Cottol s'era avantato con lei che fosse stato in un letto che vi erano due giovine, cioè Caterina della Chieriga giù di pè, et Martha de Cottin su da chò, (76) et come che esso Domenico ne havea fatto i fatti suoi della detta Martha. Di più dice haver inteso da Cristofen de Valar, questa estate circa la festa di santo Pietro, essendo via nel tablà del Valar che indiamo feno, (77) il detto Christoforo me disse come che Domenico del Cottol s'era avantato con lui, come esso Domenico haveva havuto compagnia cinque volte in una notte con Martha di Cottin.

I. se sa qualche cosa di Domenega Chieriga.

R. Se mormora abott, (78) ma mi non vi so dire cosa di fondamento.

Et iuravit.

14. Die lune, ultimo mensis septembris.

Coram domino pretore et domino regente Settimino, (79) citatus comparuit ser Martinus de Donà de Isolacia.

Et interogatus.

R. Mi non le ho viste a far mal alcuno. È vero che la voce è che la tale, parlando di Domenega Chieriga et Domenega sua figliuola che siano strie, perché el par [che], se l deventa vergotta nei bestiami, (80) che loro habbino la colpa.

I. che dica la verità se in persona sua, o alcuno di casa sua, li sia occorso qualche dispiacere, o infirmità, donde habbi potuto sospettare di malia.

R. Saranno di già 15 anni che, havendo un bel figlioletto de tre mesi vel circa, il putto cominciò a infermarsi e seccare della vita, (81) in modo che non pareva creatura, et per quanto che potessimo agiutarlo in portarlo anco in Valtellina de religiosi, uno de quali è, credo, che non mi ricordo, fosse uno di Sondalo, che disse che il figliuolo fosse faturato, et che dovessemo far abbruciare tutto quello che si trovava haver nella cunna, come facessimo. Con ciò il putto era venuto tanto in fine, che morse.

I. se in quel tempo questa Domenega Chieriga li praticava in casa, et se hebbe da lei, o dalla figliuola, sospetto che havessero maleficiato il figliolo.

R. Anci, sì, che e alhora e sempre hanno praticato in casa nostra, come ancora di presente, ma per questo non sappiamo, né possemo dire che loro li havessero fatto male alcuno, né pensato di tal cosa. N'è occorso ancora che, già alcuni anni sono, che mia mogliere Margarita cominciò ad infermarsi talmente, ch'era venuta a mal termine et, con occasione che quel medico di Camoasco era venuto a Bormio, gli parlassemo della infirmità di questa mia moglier. Il qual disse che era stata maleficiata et che gli haveva dato medicine che saria guarita, come fece. E havendo pigliate di quelle medicine, noi si credevamo che havesse a morire per il travaglio che sentiva al stomaco, ma esso ch'era presente disse che non dubitassero, che se vomitava saria guarita, come fu in effetto, che vomitò un cadin pieno di gran poltronarie (82) de diversi colori e dense. E vomitato ch'hebbe, in termine d'un hora fu guarita. Io lo pregai a volermi dire la persona che l'havea offesa. Mi disse: La vostra moglier, per Dio gratia, è guarita. Non occorre che ricerchiate altro. Vero che, essendovi Marcho di Giacomin Mascarpin, il quale era venuto in sua compagnia ivi in casa, essendo dimorato in casa detto di Camoasco per 3 giorni, detto Marcho intese dal detto medico (havendoli dimandato), che fosse stato quella persona che l'haveva maleficiata, come lui li disse, che fosse stato una donna ch'era passata da lì per strada, che ha una peliza, di tal hora. E facendo noi diligenza di saperlo, venessimo in cognitione che fu quella Domenega Chieriga che havea la peliza, et ch'era passata, et che di già fossero 15 anni che detta mia moglier era stata faturata con un poco di menestra, che havea avanzato una donna, stando dentro in quella casetta alla Sera d'Isolacia. (83) Et questo è quanto. Et iuravit.

Addens che ha presentito, ma non se ricorda la persona, come che questo Domenico del Gaglia ha detto come questo medico di Camoasco gli ha fatto vedere 3 donne in una zaina, (84) che havevano fatturato sua mogliere, domandandoli se le conosceva, et che vi fossero le due, madre et figliuola et un altra, e questo pare che sia venuto di bocca della moglie di Gervas di Giuliano. Di più aggionge come che sua moglier gli ha detto che, parlando con Domenico del Gaglia della infirmità di sua mogliere, lei gli disse: Se hai qualche sospetto in questa Chieriga, perché non la fai andar a dire che la gli restituisca la sanità? Et come esso li rispose: Ben questa la farò venire dove voi mi, ma el ve n'è un'altra più grande, che quella non la posso far venire.

Et hoc est qui iuravit.

15. Eodem die.

Coram domino pretore et regentibus comparuit citatus Iulianus, filius Gervasii Iuliani de Isolacia, et ei dicto che dica se vol dir qualche cosa.

R. Andei mi isa (85) su a l'aqua col nos bestiame e, bevendo il bestiame, questa Domenega Chierega venne fuori di un uscio di casa sua con una seggia. Il bestiame, quando che hebbe bevuto, voltò verso casa correndo e saltando, e arivato in stalla facea oltra del solito strepito grande, che poi se ne amalò. E mi lo dissi alla madre, come che questa Domenega era vegnuda fora da casa, in quella che (86) il bestiame era a l'aqua, et per questo si sospetò di lei, che mia madre tolse il sale e lo portò su alla detta Domenega et come essa disse: Dio e santo Antonio l'agiutti. Come essa dirà.

Et iuravit.

16. Eodem die.

Coram ut ante, scilicet domino pretore, domino regente Alberto et domino Ioanne Antonio Sermundo, locumtenente ser Ioannis Iacobi Settimini regentis, comparuit citata Ioannina ser Iacobi del Marno de Isolacia.

Interogata super contentis in processu.

R. Mi non sei altro, fuori che fora per questo agosto (87) prossimo passato, doppo che questa di Francello è amalata, venendo da chiesa con Domenega detta la Chieriga, essa mi disse: Che alla ciò (88) Barbola di Francello? Mi rispondo: Che so io? Essa soggionse: Vedes mó che bella giovene l'é vegnuda? Se la toleva me nevodo, la non saria in questo essere. Mi non andei col parolare (89) più avanti, né interogai d'altro, né più altro intorno a questo fu detto fra di noi.

I. de voce et fama dicte Dominice ac eius filie Dominice.

R. Le sono lora isa pizada, (90) et se dise che li fanno questo e quell'altro e che li saran stria. Che lo sian, non so di fatti soi altro, né a mi me hanno mai fatto mal alcuno, né so d'altro. Et doppo che quella del Gaglia è amalada, i hanno havuto presontione che costei gli habbi fatto vergotta.

Et iuravit.

17. Die martis primo mensis octobris.

Coram domino pretore et domino regente Settimino citata comparuit Margarita, uxor ser Martini de Donà. Interogata super contentis in depositione eius mariti, de quo sub die heri.

R. che la verità è che di già molti anni sono che un suo figlioletto si infirmò di straordinaria infirmità, perché el seccò tutto, e per quanta diligenza che facessimo per agiutarlo, come portarlo in Valtellina da religiosi, il putto morì.

I. se, havendo inteso che il putto fosse maleficiato, ha sospettato d'alcuna persona.

R. Signori, no, che mai ho havuto tal presontione di maleficio.

I. se questa Domenega Chieriga praticava in casa sua in quel tempo.

R. Signori, sì, che questa donna e alhora et doppo sempre ha praticato in casa nostra.

I. se sospettò di lei che havesse potuto nocere al detto suo putto, se li conobbe mai alcun atto di tal sorte.

R. Signori, no, che non hebbi mai presontione di lei, né d'altri in simil cose, né li ho mai conosciuto atto cattivo, et ancora adesso pratica in casa.

I. che dica la verità in chi ha sospettato di lei esser stata maleficiata, essendo che per tal occasione fu medicata di quel medico di Camoasco, donde per via di vomito è risolta.

R. Mi non ho sospettato in nisuna persona, né mi ho creduto che mi fosse fatto maleficio.

Sibi dicto: Intendesti dal detto medico qual persona fosse stata quella che vi havea maleficiata?

R. Signori, no, che mi non interrogai, perché era travagliata dal male. Ben vero che esso disse che mi era stato fatto non so che, o incontrata in cattiva hora. (91) Mi pare ben sì che esso dicesse. Che poi l'habbi detto con mi o altri di casa che me l'habbino detto, non mi ricordo, che l'era stato una donna che era passada, che portava una peliza. Et perché questa Domenega Chieriga era mormorada, pensassemo che la potesse esser lei stata quella, et perché era solita delle volte a portar la pelizza.

I. se, stando nella casetta (92) via alla Sera de Isolacia, si ricorda ch'essa habbi dato della minestra a una donna et, non havendola essa fornita da magnare, essa magnò il resto.

R. Signori, no, che non mi racordo di questo.

Et factis aliis interogationibus.

R. Mi non sei altro.

Et iuravit.

Eodem die.

Citatus comparuit Franziolinus de Casa (93) de Isolacia.

I. che cosa pensa sia accaduto alla sua figliola Barbola, che sta amalata di strana infirmità, come si parla, che non magna cosa alcuna e vive sempre de aqua, se ha sospetto di qualche maleficio fattogli.

R. Signori, no, che non ho tal presontione, né so da chi sospettare.

I. che cosa se dica nella contrada de Domenega Chieriga.

R. El se dice che la debba esser stria.

Sibi dicto: Per questa mormoratione havete sospetto ch'essa possi haver fatto qualche male alla detta vostra figliola Barbola amalata?

R. Signori, no, che non ho tal presontione di fatti soi, et ancora che la fosse stria, non ho cretta che la possia nocere.

Et iuravit.

18. Die mercurii, secundo mensis octobris.

Coram domino pretore et domino regente Settimino citatus, comparuit Laurentius quondam Tonii del Trameiro de Isolacia.

I. che dica quello si tiene di Domenega Chieriga d'Isolacia, et si dica di lei.

R. Il marito della detta Domenega era germano della quondam mia mogliere, né di lei posso dir male, perché sempre quasi ogn'anno mi li ho lavorato a lei et lei a mi. Ho magnato e bevuto in casa sua. Mi non ho mai pensato male di lei, né l'ho visto alcun cattivo atto.

I. se in persona sua, o alcuno di casa sua, gli sia mai intervenuto o occorso qualche male che gli habbi dato occasione di sospettar di lei, come quella ch'è mormorada etc.

R. Mi son stato amalato molte volte, perché son amaladiccio, et ho havuto di figliuoli che son stati amalati li anni. Per questo mi non ho mai havuto di lei presontione, né sospetto alcuno, né mai pensato a tal cosa. Se Dio ne ha datto le malatie, siamo per anco guariti et rihavuta la sanità quando ha piaciuto a Dio. Et essa, quando eramo (94) amalati, lei veniva in casa a visitarne come parente, et sempre diceva: Dio et la Madona vi guardi da male et vi dia la vostra sanità. Et queste parole le replicava da sé molte volte, né so che dir altro, perché mi mai ho havuto tal paura di lei, né pensato a simil cose.

I. se ha sentito d'altri a lamentarsi di lei.

R. El se dice cosa asai et da molti. Che sia, né no, mi non so altro.

Non iuravit. (95)

19. Eodem die.

Citatus fuit et interogatus dominus Bartolameus Quadrius de Burmio quello esso sia informato et habbi presentito di queste stregarie che se usano et si parla.

R. Mi non posso dir cosa alcuna di scientia, se non quel tanto ho inteso d'altri.

Sibi dicto che dica et nomini le persone et quanto habbi inteso.

R. Da Bertolo di Menena intesi che lui, essendo dentro in Valeia al suo loco che faceva via grassa, vi venero doi lupi, li quali caminavano pian piano senza paura. Et come lui li andò dreto sino passato un certo rino di aqua, (96) che passato il rino non li viddi più, ma che trovò assettate (97) due donne, madre et figliola, cioè Domenega Chieriga et sua figliuola, una de quali se calzava.

Di più ho inteso da ser Ioan Iacom Marno, per quello esso habbi sentito da Lorenzo di Menico del molin, che essendovi stata una sera una giovine in casa sua a far le trezze a una sua figlioletta, che questa putta la notte non riposò, et come la mattina la testa gli era venuta infiata et haveva su male che puzava, et che, con occasione che la mattina seguente questa giovine, cioè Domenega, figliola della Ceriga, vi andò in casa a imprestare una lesna, gli fu detto: Guardate un poco che male è vegnù alla testa della tosa da hieri sera in poi che li facesti le treze! Et come essa Domenega disse: Dio e la Madona li dasse sanità. Et come la putta cominciò a guarire.

Di più ha inteso da questo Domenego Gaglia , doppo ch'è ritornato da Camoasco, che essendo lui andato là per occasione dell'infirmità di sua mogliere, esso medico li disse che sua moglier fosse stata maleficiata da madre et figliuola, et come esso sospettava dalle dette Domenega Chieriga et sua figliuola, et che fosse andato a casa di essa Chieriga ha imbutarla, et che la detta Domenega li rispose: Per quello che mi posso, Iddio et la Madona li doni la sanità.

Di più che, ritrovandosi a Semogo in casa di Vasin Morzello per alcuni conti da farsi, essendo amalata sua moglie, si lamentava della longa sua infirmità, et che non sapeva che poter credere di lei, della strana infirmità.

Di più sentì dal Boratto (98) come che esso vi era stato in casa del detto Vasino, et che li fossero mostrati capelli che haveano forma di ghussi di lumache, (99) che erano usciti dal corpo di detta donna.

I. se Vasino sospettò di alcuna persona che l'havesser maleficiato.

R. Signori, no, che non nominò persona alcuna.

Et iuravit.

20. Die 4 mensis octobris.

Coram dominis pretore et regente Settomino, citata comparuit Martha, filia Ioanni Cottin de Semogo.

Et interogata a dir la verità, come essa habbi havuto compagnia con Domenico di Tonio Cottol, come dalle depositioni per inanzi si lege.

R. Signori, mi son qua per dire la verità.

Sibi dicto: Dite donque il vero, come vi sia ocorso con quel Domenico, con qual occasione et quando et il luoco.

R. Questo non sarà mai la verità. È ben vero che una sera mi partì da casa, in compagnia di Caterina della Chieriga, [per] andar su a Cardoné a cacciarvi lassù al monte de questi del Cottol, de quali essa Catarina è fantesca, duoi maiali. Et perché quella sera fu tanto cattivo tempo che pioveva e fioccava, fui necesitata star là quella sera, né essendovi altra comodità di dormire, se bisognassemo metter tutti tre in un letto in casa del Sachetta, cioè il nominato Domenico Cottolo, la detta Caterina sua fantesca et mi. Vero che lui era svestito e noi due vestite, né per questo è occorso male alcuno, di l'una né di l'altra. Et chi dirà, o vol dir altramente contra di me, se ne mentano per la gola, come tanti ladri del honor me.

Sibi dicto: Avertite, Martha, che noi habbiamo per sicura relatione et scrittura, che voi sete stata altre volte con il detto Domenico in letto et havete seco havuto carnale copula.

R. Signori, no, che questo mai sarà la verità, che non più che quella sol volta, come ho detto, che vi fu in compagnia Caterina sua fantesca, son stata in letto con lui. Replicando che coloro che dican mentono come ladri del honor suo.

Et ei dicto: Voi negate ogni cosa, non havendo pensiero che siate in obligo di giurare.

R. Mi non voglio giurare.

Et replicatis ei interogationibus.

R. Non sarà mai la verità che mi habbia havuto con il detto Domenico carnale compagnia. Ben vero che haveremo solazato e saglì (100) da compagnia, ma con lui non ho havuto affare carnalmente, né con lui né con altri, che per gratia de Dio, se son povera di havere, non voglio esser del honor mio.

I. se sa che Domenico habbia havuto che fare con la detta Catarina sua fantesca.

R. Mi non lo so. Son stata seco in compagnia. Mi non l'ò vista far mal alcuno.

Addens: Dirò la verità, et è che quella volta che Caterina et mi fossemo seco in letto, lui e mi eramo svestiti e Caterina no, né per questo è ocorso alcun male.

Et replicatoli che deve giurare.

R. Hoggi non voglio giurare. Un altro dì, se haverò da giurare, giurarò.

Quibus auditis, datum ei fuit terminum ad diem crastinam.

21. 1630. Die sabbati 5 mensis septembris.

Coram dominis pretore et regente Settomino, ser Martinus de Donà d'Isolacia addit eius depositioni che: d'haver inteso dal quondam reverendo prete Martino Fogarolo (101) alias curato a Pedenosso, come doppo che la Chieriga d'Isolacia gli buttò adosso della polvere, che non più s'era sentito bene.

Et hoc pro iuramento facto in die eius depositionis.

22. Eodem die.

Margarita uxor suprascripti ser Martini Donati addit eius depositioni che, stando là in quella casa alla Sera, in occasione che facevano dil pane et vi era la detta Chierega che agiutava, imbatendosi lì il reverendo prete Martino Fogarolo li disse: Non vi fidate a lasciar andar questa donna per casa!

23. Eodem die.

A prefatis dominis pretore et regente examinatus fuit Christoforus del Bugliolo (102) de Isolacia.

R. Mi non ho mai havuto creta che queste sorti de donne sian cative, né che possin far male alcuno. È ben vero che di già molti anni scorsi havei un bove che mi era caro 25 scudi, et se infirmò che l'era venuto di sorte che l'haveria dato per 10 lire. Ricorsi dal ser Giacomo del molino [per dimandare] che cosa si potesse fare, di farlo segnare, (103) come esso li rispose: Se el ghe vol, altro che segnare! El bove è stato maleficiato. Et come esso Christoforo fece chiamare una per nome Christina zoppa (104) quondam di Bormo della Scala d'Isolacia, la quale vi venne e pizzò (105) una candela benedetta di cera, e con quella l'abbrugiò di peli della testa del bove fra una orechia et l'altra. Poi abbruciò con la candela il collo del bove con dire alcune parole, et come che il bove che stava butata giù, si levò e guarì.

Di più dice di haver sentito da Barbola, figliuola di Francello, qual di presente sta amalata, come che essendo essa Barbara andata a l'aqua a lavar di panni, che vi venne ivi la figliola della Chieriga, Domenega e la volse agiutar a lavar, ancora che la detta Barbola non l'havesse caro, et come d'alhora in poi, la non s'è sentita più bene.

Et qui iuravit.

24. Eodem die.

[A] prefatis dominis examinata fuit uxor dicti Christofori, que respondit et dixit ut deposuit antescriptus Christoforus, eius maritus et renuit iurare cum habeat virum. (106)

22. (107) Eodem die.

Examinata fuit suprascripta Christina clauda.

Et interogata che cosa la sappi delle due donne, cioè la Chieriga et sua figliola, et che cosa se dice di fatti suoi.

R. Mi non ho mai havuto cattiva cretta di fatti suoi, né che li habbino fatto, né possin far male alcuno. È vero che una volta, venendo il quondam reverendo messer prete Martino Fogarolo da Semogo, arivat ivi alla casa di ser Martin di Donà, si buttò giù sopra un sasso a bever dell'aqua, e ne bevete asai. Mi gli disse: O Dio, non bevi tanta aqua! Et come esso li rispose: Non posso far altrimenti, perché me sento tant male, che non posso più! Son stato maleficiato. Mi li dissi: Non bisogna haver cattiva cretta. L'é la cattiva cretta. Esso disse: Bisogna ben haver la cretta, quando s'ha il mal adosso. Li dissi: In chi sospettate voi? Esso li rispose: Della Chieriga, digando (108) che, essendo essa andata per confessarsi a casa sua, che se ben la lobbia (109) avanti la sua stuva (110) era piena di persone, che la se fece largo di venir inanzi per venir in stuva. E come esso vidde che la detta Domenega su l'uscio di stuva misse mano nella saccola (111) e tolse fuori non so che e entrò in stuva per confessarsi, et che el dubitò che li havesse misso adosso qualche cosa, che dispò (112) non s'è sentito sano.

Sibi dicto: E voi, che cosa vi è occorso che sete zoppa? Sete forsi nata cossì zoppa?

R. Signori, no, che non son nata zoppa, ma doppo che me maridai dentro in quel formigar di (h) bordello, son deventata come me vedete, che quando son andata dentro eri sana, et dispò che i comenzorno a menar fuori di quelle streghe.

Et hoc est. Et iuravit.

Die sabbati 12 octobris.

Denuo a domino pretore interogata se vole aggiongere alla sua depositione, essendogli dato tempo di pensarvi.

R. Me aricordo che il quondam prete Martino Fogarolo disse che era stato maleficiato dalla detta Domenica, et che viveva e voleva morir su in quello.

Et hoc per relat[ionem] predicti domini pretoris.

Die vero 5 mensis octobris.

In termino ei statuto ad melius considerandum de quo sub die heri ut ante, denuo interogata super contentis in prima eius depositione Martha Cottina.

R. Mi non so che dir altro. Volé che dica quel che non so? Quel che havea da dire, ho detto.

Sibi dicto che averti ben a dir la verità prima che far giuramento, affine non faccia torto a l'anima sua, né ad altre persone.

R. Mi haveramo intramazà e saglì, (113) ma non è occorso mal nisuno.

I. se la verità è che lei habbi dormito nuda con Domenico Cottol.

R. Signori, sì, l'é la verità, dalla camisa in fuori. (114)

I. se Domenico l'ha bacciata e toccata alle parti vergognose.

R. Signori, sì, che l'é stato patron di toccarmi nella persona come voleva, ma non è seguito mal nisuno.

Sibi dicto: Come è possibile che, essendo esso stato patrone di toccarvi a sua voglia, per anco non habbi havuto a far carnalmente con voi?

R. Non è occorso altro fra di noi di quanto ho detto.

Sibi dicto et sepies repplicato se vol giurare di non haver havuto compagnia carnale con lui.

R. Mi sì, che giurarò.

Et ei dicto con qual bona conscientia possi giurar tal cosa, se l'istesso Domenico s'è avantato haver con essa voi havuto cinque volte carnale copula.

R. Se l'ha detto, non l'ha detto la verità, se ne mente per la gola. L'é ben vero che l mi è venuto tre o quattro volte adosso per voler fare i fatti suoi, ma non li ho acconsentito.

23. Die lune 7 mensis octobris.

Dominicus antescriptus quondam Ioannis Gaglia in Pretorio coram dominis pretore et regente Ioanni Francisco Alberto constitutus et denuo hortatus de veritate dicenda super eo quod examinabitur.

Et interogatus se, oltra quanto esso nelle sue precedenti depositioni ha protestato, dica di più quello et quanto habbi inteso dal medico di Camoasco, dal quale esso ha havuto ricorso per occasione della infirmità di sua moglie Barbara, et che esso li habbi fatto vedere e conoscere.

R. Essendo come di già ho detto per inanzi alle signorie vostre andato là da questo medico di Camoasco per consiglio et agiuto della detta mia moglier, havendolo fatto chiamare, è venuto da me. Doppo l'haverli racontato l'infirmità della detta, esso mi dimandò se havesse qualche presontione in alcuna persona. Li dissi de no. Replicò esso dicendo se nella sua contrada (dimandandò il nome della contrada) vi fosse mormoratione o presontione d'alcuna persona. Li dissi che le tali donne, nominandoli Domenica Chierica et Domenegha sua figliola, erano mormorate. Esso mi disse: Ve le farò vedere. E cossì se partì, credo andasse a casa, e fra poco ritornò portando seco una zaina con vino bianco overo aqua e, mostrandomi la zaina, par che me stremisse. (115) E guardando la zaina, et ero un puoco lontano, in quella viddi due figure che me parsero alla effigie et alli vestimenti esser quelle due nominate, cioè la madre et figliuola, ma mi non lo posso credere.

Et qui iuravit.

24. Die martis 8 mensis octobris.

Coram domino regente Ioanni Francisco Alberto, citatus comparuit Marchus quondam Iacobini Bormolini in depositionibus antescriptis nominatus.

Et interogatus che memoria habbi che si sia ritrovato in casa di ser Martin di Donà de Isolacia li anni passati, in occasione che vi fu quel medico di Camoasco per medicare la moglie dil sudetto ser Martino, et che cosa intese dal detto medico della sua infirmità, et chi l'havesse maleficiata.

R. Me aricordo esser stato in casa di Martino di Donà, che vi era detto di Camoasco, credo che l magnasse. Ch(e) l fosse lì per medicarla né no, non lo so. Mi ricordo ancora che una volta, venendo per strada, ch'esso andava in Livigno et io in sua compagnia sino in Trepalle, il quale me disse: La moglier di Martin stava molto male. Se non arivavo quanto prima, la voleva mangiar poco pane. (116) Et doppo la moglier del sudetto Martino mi disse come che l'haveva vomitato molta forfantaria.

I. se intese qualche cosa da parte del detto medico, da qual persona essa moglie di Martino fosse stata maleficiata.

R. Signori, no, che né mi interquerì, né lui mi parlò di tal cosa.

I. se ha inteso qualche cosa di Domenega Chierega.

R. Signori, no, che per quel che mi sappia non l'ha fatto mal nisun, se ben se van digando parole senza fondamento, [non posso dire] di haver vedù né questo né quel'altro né più altro.

Et iuravit.

25. Eodem die.

Dominus pretor cum ser Ioanne Iacobo Settomino regente retulerunt examinasse *** uxorem Gervasii quondam ser Iuliani de Isolacia, se ha qualche lamenta di Domenega Chieriga et sua figliuola. (i)

26. Die veneris 11 mensis octobris.

Coram domino pretore et domino regente Settomino, citatus fuit Tonius Lorenzini de Planalbino.

Et interogatus se gli è occorso in casa sua per sé, o alcuno di casa sua, che habbi havuto occasione di sospettar di maleficio usato.

R. A mi non m'è accaduto altro, né in casa nostra, che mi sappia. El vi è sì qualche mormoratione.

Sibi dicto che sorte di mormoratione.

R. Ho mi sentito da mia sorella un po' de mormoratione, che lei che è qui presente lo potrà dire. Del resto mi non so altro di questa Chieriga.

Sibi dicto: Che cosa havete inteso dalla detta vostra sorella?

R. L'anno passato di autunno, venendo la detta mia sorella Felice da chiesa da Pedenosso per la strada verso Isolacia, per quanto ho inteso da lei, la figliuola della Chieriga gli corse dreto e la pigliò per un spalarolo (117) e la tirò un po' in dré. E arivata a casa, oltra l'ordinario gli creseva la voglia di mangiare, e sempre havea fame che pareva non si potesse saciare. Questo seguitò alcuni giorni, che poi la detta mia sorella s'infirmò. Mudassemo poi dentro in Valacia (118) e la guidassemo dentro, dove andava peggiorando e desiderava e domandava che voleva il prete. Cossì venni fuori e facessi venir dentro il prete, messer curato di Pedenosso, in Valaccia. Si confessò e comunicò. Doppo parse che la se remettesse alquanto, che poi siamo mudati fora. Et essendo venuti fuori, questa mia sorella, la quale mentre fu là dentro in Valacia amalata, che alcune volte la se perdeva e li veneva, come essa diceva, non so che alla gola, per quanto ho sentito da loro donne, et sempre haveva in pensiero et diceva che li pareva di vedere la detta Domenega, et sospettava di lei che per haverli usato quel atto, li havesse fatto vergotta di male, li venne in pensiero di far dimandare la detta giovine Domenega, che venisse a dire che Dio e la Madonna li tornasse la sanità, come credo che vi venesse a dirlo. Ma per questo detta mia sorella non è mai risolta dal tutto, et come ho sentito dalla detta sua sorella che questa Domenega gli disse perché era stata così tardi, che la doveva dimandarla più presto. Et hoc est.

Interogatus de voce et fama dicte Dominice Clerice et eius filie.

R. El se mormora su isa, (119) e una volta che mia madre cacciò una sua vacha a l'aqua, e ritornando a casa la vacha, cominciò su la porta a tremare, e mia madre perché la detta Chieriga gli haveva dimandato del fieno, che lha ne havea poco, sospettò della detta Domenegha, e tolse un braccio di fien e lo portò alla detta Domenega e gli buttò il fieno in tablato, poi caminò, né lei disse altro e la vacha guarì po. (120)

Di più, una volta fui chiamato dalla moglie di Gervasio di Giulian, che andasse via a vedere una sua vacha amalada. Andei via et, fra l'altre, una haveva butato vedel et haveva butato fora dal corpo la madre. (121) Li remediassemo, e viddi lì in stalla di l'altro bestiame che stava per terra.

I. se la detta donna si lamentò o sospettò che al detto bestiame gli fosse fatto qualche male.

R. che per esser il detto so bestiame la sera inanzi andato a l'aqua, che si era spaventato al ritornare a casa et in stalla, che havea sospition di quella Chieriga, perché ella fu lì al'aqua quando vi andò il bestiame a bevere. Et come che esso Tonio toglieva di vedei in braccio a farli tetare, che pareva che fossero morti, et alcuna volta i levavan su da loro (122) e caminavano, e come la detta donna andé su a parlargli non so che. Non so poi altro. Et ho sentito a mormorare d'altri che le due donne, madre et figliola, sian strie, ma mi non so altro di fatti suoi.

Et iuravit.

27. Eodem die.

Citata comparuit Felix antescripta, soror dicti Tonii.

Et interogata come li sia ocorso in fatto di male, ch'essa sia stata amalata tanto tempo et se ha sospitione di qualche maleficio, et da qual persona sia stata offesa.

R. L'autunno passato, sarà circa un anno, che venendo io da Pedenosso, ch'era stata a messa, verso casa, mi venne dreto Domenega, figliola della Chieriga de Isolacia, la quale senza altro dirmi mi chiappò da dreto via al spalarolo del vestì e mi tirò un po' indrè. Mi non dissi altro, né lei disse altro. Venni a casa mia, e da lì a un dì o duoi mi sentì una gran gravezza di collo et di spalle, con una cosa che mi veneva alla gola che mi rendeva gran dispiacere. Mi l'andai sopportando questo male per circa un mese, poi vedendomi a peggiorare, lo dissi alli mei di casa del'atto che costei mi haveva usato, et il male che mi sentiva. Mudassemo poi in Valacia, e vedendo (j) che peggiorava, che non podeva far niente, mandai la mia sorella Anna fori da Valaccia a casa delle dette Chieriga et figliuola a imbutarla che, doppo che lei mi haveva usato quel'atto venendo per strada da messa, non mi ero mai sentita più bene della mia vita, et sempre mi pareva haver la detta Domenega presente et nelle orechie, che non me la podeva scacciare dal pensiero. Cossì vene fuori e andò in casa di detta Domenega e li disse quanto doveva di questo mio male. Mi referì la detta mia sorella come che la vechia di subito, sentendo a dire questo, disse che Dio e la Madonna mi desse la sanità. Ma quest'altra Domenega, sua figliola, non voleva dir niente, e la vechia dicea a mia sorella che la facesse dire, come poi disse un po' di non so che, ma non disse inandreit (123) come haveva detto la vechia, né per questo mi sentì alcun miglioramento e mi continuava l'infirmità, che non potevo far niente e dubitava de mi. Cossì pregai mio fratello Tonio che venesse fuori a dimandar il signor curato, qual venne dentro a confessarmi et comunicarmi, che doppo mi parse esser allegiarita alquanto dall'infirmità, sino poi che siamo mudati fora di Valaccia, che poi mia madre andò a casa di queste donne e fece che la detta giovine Domenega vegnisse giù a casa nostra, come venne. Alla quale gli dissi come che, doppo che lei gli usò quel'atto venendo da chiesa, che non più mi havea sentita bene, né stata sana. Essa disse che non mi havea fatto mal alcuno, e disse che Dio e la Madona mi agiutasse e mi dasse la mia sanità. E noi li dassemo un poco di fieno et un poco di farina, e andé via.

Addens che, quando mia sorella venne fuori, che la detta Domenega li disse che doveva venir in persona. Et quando che gli andò in casa a dir che Dio l'agiutasse e dasse la sua sanità, che la detta Domenega disse: Dove sei stata isì dina, (124) che non sei venuta più presto?

I. de voce et fama dicte matris et filie Dominice.

R. Sentì mi isa a mormorare d'altre che li siano cattive. Mi no sei po altro, (125) mi non voglio dire quel che no sei, che li sian, né no.

I. se adesso si sente sana.

R. Non son ancora ben libera, perché mi senti ancora alle volte di quella graveza di spalle et venir alla gola non so che, che mi vol negentar via. (126)

Et ei delato iuramento, iuravit etc. dicens: Mi non sei che la sia, né che la non sia.

28. Eodem die.

Coram ut ante, citata comparuit Dominica uxor Laurentii Ioannini del Marno de Isolacia et filia Iuliani Balserini Pedrane. (127)

Interogata a dir la verità, che cosa si dica nella contrada di queste due Chierighe, madre et figliola.

R. El fu murmurà che li sian strie. Che li sian, mi non lo so, perché mai li ho conosciuto nisun soz atto. Siamo vicini. Lor son venute a casa nostra et noi nella sua, né per questo posso dir mal di loro. È vero che, se l'occorre qualche male de bestiami, se dà la colpa alle Chierighe, che mi non so po altro. Mi non li ho visto a far mal alcuno, né mi hanno fatto mal nisuno.

Et que iuravit.

1630. Die veneris 11 mensis octobris.

Postquam in magnifico concilio hodie congregato lectus fuit processus antescriptus contra antescriptam Dominicam quondam Vasini Tramerii de Isolacia et alteram Dominicam filiam formatus, ordinatum fuit quod ambe mater et filia detrudantur in carceribus communis pretorii et detineantur, scilicet mater in carcere inferiori et Dominica filia in carcere obscuro superiori, usque ad beneplacitum magnifici concilii. Quod factum fuit, et incarcerate die sabbati 12 mensis presentis octobris.

Eadem die sabbati 12 mensis octobris.

Constituta fuit antescripta Dominica quondam Vasini del Trameiro de Isolacia, dicta la Chieriga, in carcere detenta.

I. se sa la causa della sua pregionia.

R. Non so niente.

Sibi dicto: L'occasione et causa di questa vostra pregionia è la mormoratione grande che è verso di voi nella contrata de cattivi portamenti, che voi mai non ne havete fatto resentimento del honor vostro.

R. Mi non so cosa sia contra di me. Se alcuno hanno detto qualche cosa, ho perdonato a tutti per amor de Dio.

Sibi dicto: Sapete quel che sia detto de voi?

R. Signori, no.

Eidem dicto: Voi havete imputatione che habbiate maleficato il quondam reverendo prete Martino Fogarolo, come esso istesso ha protestato esser la verità.

R. Questo non è la verità. Se lui l'ha detto, me ha fatto torto, e Dio gli lo perdoni e diali il paradiso. Se altri l'hanno detto, se ne menton per la gola.

Et factis ei aliis interogationibus, respondit negative.

Nec fuit ulterius interogata et in solita carcere abducta. (128)

1630. Die lune 14 mensis octobris.

A magnifico concilio ordinatum fuit quod Dominica, filia quondam Bartolomei della Gaspera de Pusclaina in carceribus detenta constituatur coram predicto concilio et interogetur super contentis contra eam de quibus in processu.

Ibidem constituta dicta Dominica filia.

I. se ha pensato di rispondere et dir la verità di quanto fu examinata sabbato passato.

R. Signori, sì, che vi ho pensato et ho detto la verità.

Sibi dicto: Havete memoria di che fusti essaminata?

R. Signori, sì, che me dimandasti se havea lavato di panni a Barbola, figliola di Francello, e non è la verità, che mai vi andò alcuno, né da nisun tempo li lavai di panni, né in sua compagnia, né altrimenti, né persona alcuna lo potrà dir in verità.

Interogata a dir la verità, se fu presente quando che una sua vacha fece a pognare con un'altra di Bertol di Menena, et restando la sua scornata disse: Sé maledetto la vacha, che la non va dil male! (129)

R. Non fui presente quando li se pognorno, perché la vacha fu cacciata al'aqua da un putto, né mi racordo che habbi detto quelle parole. Le potrei haver detto in colera, che non mi racordo. Se la vacha fu amalata, l'é perché fu picigata da verme, o pizzo, che la pigliò mal nel ovri, (130) che poi li convenne farla segnare. Et credo sia stata segnata una volta o due dalla sorella del Poglio, per nome Cristina et Ioan Iacomo del molino, et doppo fu tagliata da Lorenz del Blanco, e la vacha era guarita. Ma perché la fu ligata troppo longa, voltandosi la vacha a lengersi li ovri (131) che guariva, essendo venuta debole dil male, cascò con la testa fra le gambe e la trovorno morta. Et questo per quanto habbi inteso da loro di casa, perché mi non fui in casa sua.

Denuo interogata se ha voluta agiutare lavar panni alla nominata Barbola.

R. El potria esser stato fuori per i tempi, (132) che mi non me aricordo che mai me sia imbatuda a lavarli panni.

I. se la verità è che esa, venendo de Pedenosso doppo la Felice di Lorenzin che li passava avanti, essa la pigliò per un poco del vestì e la tirò alquanto indré.

R. Signori, no, che non è la verità che l'habbi toccada, né in ben, né in male.

I. se essendo la detta Felice in Valaccia amalata, gli è andato a casa sua et di sua madre la sorella dilla detta Felice a dirli da parte di Felice come che, doppo ch'essa li usò quel'atto di toccarla, non più si havea sentita bene, (133) et che però volesse dire che Dio e la Madona li restituisse la sua sanità.

R. El sarà come havete detto.

I. se si aricorda haver detto alla detta sorella di Felice alhora, che Felice dovesse venir in persona.

R. Non è la verità.

I. se la verità è che, doppo che la detta Felice venne fuori da Valaccia, essa Domenega fu dalla madre di essa Felice dimandata andar a casa sua, et essendovi andata, la detta Felice li disse l'istesso, che doppo che lei la toccò venendo da Pedenosso e la tirò un poco indré, che non haveva havuto più la solita sanità.

R. L'é vero che essa lo disse, ma mi la feci mentir per la gola, che non l'havessi toccata, né usato altro atto con lei.

I. se essa Felice li dimandò a voler dire che Dio e la Madona li restituisse la sua sanità.

R. Signori, sì, che haverò detto che Dio e la Madona gli dasse la sua sanità, come ad ogn'altro, e che la Dio gli la conservi.

I. se essa Domenega li disse a Felice perché fosse (k) stata tanto a venir da lei.

R. Questa parola non l'ho detta.

Et factis ei aliis interogationibus.

R. Me fan torto e lo dican a torto e picca. (134)

Die martis 15 mensis octobris.

A magnifico concilio Burmii congregato, ordinatum fuit quod Dominica antescripta filia constituatur coram predicto magnifico concilio et interogetur si addere vult interogationibus et responsionibus sibi die heri factis.

Et ita constituta antescripta, interogata fuit ut supra.

R. Ho detto la verità in tutto. Non ho che aggiongere. Cossì fussi libera de gli altri peccati che si comettono ogni giorno, come son libera de quest peccà.

Et factis aliis interogationibus, negat in omnibus.

Et sic abducta fuit ad solitam carcerem.

Die vero mercurii 16 mensis octobris 1630.

Congregatum fuit magnificum concilium, in quo ordinatum fuit quod Dominica antescripta constituatur coram predicto concilio et interogetur si quid fateri velit.

R. Che volé che dica, che ho detto la verità? Né posso dir una cosa che non è, che son innocenta di questo peccà. Son incolpada a torto, e ne menton per la gola che mi sia tale.

Et ei ostensis manica ferrea et compedibus, (135) et sibi dicto: Domenega, se voi non confessate la verità, haverete di provare tormenti.

R. Fate, signori, della mia vita quel che ne pare, che non posso dir di più.

Quibus intellectis, ordinatum fuit quod dicta Dominica, manibus in tergum lighetur et denuo interogetur et ita factum est et interogata

R. Non ho offeso in questo mondo a creatura alcuna in detti né in fatti, e ne sono innocente.

Item ordinatum fuit quod dicta Dominica abducatur ad locum torture in pretorio et lighetur per funem et deinde interogetur. Quod factum fuit.

Et interogata et hortata de veritate dicenda.

R. La verità l'ho detta sino da principio. Non ho che altro dire e son imputata a torto di questo peccà.

I. se quando fu a casa della nominata Felice per occasione che fu imputata dalla detta Felice che l'havesse toccata da dreto, et come doppo non si era sentita più bene, et se hebbe dalla detta del fieno con un poco di farina.

R. la verità è che la me imbutà che l'havessi toccata, che non è la verità, che la feci mentir per la gola. Et è vero che la me dette tanto di fieno che starà in quest me scosalin, (136) ma farina alcuna non mi dete.

Sibi dicto: Perché ricevesti il fieno.

R. La disse che me lo dava per amor de Dio, et che lha non haveva altro per alhora di darmi, che un'altra volta che fossero ritornata fuori, che mi haveria data qualcosa di più. Mi li dissi che, se ben era poveretta, che non havea bisogno del suo. Replicando: Ho detto la verità. Non posso dir quel che non ho fatto.

Item ordinatum fuit quod denuo interogetur si quid fateri velit, et ubi non confiteatur, quod elevetur per funem ad altitudinem hominis et deinde interogetur.

Elevata, interogata che dica la verità se ha maleficiato alcuna persona, nominandoli Barbara di Franciello, et se Felice di Lorenzin.

R. Signori, no. Menton per la gola, né mi ho lavato panni, né agiutato a lavar panni alla detta Barbola, né ho toccato, né usato atto alcuno a Felice.

Clamans: Dio e la Vergine Maria sia in mia compagnia! E: Pacienza, per amor de Dio! Sepies repetendo hec verba, dicens: Ladri della mia vita!

Denuo repetitis interogationibus et imputationibus contra eam, de quibus supra.

R. negative, che non ha offeso a persona alcuna.

Item ordinatum fuit quod dicta Dominica altius elevetur et denuo interogetur.

Respondit ut supra, dicens: Fate della mia vita quel che volete, sino che la dura.

Item ordinatum fuit quod elevetur usque ad eculeum, et deinde ei detur medium ictum funis, postea interogetur.

Interogata, persistit negando.

Denuo interogata et hortata de veritate dicenda.

R. Signori, no, che non ho offeso ad alcuna persona, né ingurà male (137) ad alcuno, come hanno fatto con mi, che me hanno fatto venir a queste.

Quibus auditis, ordinatum fuit quod deponatur et solvatur, in carceremque abducatur. Et ita factum est.

Dominicus de Balditiis in concilio retulit dicens: Mentre che le vostre signorie son venute di dentro in stuva, doppo che è stata legata alla corda, gli ho detto che facesse bon animo a dir la verità. Essa non mi ha detto altro, [se non] che dovesse dir a sua madre che stasse salda, et se non gli poteva parlar, che li toccasse un piede.

1630. Die sabbati 19 mensis octobris.

Per magnificum concilium congregatum, ordinatum fuit quod Dominica, filia quondam Bartolomei della Gaspera in carcere obscuro superiori detenta, coram predicto concilio constituatur, interogetur et ubi fateri nolit, lighetur manibus, et ad solitum locum torture abducatur, et per funem lighetur. Et ita factum est, appositis compedibus.

Et interogata super hiis quod contra eam leguntur in depositionibus testium.

R. negative, dicens: Non son quella che son imputata. Non l'é la verità, né mai m'è stato detto d'altra persona che da quella Felice che mi disse che l'havea toccata, venendo da Pedenosso, a una spalla, et che doppo non si era sentita bene. E mi gli risposi che non diceva la verità, che mentiva per la gola, né ho offeso ad alcuno, né mi racordo d'esser stata appresso, né dove fosse Barbola di Francello a lavar panni. Dico ben la verità che in altre parti, in chiesa et fuori di chiesa, li sarò stata apresso et in compagnia. Né manco ho fatto male ad alcun bestiame. Son incolpata a torto, son innocente, né posso dir una cosa che non è.

Et replicatis interogationibus

R. Volete che dica che sia stregha, se non son et dir quel che non ho fatto? Dicens: Povere quelle persone che ne son causa! Patienza, per amor de Dio! Non son in tal errore. Iddio e la Vergine Maria mi dia patienza e constanza. Repetendo: Son inocente di questo errore, come creatura che nasce, et ho detto la verità più volte.

Ordinatum fuit quod elevetur per funem ad altitudinem hominis et plus. Et ita factum est.

Et interogata se è stregha come è riputata.

R. Signori, no, che non è la verità.

I. se ha offeso a quella Felice et toccatela alla spalla.

R. Signori, no, che non è la verità.

I. se ha offeso a Barbola di Francello, che sta amalata.

R. Signori, no. Se l'é amalata, Dio e la Vergine Maria che dia la sua sanità, et conservi tutti in sanità. Non son in tal errore, come di tal cosa è [testimone] Iddio.

Et appositis ei ponderibus, dixit: Facino le signorie vostre come vogliono di fatti miei.

Interogata se si racorda esser stata a l'aqua in compagnia di Barbola sudetta, che lavasse di panni.

R. Non me aricordo che lei sia stata a lavar panni, che [anche] mi gli sia stata. Posso ben haverla talvolta incontrata che lei fosse stata a lavarne.

Post hec, attento quod dicta Dominica insientibus dominis (138) a magnifico concilio, a canipario citata fuit, ordinatum fuit quod dimittatur super scamno et interogetur.

Interogata et hortata de veritate dicenda.

R. La verità l'ò detta iusta e reale, come Dio è in cielo.

Sibi dicto: Avertite che, non confessando la verità, vi saranno messi li contrapesi a piedi, di più se vi darà il foco a piedi.

R. La verità l'ho detta. Faccino de mi come vogliono.

Et dimissa, soluta est et in solita carcere abducta.

1630. Die lune 21 mensis octobris.

Congregatum fuit magnificum concilium Burmii ordinarium, in quo ordinatum fuit quod dicta Dominica iuvenis coram predicto magnifico concilio constituatur et interogetur ut fateri velit veritatem super imputationibus.

Constituta in presentia admodum reverendi ser archipresbiteris et interogata et hortata de veritate dicenda, prius ei ligatis manibus in tergum et appositis compedibus.

I. che dica l'occasione et causa per la quale essa ha nociuto a quella giovine Barbara di Francello, et in qual luoco fu et si è ritrovata con lei.

R. La verità l'ho detta da prima, né ho più offeso a lei come a nisuna altra persona. È ben vero che mi sarò ritrovata con essa lei moltissime volte in chiesa, fuori di chiesa, in strada et in altre parti, ma da mi non ha havuto alcun male.

Et factis ei aliis interogationibus super capitulis in processu contra eam contentis.

Negat in omnibus, insistendo in responsionibus aliis factis, dicens: Non ho più offeso a quella Barbara né a Felice nominata, come ha una creatura che ha di nascere, né manco ad altri in questo. Contra etc.

Elevata per funem ad altitudinem hominis.

Interogata, negat ut ante, dicens: La verità l'ho detta di prima. Non ho offeso ad alcuna persona. Et Dio ne faccia miraculo. (139)

Item ordinatum fuit quod elevetur altius usque ad eculeum, et ei detur medium ictus funis. Quod factum est.

29. 1630. Die mercurii 23 mensis octobris.

Coram magnifico concilio congregato, citata comparuit antescripta Piligrina, uxor quondam Dominici Guerini, et ei lecta eius depositione de qua sub die 29 septembris in facto Dominice Chieriga, si quid addere vel diminuere velit dictam eius depositionem et contenta in ea, in omnibus confirmavit.

30. Ibidem citata comparuit Ioannina quondam Iacobi del Marno, et relecta ei eius depositione, de qua sub die ultimo mensis septembris, confirmavit contenta in ea, salvo et moderando (140) che la detta Domenega non disse più altro, [se non] che disse: Vardé mó, che bella giovine l'é vegnuda, (141) parlando di Barbola di Francello, che la non ha voluto tuor me nevoto il Cottolo, che ha tanta robba. Non già che dicesse che, se lo pigliava, non saria in tal essere.

31. Eodem die.

Coram predicto magnifico concilio comparuit citata Felix quondam Lorenzini de Planalbino, cui lecta eius depositione contra Dominicam quondam Gasparis de Posclavina, de qua sub die 11 mensis octobris, si qui(d) addere velit.

R. So per certo che la detta Domenega mi toccò, come dissi alla spala sinistra, e mi tirò alquanto adreto. Mi non dissi altro, né lei disse per alhora altro. Ma doppo poco, caminando mi più avanti, essa Domenega disse: È la verità che se dice che sia stato robbato della robba a una donna dentro in Trepalle? E me credo ch'essa dicesse queste parole per una scusa.

I. se avanti che questa Domenega li habbi usato quel atto, se si sentiva più sana et allegra di quello si trova esser stata doppo et adesso.

R. Signor, sì, mi sentia sana, né melanconica come adesso, che ancora mi sento quella graveza et male al collo, che mi vien alla gola, che a tempo a tempo mi soffoca alla gola.

I. se quando la detta Domenega fu domandata dalla madre di essa Felice andar in casa sua, mentre che la detta Felice li disse che doppo che li haveva usato tal atto di toccarla alla spalla venendo da Pedenosso, la non s'era sentita più sana, la detta Domenega la fece mentire per la gola di haverli usato tal atto.

R. Signori, no, che non mi fece mentire. Ben vero che (l) disse due o 3 volte che Dio et la Madonna mi restituisse la sanità.

Eidem Dominice coram predicto magnifico concilio constitute, replicate interogationibus et lamentationibus contra eam, de quibus in processu, presertim in depositione Felicis, negat in omnibus ut ante.

Et ei dicto: Come farete a iscusarvi, se Felice vi dirà in faccia che tal sii la verità?

R. Dirò che la mente per la gola.

Et sic vocata dicta Felix coram predicto magnifico concilio et admodum reverendo domino archipresbitero [Simone] Murchio, in faciem ipsius Dominice iuvenis, eidem Dominice dicto: Conoscete questa giovine che vi sta presente? (m)

R. Signori, sì. Dicens adversus dictam Felicem: Che sas dire?

Et eidem Dominice per dictam Felicem dicens: Non sai che quando venimo dalla chiesa da Pedenosso, che eramo state alla messa, caminando in avanti, mi venesti dré passato quel tabladello, (142) me pigliasti per da dreto via per il vestì alla spalla sinistra e me tirasti alquanto indré?

Ad id dicta Dominica respondit: Non l'é la verità. Menti per la gola!, repplicandosi l'una l'altra molte volte le mentite.

Et essendovi presente detto signor arciprete, vedendo la constanza della detta Felice, per far prova se mediante quel atto di haverla tocca alla spalla gli havesse messo adosso qualche spiriti, gli fece mettere alla gola una corona benedetta, et essa subito cominciò a far alcun atto. Il che vedendo [il] signor arciprete si levò e vi andò appresso, applicandoli, oltra la detta corona, un reliquiario alla gola, et alla testa la corona sudetta. Detta Felice incominciò a gridare, mandar urli et boffare, dicendo alla presenza della detta Domenega: Tu sei quella che mi hai instriada et messa in questo corpo. Dicens: Tu hai impreso (143) da tua madre. Non ti podevi scacciarti dal pensiero che sempre mi parevi esser presente. Alle quali parole Domenega rispose che mentiva per la gola, repplicandoli: Mentite!, dicendoli: Ladra del honor mio! E rispondendo li spiriti dicevano: L'é pur troppo vero che tu me hai missa in questo corpo, sono cinque anni, che per invidia me hai havuto questa ruscia, (144) ma non me l'hai potuta fare per esser questa creatura divota della Madona, ma che quella mattina non era stata alla messa con quella divotione, né haveva detta la corona della Madona. Quel dì te la facessi riuscire, toccandola alla spalla venendo dalla chiesa per strada da Pedenosso, come procurarsi di farmela quella volta che eravamo dentro a quei del Cottol a Semogo, che me corresti dré per darmi da bevere, ma te non posses per la gran divotione di costei, che la diceva l'orationi di bon core.

Alle quali parole la detta Domenega la facea mentire più volte.

Rispondeva il spirito per bocca di Felice che il demonio li facea ardimento a negar la verità, ma che haveria fatto se non quel che la podeva, perché l'era in man de la Giustitia, che la non poteva far male, et che pur troppo era la verità che lei l'havea messo in quel corpo e tormentato tanto tempo, et che essa Domenica era stata causa di quella lavina in Valacia che li haveva smerso la casa. (145) Di più che la detta Domenega dovea andar dentro e tornar la sanità a Barbola di Francello, che l'era stata lei che l'havea instriada. Di più disse verso la detta Domenega: O, quanto danno (n) hai mai causato a casa nostra, son di già cinque anni, ch'é per invidia di un giovene che mi voleva ben e ti il volevi!

Alle quali parole detta Domenegha non rispose.

Di più, parlando detto spirito disse verso la detta Domenega: Te ne has fatto ancora dell'altre. Non ne digh nanche la mettà. (o)

1630. Die mercurii (p) 23 octobris. (q)

Coram reverendo domino vicario, domino pretore et regente Alberto, citatus per R[ampum servitorem] comparuit Gottardus quondam Abundii Anette de Isolatia.

Et interrogatus que sciat de Mighina Chierica (146) et de sua figliuola, se gli occorse qualche male.

R. che essendo dimandato da Gioan, suo fratello, a lavorare a questa Mighina, che sarà statto il primo ano della guerra, (147) a condure frosche, (148) che la agiutò circa 3 over 4 hore. Venuto sera, volse andar a casa mia, et essendo ch'haveva lavorato pocho tempo, che prestava opre a mio fratello, (149) essa Mighina mi fece instantia che dovessi star a cena con mio fratello. Così fece, che cenai et mangiassimo ancora la minestra d'una scudella. Et doppo cenato, mi venne freddo e sgrisor. (150) In quel mentre mi partite per casa, et gionto a casa mia, doppo pocho tempo mi venne vomito et vomitette cozzi negri congiunti con aqua quasi serena. (151) Et a questo non fu presente altri che la mia moglie Marta, già tan prima (152) della guerra. Et mia moglie, quando viste questo, disse: Havete havuto buona ventura! Et mai più non li lavorete, essendo che sin allhora eran suspette de streghe, come mia moglie imputò detta Mighina.

[I.] Che resposta gli desse.

Non me disse altro.

Et hoc [est]. Et juravit.

Eo die.

Coram ut supra Joannina de Maria del Limedaz, in lecto puerpera.

Et interrogata.

R. Sarà circa 4 anni che piglià per fantescha Domenica, figliuola della Chierica, per pasatempo. Nel tempo si prese su l'adigoyr, (153) havea de dibisogno (154) de lavoranti. Così venne Domeniga veggia con suoi duoi figliuoli ad agiutarme. Et mentre lavorà, (155) portai un figliuolo ch'haveva circa mesi 6 et lo mise in una foce (156) per poter agiutare lavorare. Et da quello giorno in là il figliuolo faceva verso de cane et mangiava cenere et altre cose sporche, che non mangiava altre cose buone. Et quando viste (157) queste cose, mi venne in pensiero fusse maleficiato de queste Chieriche. Parlai con mia madre de questo, et si consigliassimo d'andare ad imputare queste donne, madre et figliuola, portando il figliuolo per nome Gioanin, d'età d'un [anno] in circa. Et entrato nella stupha, metessi il figliuolo su nel coppo della pigna. (158) Mia madre, ch'era comare de detta Chierica, gli disse che doppo che lei et sua figliuola gli agiuttò a far con adigoyr, il suo figliuolo non si era sentito più bene, che voleva gli desse la sanità. Essa Chierica respose: Se fosse qui mia figlia Domeniga, vi cacceresse via con li pali. (159) Mia madre respose: Non voglio che togliate né pali né bastoni, che caminaremo. (160) Allora detta Chierica disse: Dio gli [dia] la sanità, due volte, come li dei mi. (161) Et la terza volta disse: Dio gli [dia] la sanità sicome non la dei mi!, come intesi. Doppo il mio figliuolo cominciò a guarire, come è *** (r) ancora. Essendo ancora andati alle ghiese et fatte altre devotioni, come mi consigliò il signor arciprete presente, alle ghiese de San Joan de Plaza et alla Madonna de Sacro Monte, (162) il figliuolo cominciò ad alzar il cò, (163) che prima lo teneva basso. Aggiongendo che in *** (s) d'alora, che si portà qualche cosa de tre sorti, quando si fu a imputarle. Io li mandai robbe de tre sorti, cioè farina, fioretto et macho, (164) che hano tenuto. Et da quello tempo in qua, la veggia mi son acorta ch'è andata così, che mi ha mostrato bella chiera, (165) ma Domenica giovine, questo autuno, mi domandò che cosa facese, et io l'[ho] datto ancora un pocho de farina et latte.

Et hoc [est]. Et juravit.

Eo die.

Coram pretore citata per R[ampum servitorem, comparuit] Anna qondam Laurenzin del Blanco de Isolatia.

Interrogata come fusse seguita, quando sua sorella Felice la mandò fuori da Trepallo a trovar la Chierica et sua figliuola Domenica in proposito del'infirmità de detta Felice.

R. Trovandosi mia sorella Felice amalata d'un'infirmità stravagante, lamentandosi essa che, venendo giù da San Martino verso Isolatia, fu da Domenica giovine toccata nella spalla sinistra, et da quel tempo in qua essa Felice non si era sentita più bene, et per la cattiva fama che teneva essa Chierica et sua figliuola Domenica, suspettando d'esser fatturada da lei, mi pregò dovesse venir fuori da lor et pregarla li desse la sanità. Mi inviai verso la casa de dette donne, dove stanno in Isolatia, et retrovate gli disse che mia sorella Felice stava male, et che doppo che l'haveva toccata su nella spalla, non s'era sentita più bene, che se gli haveva fatto vergotta, li tornesse la sua sanità. La giovine respose: Bisognasse tor un cortelazo et cacciarlo nelle coste! Mi respose: No, ma se havete qualche sorte d'herba, datemene de farla guarire. Essa respose: Se volete herbe, andate nell'horto et pigliate da per voi! (166) La veggia disse poi: Se l'à male, Dio et la Madona gli dii la sua sanità, più volte. Ma la giovine stentò a dirlo. Mi partiti poi per casa et gli mandai un pocho de formento mescio (167) con domega et un pocho de farina, essendo la giovine in casa, che la veggia era in ghiesa de Santa Maria d'Isolatia.

I. ancora della lavina occorsa in Trepallo.

R. ch'è vera che venne giù, che smerse una parte de luogho dove mai s'haveria pensato, essendo luogho sicuro.

I. sopra le cose generali, che cosa si dica.

R. Si dice cose assai, particolarmente del bestiame de Gervasio de Giuliano.

Et hoc [est]. E juravit.

Eo die.

Coram ut supra citata per R[ampum servitorem, comparuit] *** (t) uxor quondam Iacobi del molino de Isolatia.

Interrogata se è vera (168) che havendo lei in custodia Barbara de Franzel, qual è statta in letto giorni 52, che solamente ha bevuto un pocho d'aqua una volta al giorno, essa Barbara sia levata da letto et andata nella fenestra, stando che in detti giorni non si è mai movuta del letto et oppressa ch'è statta come morta.

R. Signori, sì, che l'ho vista.

I. in che modo.

R. Franzolin et li figliuoli eran andati fuori de casa et io andai dietro per veder dove andavano, ch'haveva de dirgli. Sentitte rumor in stua. Corsi al uscio, et aperto per entrare, visti Barbara su el balcone, la qual discese a basso et velocemente caminava per stua, si mosse verso il letto che pareva un uccello, et entrata si accomodò come prima.

I. Guardate bene che l'occhio non vi habbi inganata et sorvista. (169)

R. Signori, no, che visti Barbara ch'haveva la camisa, et ho ancora per gratia de Dio buona vista.

Eo die.

Visitata la detta Barbara dal molto reverendo signor arciprete et podestà, regente Alberto, è ritrovata con li occhi ciusi, quasi consumata dalla pelle et ossi in fuori. Et più volte chiamata, mai non respose, et recognosciuta per il polso che era ancora viva, come ancora faceva mossa con segni alla gola, et per il signor arciprete messo il suo reliquiario (170) sopra il petto d'essa Barbara, non di meno non fece alcuna mossa sensibile notabile. Et informati noi che in quelli giorni 52 ch'è statta nell letto, che non ha preso alcuno cibo, salvo un pocho d'aqua cruda, (171) fu chiamata Felice de Lorenzin del Blanco, ch'entrasse nella stua per visitar detta Barbara, come fece. Qual Felice andò a letto et chiamò: Barbara, Barbara, che fatte? Non mi volete darme posta? Essa mai fece parola né atto alcuno con la vitta. Et ritornata detta Felice a seder vicino al letto, havendo in essa Felice l'instesso giorno scoperto spiriti 3, furono pizate (172) alcune candele benedette, fatto portare aqua benedetta et [da parte de] il signor arciprete Murcho gli furno messe le reliquie alla gola. Et ella subito fece motti (173) straordinarii con ingiuriare l'arciprete, chiamandolo per nome pelandone: Cacel via! Fatte andar via, non lo fatte vedere!, alzando li brachii per volerlo scaciar da lei. Dimandata che dovesse chiamare li compagni, qual si dubitava essere in Barbara ivi presente, respose che non poteva, per non essere quelli della sua sorte. In lei son messi in altra guisa, ma non lo posso dire, ma [se] si legese adosso, (174) bisogniaran ben dire. Poi cominciò a cridare et boffare, (175) dicendo: Quanti tormenti m'han datti a questo corpo cinque anni che m'han messi in questo corpo per invidia, come anche con Barbara per invidia! Et segnata alla gola con l'aqua, et dettogli che dovesse uscire da quel corpo, resposero: No, mai! no mai! Replicato il signor arciprete: De parte de Dio bisognarà de ben uscire. Resposero: De parte de Dio bisognerà bene uscire de questo corpo! Et dettogli: In quanto tempo? Respose: In uno mese o quindesi giorni. Et replicando li spiriti: Cacciate via quel pelandone, se no gli darà delli pugni! Gli fu detto: O, perché volete che lo caciase via? Perché ha cose de Dio appresso de lui. (176) Disse essa Felice: Tolete via quella aqua santa, se no la buttarò via! Respose il signor arciprete che no, et gli fu messa più appresso, che non poté far altre mosse. Fece poi il signor arciprete cessare li spiriti et non si fece altro.

Die iovis 24 mensis octobris.

Coram domino pretore et domino regente Alberto citata comparuit Francischina, filia quondam Christofori olim Francisci Marioli Iacomeli de Isolacia.

Interogata de voce et fama Dominice Chierighe et Dominice filie, si quid sentiat.

R. Mi non posso dire se non cosa di murmoration. Mi son stata in casa sua et lori (177) in casa mia, ho magnato e bevuto con lori et dormito. Mi non ho mai havuto sospition di fatti suoi, né gli ho cognosciuto alcun cattivo atto. È vero che Gioannina, moglie di Menic di Martin Limedacio, stando in casa mia in Isolacia, se gli amalò un puttino et loro, havendo sospition sopra queste due, madre et figliola, che gli havessero fatto qualche cosa, detta Gioanina con sua madre pigliorno il figlioletto e andorno via dalle dette madre et figliuola, come esse mi referirno, essergli andate a monstrarli il figlioletto et come esse haveano detto che Dio e la Madona gli desse la sua sanità. Che ciò sia la verità né no, non lo so, perché mi non vi andei. Nel resto non so altro di fatti suoi, le ponno esser et non ponno esser, come le son mormorate per strie, che mi non lo so, né ho mai havuto creta (178) che li podessero nosere. Molte altre cose sarano dette per burla di loro, ritrovandosi da compagnia, ma di scientia non so altro.

Et que iuravit.

Eodem die.

Comparuit citatus Iulianus, filius Baldessaris Ioannis Baldessaris de Isolacia et interogatus.

R. Mi non so altro fuori che, essendo andato fori per le case a lavorar del'arte del calsolaro, (179) ho sentito mormorare di loro, particolarmente di Gervas di Giuliano, essendo in casa sua, che sospettava che lo havessero maleficiato il suo bestiame, et quel tanto che mi ho inteso da mio padre, che gli habbi parlato Christoforo Pogliatto, come lui dirà. Altro non so di fatti suoi che mormoratione.

Et hoc est. Et iuravit.

Eodem die.

Dominicus, frater suprascripti Iuliani, filius quondam Baldesaris de Sc[i]uatt.

Interogatus.

R. Mi non so altro di fatti suoi, se non mormorationi. È vero che son stato nella stalla di Malgherta di Gervas di Giuliano, e viddi che il suo bestiame stava male, come anco li vitelli che stavano butà fori per il ledame e parevan che fossero morti, et non so che altro, che ho sentito da mio padre che l Pogliatt, che l'havea fatto presto a guarire. Né più altro so che mormorationi che si sentono.

Et qui iuravit.

Eodem die.

Pro relato domini pretoris et in presentia domini Gervasii Grosini, ser Ioannini Nesini ac ser Antonii Marni, consiliarium, interogatus fuit Nicolaus quondam Boneti de Casiis (180) quod sentiat de Dominica dicta la Chieriga de presenti in carcere detenta.

R. Doppo che queste due, madre et figliuola, sono ricercate et imputate per streghe, mi è venuto in pensiero che la detta Domenica vechia habbi maleficiato una mia nepote, figliuola che fu di mio fratello Gioanni, la quale io haveva appresso di me e teneva come figliuola, la quale è morta. La causa di questo mio pensiero e sospetto è che, havendo io d'havere dalla detta Domenega Chieriga lire 18 fitti manchi, di un fitto de lire 3, che sendo amalate, volendo esser pagato, la detta mi dette tanto furmento in pagamento, qual lasciai in casa d'essa Domenega. Mandai dentro a pigliarlo per la detta mia nevoda. Essa Domenega gli lo dete et anco gli dete da magnare, come la detta mia nepote mi referì, et fu il mese di febraro. Segue che, venendo verso l'autunno, la detta mia nepote cominciò ad infirmarsi et si sentiva male al collo et andé pegiorando di sorte tale, che li conveneva alzar la testa alta, et quasi sempre la teneva cossì alta la faccia, in modo che doppo haver havuto ricorso dal signor dotor Giulio (181) et fattoli cavar sangue, nulla giovando, venne a morte. Et per questo ho sospettato di lei, che l'habbi fatto qualche maleficio alla detta mia nepote.

Et [sic] est etc. Qui iuravit.

1630. Die martis 29 mensis octobris.

Congregatum fuit magnificum concilium Burmii in quo constituta fuit Dominica filia in carcere detenta et de maleficio imputata.

Et interogata che dica la verità sopra quanto per inanti fu interogata.

R. Che volete che vi dica? Quello che non è?, che pur tante volte vi ho detta la verità e Dio n'è testimonio.

Presertim interogata se la verità è che habbi usato quel atto a Felice di Lorenzino, toccandola alla spalla et in tal modo l'habbi maleficiata.

R. negative.

Sibi dicto: Come potete negar questa verità, se lei istessa, overo il spirito che essa ha adosso, vi accusa che voi l'havete inspiritata?

R. Non l'é la verità, e ben la feci mentire per la gola, e lei et chi fa per lei.

Prefatum magnificum concilium, visa pertinacia ipsius Dominice in negando, attenta eius mala fama et stantibus inditiis contra eam, pro veritate habenda de dicto crimine, cum aliter haberi non possit, mandavit ut die crastina summo mane adducatur ad locum torture deputatum in Palatio, manibus lighetur, ac funi deinde elevetur usque ad eculeum et pressetur uno ictu. Quod si fateri nolit, procuretur ei ignis ut supponatur tormento ignis. Post quam ordinationem, prefatum concilium mandavit ipsam ad solitum eius locum adduci usque mane, animo [prosequendi causam] etc.

1630. Die mercurii 30 mensis octobris.

Coram magnifico concilio de more solito congregato in pretorio personaliter constituta [fuit] antescripta Dominica filia in carcere detenta, animo prosequendi causam.

Et interogata se vole hormai dire la verità.

R. Mi la ho detta.

Et dettoli che averta bene, perché la madre confessa delle cose che lei nega.

R. Che volete che dica, se non credete niente?

I. in che modo habbi maleficiato detta Felize.

R. Mi non gli ho fatto male alcuno.

Et monita che dica il vero, perché detta Felize ha protestato in sua presentia che lei gli haveva toccato il spalarolo, et il spirito quale è statto posto adosso alla detta Felizza lo haveva protestato più volte alla sua presentia.

R. Et mi che dissi alhora? Non li feci mentire?

I. se è vero che sua madre sia presonta per strega nella Vicinanza et perché.

R. È presonta sì, ma la invidia grande ne è causa.

I. se è vero che Anna, sorella di Felize, l'habbi imputata della malatia della detta Felice.

R. Lei venne a casa mia et mi disse: Mia sorella Felize è amalata et manda a pregarti che dichi: Dio gli dia la sanità. Io lo dissi et lei si partì. Et di lì a puoco ritornò a casa et portò non so che robbe, quali io non viddi.

I. che robbe erano et chi l'ha havute.

R. Che robbe fossero io non lo so, et le haveranno havute mia madre o li fratelli.

Super aliis singulatim interogata, respondit semper negative. Et sic fuit ducta ad suum locum animo [prosequendi].

Die dominico 3 mensis novembris.

Denuo coram illustrissimis dominis pretore et regente Settomino, citatus [comparuit] Christoforus del Bugliolo, et ei lecta eius depositione de qua sub die 5 septembris contra Dominicam iuvenem.

Dixit: Non ho sentito altro della detta Barbola. Ben intesi da Domenico del Gaglia, suo marito, qual mi disse lui haver sentito a dire da detta Barbara, come essendo a lavar panni, li venne ivi la nominata Domenega, et come ella la vidde mal volentieri. Et mia mogliere l'ha sentito da mi et non dal detto Domenico. Et questo sotto il giuramento di già fatto.

Addens che, capitando un giorno in Gioan Antonio di Sermundo della Gotarda, gli dimandà dove fosse stato. Esso disse ch'era stato fuori igliò. (182) Mi disse: Te saras statta più in fori. (183) Has può ditto tutto? Hai giurato? Esso Gioan Antonio fece vista da ridere, dicendo: Dovei giurar, ma non ho giurato, per scusa d'esser parente. Ma se le signorie vostre el faranno vegnir fuori, minaciandoli di volerlo retenire, perché l'é timido, el dirà forse qualche cosa di più.

Et sic ibidem mandatum fuit citari.

1630. Die martis 5 mensis novembris.

Coram dominis pretore et regente domino Ioanne Francisco Alberto, citatus fuit Ioannes Antonius quondam Bernardo della Gotarda de Isolacia.

Et ei dicto: Noi trovamo che voi nella vostra depositione data in fatto di queste donne che sono pregioni, voi non dicesti tutto quanto dovete esser informato, perché non vi fu dato il giuramento per esser presente voi suo parente, perciò se havete qualche cosa di più di dire, dite la verità, massime che noi sappiamo che voi essendo infermo andesti a Camoasco a medico et non lo dicesti.

R. Io dico tutto quanto so da dire, come se volessero che giurasse. Et è che di già cinque o sei anni sono, circa la festa di santo Pietro, che s'approssimava tempo di segare, eri assettato su un scagno (184) che accomodava un restello et cantava. E tutt'un tempo mi venne accidente tale, che cascai a terra e restai come morto, se non sapeva di fatti mei, come mi ocorse ancora dell'altre volte, e si teneva opinione che fosse il mal caduco. Ricorsi da signori medici, come dal signor dotor Baldasar Casularo. Et doppo ancora andai a Camoasco, ma nulla mi giovò, che questo accidente mi accadeva molte volte, sin a tanto che ho fatto di voti et raccorso da Dio, che poi non mi ha solicitato tanto, (185) sino che del inverno passato sino questa estade che, ritrovandomi in un bosco mi venne l'istesso acidente, che poi doppo, per gratia de Dio, non mi è più occorso. Et questo primo accidente mi occorse doppo che fui maritato, perché mi maritai circa le feste di Pasqua et questa cosa mi occorse come ho detto circa la festa di santo Pietro.

I. se Domenega figliuola della Chieriga è stata sua fantesca.

R. La non è stata permanente fantesca, ma mi serviva a mesi al bisogno, massime l'estade, essendo in quel tempo da maritare.

I. se ha havuto qualche sospitione nelle dette figliuola o madre per occasione di detta sua infirmità.

R. Signori, no, che mai hebbi da loro tal sospetto, né mai gli ho pensato, né conosciuto in loro sorte alcuna de cattivi atti, se non doppo che queste donne sono state cossì vociferate, che pare che mi sii venuto un non so che di ombra. Né in conscientia mia, è la verità, che mai le dette madre, né figliuola, né alcune di loro da mi in tal materia sono state imbutade.

Et dixit: Domenica la Chieriga era figliuola di un mio germano.

Addens che questo accidente particolarmente l'ha patito in tempo che esso stava in chiesa alla messa et che diceva orationi, come ancora a casa sua nel dire il Pater noster. Replicando che non ha sospettato queste donne, se non doppo che altri hanno sospettato di loro: Che me pare che havendo patito quella tal infirmità, che mi venesse un non so che di sgrisolo. (186)

Di più che ha inteso dal Poglio come che, essendo la detta Domenega Chieriga andata per agiutarlo a falcolare, la detta Domenega lo toccò sulle spalle, et come esso si stremì et come esso l'istesso dì la imbuté. Ma non so po altro. E quando che strozigai (187) a dir il Pater noster, eri sicuro, eri sicuro che quel mal mi veneva. Ma se dava loco presto di dirlo, el me passava via più presto. E che quando el ghe ven quel male, il comincia al core, poi al cervello, che lo fa perdere, (188) e non sa che sia di lui. Et se seguitava a dir il Pater noster, al mal me veneva tras. (189)

Altre cose generali che sono dette che da quel non giuri.

Et sic iuravit. (u)

1630. Die veneris octavo mensis novembris. (v)

Ante luce horis circa 4, constituta fuit coram magnifico concilio Burmii congregato Dominica iunior, attentis inditiis contra eam ut in processu legitur.

Interrogata fuit se ha pensato a dir la verità una volta sopra quello sete dimandata et che cosa sua madre habbi insegnato nella sua corte (190) de dentro, et se ha zappato la croce. (191)

R. Lasciamela sentire una volta la mia madre, che se dirà m'habbi insegnato tal cosa mi contentarei. (192)

Sibi dicto: Quante volte sete statta con vostra madre in Verva a ballare et saglire? (193)

R. Lasciatemi venire dentro la mia madre, che se dirà, tasarei, che chi tace conferma.

Sibi dicto: Dite pur di vostra bocca, se l'ha insegnato o no. Sappiam ben ch'havete l'onguento in Vallia, sotto la platta del zendré et il bastone nel canevel. (194) Dite pure la verità, se la volete dire. Et se non la volete dire, ve la farem dire, che poi vi trovarete malcontenta.

R. Se mi remetto a quello che dice mia madre, che volete che dica?

Et attenta eius pertinazia, ordinatum fuit quod exuatur vestibus suis, lavata et induta aliis vestibus, ligata et apposita deberi super tormento equi usque ad libitum magnifici concilii. Quod factum fuit. (w)

Reportato il processo scritto per il signor Leoprando.

1630. Die veneris 8 mensis novembris.

Ante lucem circa horas quatuor, per magnificum concilium ordinatum fuit quod Dominica iunior, filia Balsari della Gaspara antescripta, e carceribus deducatur et coram predicto concilio constituatur et interogetur.

I. se ha pensato a dir una volta la verità sopra quello essa è imputata, et che cosa sua madre gli habbi insegnato nella sua corte di casa sua di dentro, et se ha zappato la croce.

R. Lasciatemi sentir una volta mia madre, che se dirà m'habbi insegnato tal cosa, mi contentarò. (195)

Sibi dicto: Quante volte sete stata con vostra madre in Verva a ballare et saglire?

R. Lasciate venir dentro qui mia madre, che se dirà tacerò, che chi tace conferma.

Sibi dicto: Dite pur di vostra bocca se vi ha insegnato o non. Sappiamo bene che havete l'onguento in Valeia, sotto la platta del zendrè et il bastone nel canevello. Dite pur la verità se la volete dire. Altrimenti, se non la volete dire, ve la faremo dire, che poi vi trovarete malcontenta.

R. se mi rimetto a quello dirà mia madre, che volete che dica?

E stando la sua pertinacia, fu ordinato dal predicto consiglio sia svestita dalle sue proprie vestimenti et lavata, sia vestita d'altre, poi sia ligata alla corda et messa al tormento sopra del cavaletto, over capra, (196) sino a beneplacito del consiglio. Il che è fatto.

Et cum stetisset in tormentis per spatium horarum decem, visa eius pertinacia fuit ordinatum quod abradetur illi caput et omnes pili corporis eius prout et ungues. (197) Quod factum fuit per servitores.

Postmodum fuit ordinatum quod interogetur an velit veritatem fateri, et ipsa persistente in pertinacia sua, debeat ligari et denuo tormentis supponi.

Et sic interrogata pluries an velit veritatem dicere et recedere ab eius pertinacia, semper negavit.

Quibus visis, inceperunt famuli eam ligare. Et ipsa vocavit iudices dicens: Lassatemi stare et promettetemi di salvarmi la vita, che dirò la verità.

Et dettogli che le promesse già fategli si sarebbero osservate, doppo esser replicate più volte tali parole disse: Interrogatemi, che rispondarò.

Et sic ducta ad ignem ut commodius posset loqui, stante frigore quo angebatur, fuit interrogata se è vero che sua madre gli habbi insegnato l'arte di strega et in che loco.

R. È vero che mia madre mi insegnò tal arte, sebene male volentieri la imparai. Et ciò fu in Isolaccia nella nostra casa.

I. in che modo fece.

R. Mi condusse nella corte di dentro et fece una croce in terra et mi fece zappare sopra, poi mi fece refudare Dio, la Beatissima Vergine Maria et li suoi Santi, et chiamare il demonio per mio patrone.

I. se la madre la condusse al ballo.

R. Signori, sì, mi condusse in Verva al ballo.

I. in che modo.

R. Tolse unguento et unse il baialone (198) et andassimo là.

I. chi ritrovorno in quelle parti, et che seguì.

R. Trovassimo il diavolo vestito di nero. Mia madre mi presentò a lui et disse: L'é qui la mia figliola, che gli ho insegnato. Lui disse: Tu hai fatto bene! Et così io l'adorai, et lui mi fece carezze et mi getò in terra et hebbe a fare con me. Stessimo ivi un puoco et poi ritornassimo a casa.

I. che forma dimostrava quel demonio.

R. Di un hometto. Et mi parve havesse il viso di huomo.

I. che altre genti erano là.

R. Mi non so altri, perché non ho cognosciuto niuno.

Et monita dicere veritatem, quia nos scimus alios adfuisse et ipsos eam cognovisse.

R. Mi non ho cognosciuto altri che quella di Casteleir.

I. come si chiami.

R. Si chiama Domenica, moglie di Andrea Morcello.

I. se la prima sera andò al ballo, la cognobbe et se parlò con lei, et che disse, et se ciò successe più volte.

R. Signori, sì. La prima sera vi era, mi salutò et fece carezze dicendo: Adesso siamo una di più. Et poi la ho vista ancora le altre volte.

I. se vi andava ogni setimana et in che giorno, et se andava in compagnia della madre.

R. Vi andavo qualche volta, ma non ogni settimana, et ciò la giobbia. (199) La madre veneva con me, essendo la maiorenga. (200)

Et dettoli che averta bene a dire la verità delli altri che sono di tal arte, perché sappiamo che lei li cognosce.

R. Non mi riccordo per adesso. Datemi un puoco di tempo, che vi pensarò.

I. dove sia l'unguento.

R. Sarrà dentro a casa.

I. se il suo è con quello della madre o separato.

R. Sarrà tutto insieme.

I. se è vero che essa habbi maleficiato quella Felice, et in che modo.

R. È vero che la toccai sopra una spalla et la maleficiai.

I. se haveva qualche nemicitia con lei.

R. Signor, no, ma feci da moina. (201)

I. di che tempo l'ha maleficiata.

R. ***

I. se essa ha maleficiato Barbara di Franci(o)lino.

R. Signori, no.

I. Et fatagli instanza di dire la verità de complici.

R. Gli adimando in gratia che mi conduchino nella prigione, acciò possa riposare un puoco, che tra tanti mi riccorderò, et dimani dirò la verità di quanto sarrò interogata.

Quibus auditis, fuit ordinatum quod reducatur in carcerem solitum, animo [prosequendi causam].

1630. Die sabbati 9 mensis novembris.

Per magnificum concilium Burmii congregatum, ordinatum fuit quod Dominica antescripta iunior educatur a carcere et coram predicto concilio constituatur et interogetur. Et dum educeretur e carcere, in transitu ante carcerem matris, mater acclamavit dicens alta voce: Non dir niente, che mi me hanno fatto dir tutto per forza! Et che dovea redire. Et sic constituta fuit in stuffa Palatii.

Et ibidem interogata se si è riccordata di aggionger al suo constituto.

R. Loro signori me havean detto che mia madre havea confessato quello dì che son stata interogata, et hoggi lei ha detto che ha confessato il tutto per forza. Et cepit de hoc valde conqueri. Et post aliquantulum exclamavit contra matrem dicens: Era meglio che quando mia madre fu in mano della giustitia l'anno 1618, (202) ne havesse fatto giustitia, che era meglio per lei e per mi, né hora sarei a questo posto.

Iterum interogata che vogli dir la verità e confidarsi nella misericordia de Dio, et dica quanto tempo è che la madre gli ha insegnato.

R. Ho già detto che sarano circa cinque anni.

Et lettogli quanto ha deposto heri sera circa il modo col quale la madre gli ha insegnato.

R. È pur tropo il vero, ma io non ho fatto altro male a creature che a quella Felice, perché lo faceva mal volentieri, perché mi era trovata pentita. Et quando ero sforzata a far qualche male, faccevo seccare un spino, una frosca, o un pezzol, (203) o romper una pietra. E diceva: Tò, secca spino! Né non più ho voluto far mal a creature, né a cosa che si potesse godere.

I. delle compagne o compagno, et che dica quali sono.

R. Mi non so altre che quelle nominai heri sera.

Et dettogli che dica quali sono.

R. Mia madre e Domenega di Casteleir, altri non mi ricordo.

Et stante ratificatione facta per matrem in tormentis et examinatione sequta in presenti hora de omnibus per eam iam depositis et confessis, pro maiori cautela fuit ordinatum quod simul confrontentur et interogentur de communibus patratis maleficiis, animo.

Et sic introducta coram concilio in stuffa congregato dicta Dominica mater, ubi adherat filia, se proiecit ante eius pedes, genibus flexis, veniam petiit (x) multoties hiis verbis: Cara figliola, ti pregho per l'amor de Dio a volermi perdonare che t'ho insegnato male in cambio di bene. Perdonami per amor de Dio.

Ad id (y) respondit filia: O madre che mi havete mal sentata (204) et posta in questo stato per cambio di insegnarme bene, me havete insegnato di queste cose male e vi perdono per amor de Dio e della Beata Vergine Maria et de questi tutti signori.

Et interogata s'è vero che detta Domenega madre habbi insegnato alla figliola cinque anni sono tal arte, et la figliola l'habbi appresa con quei modi et reputationi descritte nel processo, et essercitata l'arte, come avanti è scritto.

Responderunt ambe affirmative.

I. detta Domenega giovine se è concorsa al maleficio fatto a Barbola di Franciolin.

R. Signori, mi non li ho fatto mal nisuno, né ho dato o tolto da lei cosa alcuna da molto tempo in qua, ecetto che havendo io un braccio di panno rosso, qual mi havea dato Lazaro di Gioan di Lazer, (205) detta Barbola me lo adimandò per far un or (206) a un suo vestito, et io gli lo diedi volentieri senza nisun pensiero di male. Lei venne a casa mia a tuorlo et poi mi ritonò il restante.

I. in che modo si potrà guarire la nominata Felice da lei maleficiata.

R. Io non ho altro rimedio che pregar Dio e la Madona che li dia sanità, come faccio di presente: Che Dio et la Madona li dia sanità e l'agiuti lei et ogni altra persona.

Die mercurii 13 mensis novembris. (z)

1630. Die veneris 15 mensis novembris.

Stante quod antescripta Dominica non confirmavit eius depositionem iam factam in tortura, fuit ordinatum per magnificum concilium quod denuo constituatur ipsa Dominica et interogetur an velit persistere in eius depositionibus et aliquid illis addere, monendo.

R. Loro signori me dissero che dovessi dire solamente la verità et non la buggia. Io già ho detto liberamente la verità et sto in quella, né altro so che dire.

Et monita che vogli liberamente confessare le complici, o altri delitti da lei fatti.

R. Io ho detto quanto ho saputo, né posso dir altro.

I. in qual modo adoperava il bastone et se gli pareva d'andar per aria o per terra.

R. Li montava a cavallo et mi pareva andar per terra velocemente, e passava qualsivoglia aqua senza impedimento.

Et benigne monita ut velit ingenue fateri veritatem de omnibus patratis maleficii, et de loco ubi sit repositum unguentum.

R. Ho detto la verità. Non posso dir altro.

Quibus habitis, fuit ordinatum quod lighetur ut supponatur tormentis, sed prius interogetur. Et sic interogata post ligationem, se essa è concorsa al maleficio fatto a Barbola di Franciolino.

R. L'é la verità che io misi un poco di onguento in un canton (207) del detto braccio di panno, et ciò indotta dal diavolo, qual disse che dovessi farlo, che l'haveria piglià un po' de mal, poi saria guarita.

I. se è vero che essa habbi maleficiato quella figliola di Lorenz di Menic(h).

R. È vero che, essendo venuta detta figliola a casa mia a farsi far le trecce, mi comparve il diavolo vestito di nero in forma humana et picolo, qual mi disse fargli un po' de male. Et cossì io la maleficiai, toccandogli la testa con un poco di onguento. Il giorno seguente, essendo andata in casa sua, mi dissero li suoi di casa: Da che heri sera mia figliola fu da voi per farse far le trezze, non più si è sentita bene. Io gli risposi: Se la non si sente bene, Iddio e la Madona li dii sanità. E cossì guarì.

I. del maleficio fatto a quella vacha di Bartolo di Menena.

R. Havendo una vacha del detto Bartolo scornato la nostra, da sdegno la maleficiai et dissi: Vacha, possis morir doman! E così la vacha se amalé, et da lì a poco tempo la morì.

I. delle compagne.

R. Mi non ho cognosciute altre che la detta Domenega di Casteleir e mia madre.

I. in che modo habbi conosciuto detta Domenega.

R. Alla voce, sebene non posso dire di haverla vista in faccia.

I. se essa ha fatto maleficio al signor dotor Giulio Foliani et in che modo.

R. Havendogli io portato il latte di pecora, (208) come già ho deposto, nel votarlo in casa sua, mi venne pensiero di maleficiarlo. Et lo feci con queste parole: Latte, fagli male! Se ha male, ghen venghi un po' più!

I. del onguento, dove se ritrovi.

R. [L']ultima volta che io l'ho adoperato lo misi sotto il zendrè in Valia. Mia madre forsi l'haverà adoperato doppo, et messo in altra parte ch'io non so.

Quibus intellectis, fuit ordinatum quod pro habenda veritate de complicibus et aliis maleficiis per eam factis [conducatur ad locum torture et supponatur tormento], prout acta est. Et incipit clamare: Oimé!

Et interogata de predictis.

R. Mi non ho conosciuto altri che le sudette, né io ho fatto altro male. Che sebene era obligata a far male ogni giorno, facevo per ordinario seccare un spino, o una frosca, o crepare un sasso.

Et dettogli che facesse crepare un sasso presentialmente.

R. Adesso non ho più posanza, perché non son più del diavolo.

Postmodum interogata del modo con il quale faceva l'onguento.

R. L'onguento non lo so fare. È ben vero che andavo a Santo Martino e restava un poco da drieto all'altri et poi pigliava de quelli ossetti più picoli de creature morte, li quali riducevi in polvere, la quale adoperavo a far seccare frosche o spini.

Et dettogli che averti bene a dir la verità, che cosa faceva di quella polvere, stando che li spini faceva seccare col solo soffio o sguardo.

R. Ho adoperato di quella polvere quando feci maleficio a quella figliola di Lorenz di Menico, mettendogliene sopra la testa.

Paulo post cepit clamare: Levatemi giù, che dirò la verità.

Et fuit ordinatum quod deponeretur. Quod factum est.

Et interogata che altri maleficii habbi fatto con quella polvere.

R. Ne ho messo nel latte del signor dotor Giulio dentro a casa. Ancora ne ho messo sopra la spalla di quella Felice.

Addens: Sarò andata 15, 16, o 20 volte nel carnicon (209) a tuor de quelli ossi, li quali facevo seccare appresso il foco. Poi adoperavo di quella polvere, come vi ho già detto.

I. delle compagne.

R. non haver cognosiute (aa) se non le sudette.

Et visa pertinacia, quod non velit detegere consocios, fuit iterum supposita tormento vigilie, et statim cepit clamare: Oimé, misericordia!

Et cum esset in tormento fere per horam, fuit interogata che dica la verità, qual'era la terza compagna del maleficio fatto a Barbara di Franciolin.

R. È stato Domenega di Casteleir.

I. in che modo, et in qual luoco.

R. Un mese avanti in circa che io facessi maleficio alla detta Barbara, venendo da Verva io, mia madre et detta Domenega, ove eravamo state al ballo, essendo sotto l'Arsure, appresso l'aqua, fu fatto conseglio di maleficiarla et farla stare un pezzo amalata.

I. se aposta fu maleficiata, affine che restasse in vita penando tanto tempo senza poter magnare o bevere, se non aqua.

R. Io non so l'intentione che havessero loro. Mi dissero a me che dovessi maleficiar quel panno et darglielo, come ho fatto, ma altro non ne so.

I. che si dichiari, poi che altre volte ha detto che non haveva conosciuto detta Domenega se non per voce, et che havendo poi fatto tal consiglio, è di necessità che si conoscessero molto bene.

R. Quando eravamo al ballo, non si conoscevamo altrimenti che per voce. Ma nel ritornare a casa veniam (210) da compagnia sin alle Arsure, giù verso l'aqua et alhora tra noi se conoscevamo.

I. se doppo sono ritrovate insieme a parlar di tal fatto.

R. Signori, no.

E cossì fu slegata et condotta alla preggione.

Die sabbati 16 mensis novembris.

Fuit ordinatum per magnificum concilium quod constituatur dicta Dominica et interogetur de complicibus et aliis maleficiis per eam factis. Et quando non velit aliud addere, elevetur in tortura, et super singulis depositis interogetur pro (bb) ratificatione habenda.

Et sic interogata.

R. Mi, in mia conscientia, non ne ho cognosciute (cc) altre. Non voglio far torto alla mia conscientia.

I. s'essa ha agiutata la madre a far l'onguento et levar le creature fuori del cimiterio.

R. Signor, no.

I. se essa confermarà quanto ha deposto.

R. Manco male, ratificarò ogni cosa per esser la verità.

Postmodum, ligata ad funem, fuit illi lectus processus circa omnia per eam comissa de uno ad unum. Et postea fuit elevata, et iterum interogata super singulis, ratificavit ea omnia in forma etc. Quibus stantibus, fuit deposita et ad solitum locum ducta, animo.

Et quia ceteri malefici et malefice detente plures complices maleficos et maleficas nominaverunt, fuit per partitum ordinatum quod dicta Dominica constituatur super illis. Et sic constituta et interogata a voler dir la verità et nominare se vi sono altri compagni et compagne.

R. Starò a quello ha detto la mia madre, ch'ella dirà, che farò tutto bene.

Interogata et monita a dir liberamente la verità della terza persona che fu in compagnia sua et di sua madre (dd) Domenega, a far il conseglio di far il maleficio a Barbara di Francello.

R. (gemendo) Vi basti quello vi ha detto (ee) mia madre. Mi rimetto a quello. Non mi travagliate (211) più.

Monita che non basta che si rimetta al detto della madre, ma si vole di sua bocca la medesima verità.

R. Il stroligo à detto ch'era mia ameda (212) Mighina.

I. che dica s'è vero.

R. Non mi fate dir a me questa cosa.

Et dettogli: Domenega, se vi promette che non sarete messa al confronto et sarete tenuta segreta.

R. Signori, sì, che è vero che havemo fatto il consiglio tutte tre insieme et si haveremo ritrovate andar da compagnia al ballo, et veniva ancora l'altra mia ameda, moglie di Christoforo del Valar, quale pure è strega.

Interogata a nominare d'altri complici.

R. nominando: Balser di Pradella et Abondio del Sartor, (213) quali ho visto al ballo.

Et postmodum interogata de aliis complicibus.

R. Vi è ancora Franceschina, figliuola di Giacom di Franceschina, la quale veniva ancora lei al ballo in Verva le volte che andavamo ancora noi. Di più la Gatta di Livigno, la quale fece maleficio a Martha di Bertol, fantesca di Urban di Isolaccia di Cho desotto, (214) del quale Glazetto è suo tutore, la qual andé fuori di sé. Ancora Giacomina, moglie del Seint, (215) la quale ho conosciuto al ballo.

I. s'ha conosciuto Appolonia del Folonaro, moglie di Christoforo Folonaro.

R. Signori, sì, in Verva et alli luochi dove andava ancora mi, come peranco [Domenega] la moglie del Marenda.

Et sic fuit dimissa ab examine, animo etc.

Die iovis 5 mensis decembris.

Denuo de ordine concilii constituta fuit dicta Dominica, et interogata se ha conosciuto la figliola di Maria di Gioanin, cioè Martha et Mighina, sorelle.

R. Signori, sì, che venevano al ballo, dove andava ancora mi. Ancora ho conosciuto Domenega, detta la Marenda da Semogo. Ancora Giacomina, moglie di Thadeo d'Oga.

Postmodum monita che, essendo questa l'ultima volta che si ha da constituire, vogli pensar et avertir bene a dir la verità. Se per sorte nelle sue depositioni haveva fatto torto a qualche persona, vogli raccomodare i suoi constituti, et se altrimenti ha detto la verità, confirmarli.

R. Io ho detto la verità, né so, né ho scropulo di haver fatto torto ad alcuna persona nominata.

Et pro maiori cautione fuit ordinatum quod illi legantur nomina eorum et earum quas nominavit et deposuit ut maleficas, silicet:

Dominicam de Casteleir confirmavit
Mighinam del Cottol confirmavit
Giacominam del Valar confirmavit
Balsarinum de Pradella confirmavit
Abundium del Sartor confirmavit
Francischinam, filiam Iacobi de Francischina confirmavit
Gattam de Livigno confirmavit
Giacobinam Malencam, uxorem Tonii Seint confirmavit
Appolloniam del Folonario confirmavit
Martham Marie de Gioanin confirmavit
Mighinam, dicte Marie, sororem confirmavit
Giacobum de Francischina suprascriptum confirmavit
Dominicam, dictam la Marenda confirmavit
Giacobinam, uxorem Thadei d'Oga confirmavit.

Et pro suplemento presentis processus fuit ordinatum quod dicta Dominica lighetur ad torturam et in ea elevetur pro confirmatione habenda eorum quos deposuit post ultimam ratificationem. Que fuit ligata et elevata atque interogata de omnibus et singulis per eam ut supra depositis, (ff) recensendo de uno ad unum. Et precipue fuerunt illi specificata nomina antescriptarum nominatarum et nominatorum, que omnia ratificavit, approbavit et confirmavit ac stetit in illis declarando predicta omnia esse vera et absque aliqua fraude deposita. Quibus depositis, deposita fuit a tormento et ducta ad solitum eius locum carceris, animo [prosequendi causam usque ad expeditionem] etc.

1631. merco[ledì] li 12 marzo.

Per il magnifico concilio ordinario è statto ordinato ch'a Andrea Maiolano, (216) canevaro, sia bonificato lire 3 per ciascun giorno la spesa *** (gg) …. alle due Chieriche, comp[utate] le candele doperate per le prigioni tanto dalli 12 ottobre 1630 sin alli 23 decembre n° 73 lire 219, soldi -.

per li serviti fattegli alle 2 dette in detto tempo, a soldi 20 per giorno lire 73, soldi -
a Nicolò Rampo, servitore per servitù lire 10, soldi -
a Domenico , servitore per servitù lire 10, soldi -
al R[ampo] lire 5, soldi -
a Pedro lire 3, soldi -. (hh)

(a) Lettura incerta. La grafia seria riflette il borm. più antico séira "sera", bonaséira (Longa 222), sostituito attualmente da sìra, risalito dalla valle, ma che già compare anche in documenti antichi. Dal lat. sēra (hōra) "ora tarda" (REW e REWS 7841).

(b) Le testimonianze, in questo processo, sono indicate con una numerazione progressiva sul margine sinistro.

(c) Lettura incerta: "furono".

(d) Si potrebbe anche leggere: se n'avantato per se n'è avantato, come si troverà ripetuto più avanti: Domenegho del Cottol s'era avantato con lei che fosse stato in un letto che vi erano due giovine.

(e) Nell'originale due volte "dove".

(f) Lettura incerta. Dovrebbe valere "non voglio". È normale la caduta della -v- intervocalica.

(g) Il bordo destro della pagina sconfina da questo punto sotto la legatura, segno di fascicolatura avvenuta in tempo posteriore alla scrittura.

(h) Nell'originale cancellato: Semogo de. Borm. formighéir "formicaio", immagine parallela a un brigoléri de formìga "un brulichio di formiche" (Longa 72), qui in senso traslato di "affollamento", a motivo del rilevante numero di inquisite in paese. A motivo del susseguirsi di queste condanne a grappoli familiari, ràza de Semòch venne a significare "discendenza di streghe".

(i) Nel fascicolo è lasciata in bianco una pagina e mezza, in attesa di una deposizione che non è stata fatta.

(j) Nell'originale: vendendo.

(k) Nell'originale si ripete due volte: fosse.

(l) Si ripete due volte "vero che".

(m) Nell'originale è inserita mezza pagina che riguarda un contesto successivo, più esattamente le quattro righe trascritte nell'interrogatorio del 24 ottobre. Da questo punto i fascicoli sono stati cuciti in disordine. Nella presente edizione vengono riportati nella successione originaria, sulla base del senso e delle indicazioni cronologiche. Vengono spostate qui alcune pagine, che nel documento ora disponibile sono fascicolate dopo il secondo interrogatorio di Ioannes Antonius quondam Bernardo della Gotarda de Isolacia (5 novembre 1630).

(n) È stata inserita la mezza pagina anticipata per errore di rilegatura, richiamata in fondo alla pagina dalle parole "quanto danno".

(o) Le ultime quattro righe seguivano, nel fascicolo, l'interrogatorio del 23 ottobre.

(p) Nell'originale per errore è scritto: martis. Il 23 ottobre 1630 era un mercoledì, come appare anche dalle datazioni precedenti e successive.

(q) Le trascrizioni dei verbali che seguono, fino agli interrogatori del 1630, ottobre 29, non si sono potute riprendere dagli originali (salvo le quattro righe alle quali si è fatto cenno nella nota precedente), dal momento che non si sono più rintracciati, ma su una trascrizione risalente agli anni '70 del XX secolo, curata da Remo Bracchi.

(r) Non avendo ritrovato l'originale, non è possibile decidere delle parole lasciate in sospeso. Il senso che si ricava è che il ragazzo continui a migliorare.

(s) Non avendo ritrovato l'originale, non è possibile decidere delle parole lasciate in sospeso.

(t) Non avendo ritrovato l'originale, non è possibile decidere delle parole lasciate in sospeso.

(u) Seguono due pagine bianche.

(v) Il decreto del consiglio di Bormio che segue appare cancellato nell'originale.

(w) Di questo brano vengono fornite due trascrizioni. Le lasciamo entrambe, perché permettono di stabilire un confronto. Le varianti sono di minima entità. A conclusione della seconda si trova la traduzione della formula latina.

(x) Nell'originale: petiis.

(y) Nell'originale: it.

(z) Seguono una pagina e mezza bianche.

(aa) Nell'originale: conognosiute.

(bb) Nell'originale si ripete: pro pro.

(cc) Nell'originale: cognognosciute.

(dd) Nell'originale: figliola.

(ee) Nell'originale è ripetuto: vi ha detto vi ha detto.

(ff) Nell'originale: per eam ut supra depositis [ab] ea ut supra.

(gg) Non avendo rinvenuto l'originale, non è possibile decidere delle parole lasciate in sospeso.

(hh) A partire dall'interrogatorio che segue, la trascrizione riprende a essere fatta sull'originale.

(1) Giasone Fogliani ricoprì delicatissimi incarichi pubblici nel travagliato periodo che seguì la rivolta della Valtellina e dei contadi di Chiavenna e di Bormio contro le Tre Leghe Grigie nel 1620. Il 14 giugno 1630 fu eletto podestà, succedendo a Giulio Fogliani (cf. nota 181). Sarà confermato in tale carica l'8 ottobre 1631 (cf. ACB, Quaterni consiliorum, sorte primaverile 1630 e sorte estiva 1631). Si dimise dalla podestaria nel 1632, ma le dimissioni furono respinte il 19 giugno (cf. ACB, Quaterni consiliorum, sorte estiva 1632, giugno 19). Lasciò un importante memoriale di cui si è fatto cenno nell'introduzione storica alle precedenti trascrizioni. Esso fu redatto nel 1637 e l'originale non è stato finora scoperto negli archivi di Bormio. Rimane una parziale trascrizione dello storico Giuseppe Romegialli, conservata nell'archivio di Stato di Sondrio nel Fondo Romegialli. Morì poco prima del 3 novembre 1637, giorno in cui il consiglio elesse un consigliere in sua vece e nominò dei tutori delle due figlie Margarita e Catarina, procreate da Baldassarina figlia di Gioachimo Imeldi (cf. ACB, Quaterni consiliorum, sorte invernale 1637-38, novembre 3).

(2) Domenico Gaglia era figlio di quel Giovanni incontrato nel processo per stregoneria contro Caterina Petrogna, condannato con la moglie Caterina per le ingiurie alla stessa. A Pedenosso, dalla piazzetta sottostante la chiesa di San Martino scende un avvallamento ancora chiamato Poz del Ghèglia. La casa che lo affianca è con ogni probabilità quella abitata dai Gaglia. Il cognome Gaglia è ancora presente a Bormio e in Valdidentro (Longa 327, 330). Più che una variante di Galli, potrebbe essere in ralazione con l'ant. agg. Borm. ghègl "variopinto", ghèglia detto di una cosa che ha colore frammisto (Longa 79), dal lat.*gallius "variegato come la coda del gallo" (REW e REWS 3663).

(3) Località di Pedenosso. Anno 1658: il Gaglia a Resonello ha stretto un poco la strada con un muro; 1679: sopra il comunale verso strada in un suo prato a Resonelli; 1697: sto a Pedenos, in cò della Val di Resinato… andar nella strada de Resonel… lì alle Pradelle, dove si dice alla Valle di Resonel (QInq). Forse da rasus "raso, disboscato" (REW e REWS 7082).

(4) Nel senso di "praticare l'esorcismo". In contesti analoghi si usa più specificamente leggere addosso.

(5) Si tratta dell'astrologo, di nome Daniele, residente in Engadina, già comparso nella prima parte di questo lavoro (cf. per esempio il processo a Caterina Petrogna nel 1610) e che sarà frequentemente citato negli incartamenti che seguono.

(6) Borm. pradéir dal lat. med. pratārius "falciatore" (REW e REWS 6732). Era il lavoratore giornaliero incaricato di falciare il fieno. Con lo stesso nome si indicava anche una misura di superficie di circa 2350 m2, corrispondenti al tratto di prato che normalmente veniva falciato da un lavoratore in un giorno. Con il nome di i pradeir si designavano ancora le stelle della costellazione dell'Orsa Maggiore (Longa 205), in corrispondenza de li resc'telögna "le rastrellatici del fieno", sotto la raffigurazione delle quali venivano indicate quelle dell'Orsa Minore (Longa 211). L'indicazione non volsi andar là nella Terra significa "non ho voluto giungere fino in paese". Si trattava di una precauzione per passare inosservato e non incorrere nelle sanzioni.

(7) Termine antico, che ricorre più volte nei documenti d'archivio, corrispondente al mil. mié "moglie", dal lat. mulier, -ĕris "donna" (REW 5730), attualmente soppiantato da borm. fémena, furv. fémana, sem. fömena, liv. féma "donna" e "sposa, moglie", lat. fēmĭna "femmina, donna" (Longa 63; REW e REWS 3239).

(8) Nel senso avverbiale del dial. (de) sigùr "di sicuro, sicuramente" (Longa 229).

(9) Borm. sc'cartòz "cartoccio" (Longa 234), derivato da carta, accartocciare con prefisso s- rafforzativo (REW e REWS 1866).

(10) Nel senso di "ricette" su fogli di carta.

(11) Il ducatone valeva 7 lire e 4 soldi imperiali, cf. ACB, Quaterni consiliorum, sorte primaverile 1617, febbraio 21.

(12) Borm. al sc'pés "la parte soda". A Livigno al sc'pés "la mascarpa che si è appena formata" (Longa 244).

(13) Forma intermedia che tra quella attuale borm. inguidàr (ió) "inghiottire, deglutire" (Longa 91) e quella originaria derivata da *(ad)viāre "mettere sulla strada, volgere in una direzione, dirigere" (REW e REWS 222a; LEI 1,937-44: manca questa accezione; cf. Bracchi, «Paideia» 35 (1980), p. 56), continuata più da vicino dal valt. vià gió "ingoiare, deglutire" (Pontiggia 113). Nel processo contro Marta Berbenni detta la Sciagona, celebrato in questo stesso anno, leggiamo: Signor no, che lo inviavo giù [il comunichino "la particola"]. Vero che nel inviarlo giù pareva che mi causasse brusore. Anche sulla base di questa prima attestazione, il raccostamento a "guidare giù" è da considerarsi frutto di riformulazione popolare. Tiran. 'nguiàa giù "inghiottire; masticare amaro", 'nguiàa giù salìua "avere l'acquolina in bocca" (Pola-Tozzi 68), formazione intermedia, nella quale non è ancora intervenuta l'epentesi della d.

(14) Su quali persone.

(15) Borm. ant. interquerìr "investigare, indagare, inquisire, richiedere", dal lat. Lat. tardo *interquĭrĕre "indagare", con metaplasmo di coniugazione, composto di quaerĕre "interrogare, esigere" (REW 4451; REW e REWS 6923). Anno 1582: morto lo marito, la intraquereteun'altra volta; 1601: né son statta presente ch'esso l'habbi intrequerita per mogliere; 1619: per quanto ho intrequerito da lei, dice aver avuto compagnia; 1649: doppo haver un pezo in varie parti intrequerito se detto putto era statto visto; 1662: io intrequirii per farli far pace; 1666: essendomi fermato a interquirire che cosa fusse questo (QInq). Bellinz., com. intraquirì "indagare, cercare notizia di cosa o persona" (Monti 118), surselv. intercurìr "ricercare" (NVS 513).

(16) Più oltre nel processo si descrive la pratica. Il recipiente sara chiamato zaina.

(17) Per decidere dopo maggiore riflessione.

(18) Il riferimento è a Domenica Pradella detta la Castelera, molto temuta, perché considerata una strega raffinata nella sua arte. Più avanti si dirà più esplicitamente: Ben questa la farò venire dove voi mi, ma el ve n'è un'altra più grande, che quella non la posso far venire.

(19) Quando esistevano legami di parentela non si era obbligati a giurare. Borm. ant. germàn "cugino di primo grado" (Longa 80), dal lat. gĕrmānus "fratello" (REW 3742), ora cusgìn (Longa 121), da consŏbrīnus "cugino", anch'esso in origine "fratello" (REW 2165). L'evoluzione del significato si spiega all'interno della famiglia patriarcale, nella quale il vero padre di tutti è il nonno.

(20) "Questa Caterina ha davvero qualcosa". Formulazione stentata a motivo dell'imbarazzo nel trovarsi costretta a rivelare un sospetto. Borm. vergót(a) "qualche cosa" (Longa 271), dalla locuzione lat. vēre gŭtta "proprio una gocciola, proprio una piccolissima cosa" (REW e REWS 9224; DEG 950; DVT 1391-2). Di formazione analoga è il lomb. negót(a) "nulla", alla lettera "neppure una gocciola", nel dialetto borm. antico contratto in nót(a) "niente, nulla; non", in Valdisotto nagóta uscito dall'uso (Longa 176). Non risulta invece chiaro il valore di ciò, ripreso subito sotto nella domanda del giudice. Più oltre nel processo troviamo: venendo da chiesa con Domenega detta la Chieriga, essa mi disse: Che alla ciò Barbola di Francello? Nel contesto la particella risulta desemantizzata, e viene introdotta nel discorso come un semplice richiamo a porre attenzione. È forse da accostare al ven. ciò, voce di richiamo ("ehi!") o di rinforzo, in posizione enclitica, di particella di asserto (sì ciò!), di negazione (no ciò), di meraviglia (a bèn ciò), sempre comunque con una sottolineatura emotiva. Dal friul. ciò, tiò, formazione apocopata da ciòl "prendi!, toh!, ecco(ti)!, ehi!", da un tardo *tjolle per tolle "prendi" (Rohlfs 1,146; DESF 2,399). Ripercorre la medesima trafila etimologica e semantica dell'it. toh!, imperativo cristallizzato di torre < lat. tŏllĕre "prendere" (Bondardo 60; REW e REWS 8769).

(21) Responsabile del fatto.

(22) Cf. più avanti: vi è stato alcuna volta ancora Andrea Malenco Cramer. Borm. cràmer "merciaiolo ambulante" (Longa 115; Monti 58), dal ted. Krämer, dello stesso significato. Qui sembra già forma cristallizzata in soprannome. Una famiglia soprannominata Kràmer è ancora presente in Valdidentro. Borm. ant., anno 1484: Zannes vocatus Cramerus et Jacobus, fratres et filii quondam Christofori Zanardi olim Boneti de Draza (Imbrev. di Lazzaro Marioli, Arch. Stat. di Sondrio). La cràmera era indicata a Cepina come uno dei personaggi misteriosi "che porta i neonati nelle case" insieme al moléta, trep. al trecöt "accattone, mendicante".

(23) Soprannome familiare in relazione col borm. còtola "caccola di bovini o di ovini attaccata all'animale" (Longa 114), gros. còtula "grumo di sterco rimasto attaccato al vello delle pecore e delle capre; sterco secco che rimane sui prati prima della pulizia primaverile; cispa, sudiciume degli occhi e el naso» (DEG 303). Un ceppo di Kòtul è ancora segnalato al principio del secolo scorso in Valdisotto (Longa 331). Si è proposta un'ascendenza germanica, in collegamento col ted. Koth "sterco, fango" (Stampa 60; HR 2,737 e 1014).

(24) "Imputata, accusata". Borm. imbutàr "rinfacciare, accusare" (Longa 88). Il Monti riporta erroneamente un secondo imbutà ricavato dal processo contro Maddalena Lazzari del 1673, deducendone un'accezione di "untare, unguentare" (Monti 112 e ).

(25) Probabilmente già soprannome di famiglia. Borm. ant. folonéir "gualchieraio" (Longa 70), dal lat. med. fŭllōnārius "fullone, gualchieraio" (REW 3562). Il cognome Folonari, un tempo presente a Semogo, è scomparso per l'emigrazione in massa della famiglia.

(26) Di Poschiavo.

(27) Il cognome Trameri è tuttora vivo a Isolaccia (Longa 330). Un Johannes Tremarus compare tra gli ostaggi bormini consegnati al Comune di Como nella pace del 16 aprile 1201 (cf. Besta, Bormio 210). Il suffisso dial. -éir (lat. -ārius) dovrebbe denunciare un professionale scomparso. Forse un derivato dal lat. trama "trama del tessuto" (REW e REWS 8847; Bracchi, BSSV 43,44-5). Ven. (trevis.) cogn. Tramaróllo "tramaiolo, orditore di trame" (Olivieri, Onom. 210).

(28) Forma popolare di Margherita.

(29) Borm. Védesc mó che… L'avv. "ancora", dal lat. mŏdo "ora, adesso" (REW e REWS 5630) entra anche nei composti amó "ancora", gemó "già", gnamó "neppure" (Longa 156).

(30) Borm. ant. falcolàr "tagliare l'erba, mietere" usando la fàlcola "falciuola" (Longa 60), lat. falcŭla "piccola falce" (REW e REWS 3159).

(31) Borm. ant. créta "credenza, opinione", tart. crèta "credito; credenza, con pagamento differito" sulla fiducia (DVT 253), dal lat. med. crēdĭtus "confidato, affidato" (REW 2308; GMIL 2,613).

(32) Borón parte superiore di Val Lia in Valdidentro (Longa 310). Sottocen., lug. böra "fossa del cimitero" (VSI 2.2,692), tic. mer. bürùn, lomb. ant. (sec. XIV) bora "precipizio, burrone", lomb. ant. (a. 1554, Bandello) borroni pl., brianz. borón "buca piuttosto grande, fosso profondo formatosi in occasione di piene, nel quale vi stagnano le acque», vogh. burón, vigev. buri «fondo d'acqua stagnante, melma, mota", bust. bora "fossa", Val Ser. (Parre) böra "cisterna a guisa di pozzo nel quale si raccoglieva l'acqua piovana" (Tiraboschi 1,196), non. (Fondo) burón "burrone, forra, precipizio" (Quaresima 59). Da una base *bor(r)- / *bur(r)- "corpo di forma tondeggiante o cavo" (LEI 6,1115-7), poi "avvallamento, fossa; pozza d'acqua, tonfano" (cf. anche REW e REWS 1233).

(33) Per fargli ammettere la cosa senza che se ne accorgesse.

(34) Borm. ti te sasc mìga che i dìgen "tu non sai che dicono". In sasc si conserva la desinenza finale latina -s di seconda persona singolare, fenomeno in continuità con l'area ladina (Rohlfs 2,247-8).

(35) Soprannome che ricalca probabilmente il borm. cotìn, cutìn "sottanino", dimin. di còt "sottana" (Longa 114), dal francone *kotta "mantello, vestito, tonaca" (REW 4747; DEI 2,1139).

(36) Borm. gudàza, valli gudèza "madrina, colei che tiene un bambino a battesimo" (Longa 85). Dalla parola alto ted. ant. goto "padrino" (REW 3826), germ. *goto, gota, alla quale è stato aggiunto il suff. lat. -aceu, -acea, affine al got. gudja "prete", che risale alla denominazione germ. di "Dio" (ted. Gott, ingl. God "Dio"). Come nome di "padrino" e di "madrina" si ramifica nell'intera area germanica occidentale, in continuità con la nostra. All'inizio si trattava forse di un composto parallelo al gall. gutu-ater attribuito a una "classe di sacerdoti", dall'ie. *ghutu-pHtēr "padre in Dio" (IEW 1,413).

(37) Località di Pedenosso. Anno 1660: ad un mio loco nelle tenute di Pedenosso, in loco del detto Giacomo, ove si dice in Pendei (QInq). Dal verbo lat. pĕndēre "pendere" (REW 6383) che connota l'inclinazione del terreno, come nel derivato it. pendio. Cf. gros. pendégia "locale ricavato in un corpo aggettante delle baite di montagna" (DEG 616), valt. pendésc "solaio" (Monti 180).

(38) Borm. balórt "stordito". Più sotto gran balordimento di testa "stordimento, senso di vertigine". Dal lat. lŭr(ĭ)dus "pallido, giallo", quindi "fisicamente debilitato", in glosse anglosassoni del sec. VII "zoppicante" (REW 1119; DVT 53), col prefisso elativo bis "due volte, doppiamente".

(39) Borm. delónch, valli dulónch, furv. dalònch "subito, immediatamente" (Longa 50). Liv. da lónc(h)' "lungi, da lontano" (Longa 349), surselv. daluntsch, eng. dadlöntsch "da lontano" (DRG 11,429-33). Il senso originale della locuzione sottolinea dunque il presentarsi quasi improvviso di qualcosa che si è atteso da lontano, lat. lŏnge "(da) lontano", lŏngus "lungo" (REW 5116 e 5119). Final. delùngu "sempre", ti végni delùngu cuande a nu te spétu "vieni sempre quando non ti aspetto".

(40) "Viene spacciata per strega". L'espressione ritorna anche altrove in questo stesso manipolo di processi.

(41) Per abbeverarlo.

(42) "Pazzie, stranezze". Plurale della prima in -a.

(43) Pézel falde fra Val Bociàna e Val Lia (Longa 313), negli Statuti boschivi: De busco de Pezzello… nemus de Pezello sit tensum usque ad prata Pezelli… buschus de Pecello sit de cetero tensus (StNBorm, c. 10; cf. Credaro, St. Garzetti 122: l'ultima aggiunta è dell'8 giugno 1398; cf. anche cc. 12, 15); Item buschus de Pezel sit tensus (StNBorm, Rubr. nova, c. 14; cf. Credaro, St. Garzetti 143). La ritrazione d'accento potrebbe essere un fenomeno secondario. Il nome andrebbe allora con i derivati di péc' "abete rosso" < lat. pĭceus, pĭcea "abete", in senso etimologico "ricco di pece o resina" (REW 6479; DTL 418; Sertoli 91).

(44) Borm. a tèrmen "a confine" (Longa 258).

(45) "Era gravemente deperita". Lat. tardo *sŭcĭdus "sporco, lordo" (REW 8414). Lo scorrimento semantico passa attraverso le accezioni di "sconcio, di brutto aspetto".

(46) Giuramento al quale non sarebbe tenuta, a motivo della parentela. Il teste non obietta, dal momento che depone in difesa delle imputate.

(47) Forma verbale antica, che ricorre anche altrove, in analogia con stagando "stando". Anno 1556: che siando in piazza; 1563: digandogli poi ancora; 1568: digando a detto Abondio; 1574: digando che volea piedezar [= far causa] (Rini 23), 1630: venne a raggionare di questa Catarina, digando che fossero stati dentro al monte di quei del Cottol (QInq). I dialetti sett., spec. antichi, hanno generalizzato per tutte le coniugazioni il tipo -àndo > -ànt (Rohlfs 2,364-5). Il friul. presenta invece le due forme -ànt e -ìnt come la moderna koinè veneta -àndo e -éndo. Zold. disànt "dicendo", piandànt "piangendo", pudànt "potendo", ridànt "ridendo".

(48) Nella Valdidentro è ancora segnalato al Bósc'ch del Cónt in Val Viola (Longa 311). La gente pensa spontaneamente al conte Galeano Lechi, giustiziato sopra Cepina il 23 luglio 1797. Ma la denominazione risulta molto più antica e trae origine dalla nobile famiglia Alberti, che possedeva tale proprietà. Esiste un processo del 1610, nel quale si definiscono con cura tutti i confini: il bosco era tutto del signor conte [Alberti], che il suo era solamenter dal troio [= sentiero] che vien dalla Cunna della Sella al pra de Temelina, et vien lì alli luoghi de Cardoné (QInq; Bracchi, BSSV 35,21).

(49) Nome che ricorre, con qualche variante, in tutta la documentazione antica. Ora Plandelvìn, Plan del vin (Longa 313), per reinterpretazione popolare. I favoleggiati depositi per la stagionatura del vino prima del trasporto al di dà delle alpi non trovano nessun fondamento. Anno 1461: jacenti in sigezijs plani Albini (perg. Chiesa parrocch. di Bormio); 1589: Gottardus filius quondam Tonii Lorenzini de Plan el vin; 1601: passava una donna dentro per Planalbino; 1607: m'incontrai in Gottardo di Planalbino; 1643: Anna uxor Gasparis de Planelvino (QInq; Bracchi, BSSV 35,28; 43,52). Mentre il primo segmento compositivo planum "piano" non presenta difficoltà, il secondo rimane incerto tra un aggettivo albus "bianco" (REW 331), un nome proprio o una base prelatina *alba / *alpa "altura" (REW 379).

(50) Si tratta della sorella di Tonio, nonostante l'ambiguità sollevata dalla sintassi.

(51) "Stordimento, sensazione di vertigine" (cf. balórt nelle note che precedono).

(52) Nel dialetto attuale l'ausiliare è tanto ör "avere", quanto èser, a seconda della costruzione: né mài éi podù lamentàm; né mài me sóm podù lamentàr.

(53) Nel senso del borm. ant. rasgionàr, liv. resgionér "parlare", dal lat. *ratiōnāre "parlare, discorrere" (REW 7087; DEI 5,3198, VEI 811; EWD 4,460-1). Surselv. raschunàr "parlare, discorrere", retorom. ruschanàr, raschunàr (NVS 828; HR 2,650), gros. resunär "discutere, ragionare" (DEG 700), tiran. fa rezenà "far disperare, far tribolare, fare dispetti", valt. resenà, razenà "disputare, litigare".

(54) Dovrebbe riflettere una forma dialettale am "abbiamo": piem. ùma, lig. èmu, tic., lomb. sett. am, lomb. ém, lomb. or., trent. óm, ven. emo, parm. ema (Rohlfs 2,274). Il Longa (p. 343) cita per Livigno nó èm "noi abbiamo".

(55) La terminazione -a è la marca più comune di avverbio (Rohlfs 3,245). Anno 1617: s'è vero che al aperta et in secreto la figliola di Battista del Monico, Domenica, habbi imputato Chrispina che habbi maleficiata (QInq).

(56) Formazione avverbiale scomparsa, corrispondente di quella it. alla rinfusa, entrambe dal lat. rĕfŭndĕre "riversare fuori" (REW 7163; DEI 5,3257).

(57) Verbo scomparso. Dal punto di vista formale la voce sembra accostarsi al ver. grizzarse "vergognarsi", gard. sgricé "nausearsi", derivati dal germ. *gruwison "ribrezzo, orrore" (REW e REWS 3898), o forse meglio da una base espressiva *gricc- "brivido, raccapriccio, ghiribizzo" (REWS 3865a). Il primo segmento è costituito dall'avverbio mal "male". Il senso originario è forse quello di "farlo vergognare, farlo arrossire", per cogliere la verità nel suo turbamento.

(58) Più oltre è detto che si tratta di sale: mia madre tolse il sale e lo portò su alla detta Domenega et come essa disse: Dio e santo Antonio l'agiutti. Si trattava di un elemento prezioso di cucina e veniva importato dal Tirolo, ricambiato con l'esportazione del vino. Si effettuava seguendo un apposito percorso chiamato "la via di Halle". Negli Statuti civili se ne regola il commercio: Item statutum est quod omni anno per commune affictetur datum statere salis, quod conducitur de ultramontanis partibus in Burmio (StCBorm, c. 236). Nel corso del processo si parla di altri doni offerti alle imputate allo scopo di non rendesele nemiche: latte, farina, granaglie, fieno.

(59) Borm. ant. put(t)a "bambina, ragazza", it. putta, voce scomparsa dall'uso. Lat. popol. *pŭttus per pūtus "bambino" (REW e REWS 6890). Poco sotto troviamo il sinonimo tosa, anch'esso caduto, dal lat. tonsa, propriamente "tosata" (REW 8785; DVT 1337), in relazione con l'uso longobardo e forse già gotico di tagliare i capelli ai ragazzi nel momento del loro ingresso nella maggiore età (DEI 5,3839).

(60) Borm. lésena, lìsena, cep. lésna, sem. lìsna "lesina" (Longa 127), dal got. o francone *alisna "lesina". ted. Ahle (REW e REWS 346; DEI 3,2208-9; DVT 577).

(61) Nel senso di "si parla".

(62) Nome personale che sta probabilmente all'origine del familiare Gurini, ancora attestato a Bormio e soprattutto in Isolaccia (Longa 327 e 330). Nel processo alla Castelera, il sacerdote Giovanni Andrea Sermondo riporta una nota del libro dei battezzati: 1622, adi 31 ottobre. Ego presbiter Gio[annes] Andreas Sermondus, parocus ecclesie sancti Abondii, loci Semogi, baptizavi Caterinam, filiam coniugum Vasini Morcelli et Christine, supradicti loci. Patrini fuerunt Antonius Stephani Morcelli et Maria de Gurin, omnes loci Semogi.

(63) Probabilmente derivato da Ména, ipocoristico di Maddalena.

(64) Borm. (de)sg'laciàr, piatt. desg'lecèr, cep. desg'lacèr, forb. disg'lecèr, sem. e liv. disg'lacér "slacciare" il vestito per allattare (Longa 52). Dal lat. ex negativo e laquĕāre "prendere al laccio, allacciare" (REW 4907). Nel nesso consonantico sl si inserisce un suono parassitario di passaggio g, in origine c (Rohlfs 1,382).

(65) Borm. fiàca "vescichetta a fior di pelle" (Longa 65). Forse deverb. da *flaccāre "fiaccare", in origine "indebolire percotendo" (lat. flaccus "debole, fiacco"), passando per un valore intermedio di "piaga, segno di percossa" (REW e REWS 3343; DEG 369-70; DVT 386; DRG 6,378).

(66) Voce caduta dai dialetti attuali. Dal lat. prūrīgo, -gĭnis "prurito" (REW 6801), con prefisso s- intensivo. Tiran. prürisnà "prudere, sentire prurito", cùra l prürisna l nas, / u pügn, u basìn, u nuità che piàs (Pola-Tozzi 167), morb. prürisnà "prudere, pizzicare" (Ruffoni 115).

(67) Borm. ant. mi no séi àltro. La prima persona séi "io so" del verbo sör "sapere" è ancora viva ovunque (Longa 348; (Rohlfs 2,285).

(68) Ora Val Lìa sul versante destro della Val Viola in Valdidentro (Longa 312). Da una formazione aggett. tarda vallīva "riguardante la valle", sentita successivamente come un composto.

(69) Borm. far ìa (li) gràscia "spargere il letame per concimare il prato", bàter fòra li gràscia "sminuzzare il letame col tridente" (Longa 83-4). L'autunno tardo era definito anche come al témp de li gràscia e segnava il termine della stagione agricola.

(70) Borm. pugnàr "cozzare delle bestie con corna; urtare", far a pugnàr tra de lór "cozzare fra loro" detto delle vacche, delle capre, dei montoni, delle pecore, e anche in senso figur. "contendere, impuntarsi l'uno contro l'altro" (Longa 206), dal lat. pŭgnāre "combattere, lottare", all'inizio "coi pugni" (REW 6813). Tale senso appare ancora vivo in una testimonianza dell'anno 1714: mi ha spognata su sin che ha potuto se li ha datto solo pogni o d'altro (QInq).

(71) Borm. öbri "mammelle delle mucche, delle capre, delle pecore" (Longa 180), nel Monti erroneamente àbri (Monti 1; Monti, Saggio 3), dal lat. ūbĕr(a) "mammelle" (REW 9026). Retorom. ìver, üver, éiver "mammella" (HR 1,416), ven. sett. (Campo S. Martino, Brugine, Trebaseleghe) uro "mammella della vacca".

(72) Borm. tör "prendere" nel senso più specifico di "prendere come marito o moglie, sposare" (Longa 260-1). Il Gaglietto designa un componente giovane della famiglia Gaglia, ancora presente a Bormio e in Valdidentro (Longa 327, 330).

(73) Esclamazione ora uscita dall'uso. Significa "di grazia se, sarebbe stata una fortuna se", dal lat. mĕrcēs, -ēdis "mercede, ricompensa, grazia, pietà" (REW 5517). Cf. nel processo alla Castelera, dove l'interiezione è inserita come a prevenire un male che potrebbe succedere nel pronunciare le parole che seguono: O, marcè ti, che son stria, che mi ha insegnato la mia lava; e ancora Mercé ti, che son stria, che mi ha insegnà l'ava mia. Di solito ci si appellava alla mercè di Dio (DEI).

(74) Si tratta di uno dei figli della sorella Mighina, vedova di Antonio Trabucchi detto Còttolo, anch'essa giustiziata per stregoneria. Sui Cottoli cf. nella prima parte il processo al figlio Antonio Cottolo. I figli di Mighina compariranno anche nei processi seguenti.

(75) Ora li Arzùra, anche Erzùra, monte in Val Viola (Longa 309). Derivato mediante suffisso astrattizzante di nome di azione -ùra da arsus "arso, bruciato", arsūra (REW 682), probabilmente con riferimento a qualche incendio.

(76) Borm. (i)ó di pè "dal lato dei piedi" (Longa 192), su de cò "dal lato della testa" (Longa 108-9).

(77) Borm. indiàr al fén "riporre il fieno sulla stipa" (Longa 89), la dìa del fén "la stipa del fieno" (Longa 53). Forse dal gall. *dò(g)X "mucchio", ricavato dalla radice ie. *dheigh- "modellare (argilla)" (Bracchi, in Paideia 35,52-3; IEW 1,244-5), poi "costruire (con l'argilla)". Anno 1566: et poi saltò su la dia del rutto; 1627: deve esser ritrovata in una dia de grassia; 1650: mi caciorno verso la dia del fen, che quasi mi anegorno; 1663: [il fieno] lo pigliò suo fratello Gioseppo nella nassa, cioè giù della dia… nella nassa o dia… se era fieno di dia e a brazzo gettato su; 1668: siamo andati su nella dia della digoir [= grumereccio]; 1690: sii stato tutto il giorno sopra la dia del feno a mangiare; 1718: la dia della grassa… era nizza [ non più intatta] (QInq); anno 1663: [il fieno] lo indiò con l'altro era fieno indiato o a basso; 1666: ero andata in tablato per indiare un poco di fieno; 1671: ero in casa mia che indiavo del fieno… indiavamo fieno; 1675: ha ritrovato sopra la dia del fieno una sachetta; 1676: e dubbitavo [le funi] fossero state indiate dentro nella digoyr; 1703: una donna ch'indiava in casa mia (QInq).

(78) Borm. abòt "abbastanza" (Longa 19). Il sostantivo bòt «colpo», dal francone bōtan "colpire, gettare" (REW e REWS 1228c; FEW 1,455; ma si preferisce ora la base onomatopeica *bott- / *butt- "battere, colpire", LEI 6,1326 e 1353), in unione con preposizioni, passa a designare determinazioni temporali (cf. borm. de-bòt "subito, presto", de sg'bùt "improvvisamente") e quantitative, con un'evoluzione semantica simile a quella di lat. cŏlăphus "percossa" (REW 2034) nelle formazioni it. di colpo, fr. tout à coup e beaucoup "molto" (FEW 2,867; Bloch-Wartburg 163).

(79) Si tratta di una variante del cognome Settomini, ora scomparso, come appare dalla testimonianza 20. In origine dovette designare un gruppo familiare di "sette uomini", e risulta perciò affine ai tipi it. Settefratelli, ted. Siebenmann "sette uomini". Sp. Ceuta città dell'Africa settentrionale, a sovranità spagnola, it. fine sec. XIII Septa, in Dante Setta, attraverso l'ar. Sebtah, a sua volta dal lat. Septem fratres "sette fratelli" (Forcellini 6,614; DI 1,444-5).

(80) "Se capita qualcosa nei bestiami". Il verbo deventàr nel senso di "succedere", era continuato fino alla metà del secolo scorso nel borm. dentàr intr. "capitare, riuscire", se dénti a… "se mi capita di, se mi riesce di", liv., sem. dentér, forb., piatt. dentèr, cep. dentèr, dèr int (Longa 51).

(81) Il "seccare" era ritenuto uno dei segni più evidenti di maleficio. Poco oltre un teste deporrà: un suo figlioletto si infirmò di straordinaria infirmità, perché el seccò tutto.

(82) Nel senso di "cose schifose, porcherie". Altrove appaiono termini paralleli. Anno 1617: Quasi ogni tre dì la vomitava non solo la spesa [= ciò che aveva mangiato], ma anco altra poltronaria pur asai, che tal volta sarà stato meza pacida [= conca larga per l'affioramento della panna] di quella robaza (QInq). Nello medesimo processo sono date come varianti forfantaria, robaza, ribalderia e sporcheza. Lo scivolamento semantico avviene attraverso la considerazione che il fannullone non riesce mai a fare qualcosa di buono.

(83) Fortificazione a ovest dell'abitato di Isolaccia. Ora la località è chiamata Fòrt. la casetta è qui da intendere nel senso della voce ancora viva nella Valdidentro cheséta "cantinello, baitello per conservare il latte" (cf. più avanti).

(84) Termine scomparso. Borm. ant. zaina "recipiente" per il vino. In precedenza era stata chiamata ampolla. Dal longob. zaina "cesto", poi più in generale "contenitore, recipiente" (REW 9596). Samol. zàna "impronta nell'erba, lasciata generalmente da un animale che vi ha riposato"; pav. sàina "quartuccio, un quarto di un boccale" (Gambini 192), crem. sàina "terzuola" misura per il vino (Samarani 201).

(85) Borm. és(a), Morignone ìsa "ora, adesso" (Longa 58), dal lat. ĭpsa (hōra) "in quella stessa ora, in quello stesso tempo" (REW 4541).

(86) Borm. in quéla che "nel momento in cui, in quel mentre" (Longa 119).

(87) Borm. fòra per agósc't "nel decorso del mese di agosto". Nelle pagine che seguono troveremo una formula analoga: potria esser stato fuori per i tempi "potrebbe essere in un tempo lontano da questo", del quale non si vuole specificare meglio la circostanza.

(88) Borm. Cos'àla? "che cosa ha ella?". Non è del tutto chiaro il significato del ciò che segue. Probabilmente si tratta della cristallizzazione di una particella parallela all'it. toh, introdotta per attirare l'attenzione. Nelle pagine che precedono abbiamo trovato: questa Madalena disse: Questa Caterina ha propriamente ciò vergotta.

(89) Variante più antica di parlàr, dal lat. popol. parabŏlāre "parlare", inizialmente "narrare in parabole, con esempi", per essere più facilmente compresi (REW 6222). L'evoluzione semantica si è compiuta attraverso il linguaggio ecclesiastico.

(90) "Esse sono ora spacciate" (termine già incontrato sopra e che verrà ripreso anche più avanti). Termine già incontrato nei processi che precedono. Dal punto di vista del dialetto è interessante il pl. femm. lora, borm. mod. lór per il masch. e lèr per il femm., dal lat. ĭllōrum "di loro" (REW 4266; (Rohlfs 2,135-6; DVT 600).

(91) Nel senso di "ora infausta, sventura, disgrazia", rimasto con più evidenza nel composto corrispondente malóra.

(92) In Valdidentro col termine cheséta soi indica il "baitello isolato presso acqua corrente, dove si raccoglie il latte al fresco sull'alpe o nei maggenghi per lavorarlo", chiamato in Valfurva canéel (Longa 293). Formazione diminutiva di casa "capanna" (REW 1728). In questo stesso processo troveremo, più oltre: Sappiamo bene che havete l'onguento in Valeia, sotto la platta del zendrè et il bastone nel canevello.

(93) Cognome che ora si presenta nella forma Dei Cas, al principio del secolo scorso anche in formula unita Dei-Cas, Deicas (Longa 327-9). Più avanti nello stesso processo, incontriamo il tipo intermedio Nicolaus quondam Boneti de Casiis. Nel processo contro la Chieriga vecchia: quella figliola di Gioan Pedronin di Cas; e ancora: Barbara, figliola di Francello di Casa. La trafila si muove da casa, probabilmente come indicazione del luogo di abitazione del ceppo. Il cognome Casa è ancora vivo specialmente in Oga e compariva già nel trattato di pace tra Como e Bormio dell'anno 1201: Bonus de Casa (Besta, Bormio 210; Bracchi, in Paideia 35,52). La formulazione notarile latina con il de nell'ablativo plurale ha contribuito all'ascuramento etimologico. Nella retroformazione italiana si avverte l'interferenza di cas "caso". Anno 1485: Nicolaus quondam Antonii Nicolai de Cassibus de Taregua (Imbrev. di Lazzaro Marioli, Arch. di Stato di Sondrio).

(94) Prima pers. pl. che, nel caso si trattasse di arcaismo, potrebbe risultare affine al diffuso tipo ven. gèrimo, tosc. èramo, èrimo, nap. èramë (Rohlfs 2,293). Del verbo èser "essere", il Longa dava all'inizio del secolo scorso: borm., cep. no n s'èra, forb., piatt. ant. no n s'àra, trep. nó m'àra, liv. nó àrom "noi eravamo" (Longa 341), da confrontare col tic. sìram, mil. sérem (Rohlfs 2,294).

(95) A motivo della parentela, come risulta dalle righe che precedono.

(96) Borm. rin (de àqua) "ruscello, torrente" (Longa 212 e 293), dal celt. *reinos "corso d'acqua", dedotto da una radice ie. riconducibile al sign. di "scorrere", da cui anche il lat. rīvus "corso d'acqua, ruscello, torrente" (REW 7327). Surselv. rèin "ruscello, torrente" (NVS 842).

(97) Borm. sentàs (ió) "sedersi" (Longa 223-4), dal lat. tardo *sĕdentāre "far sedere, porre seduto" (REW 7780). L'osservazione che una delle due donne si stesse calzando suona come una prova che le due bestie che avevano attraversato il torrente erano in realtà le due streghe.

(98) Soprannome di probabile origine professionale, che doveva indicare la pratica del "conduttore di legnami", ora boradór da bóra "tronco d'albero" (Longa 36). Resta traccia nel toponimo i Buràt sopra Piazza. Anno 1316: iacentem ubi dicitur ad Plazam, cui coheret a mane Gervasij Borrati (Bracchi, BSSV 41,57). Samol. buràtt "boscaiolo addetto al taglio delle conifere, dalle quali si ricavavano grossi tronchi (bôrr, sing. bóra)", da una base prelat. *bor(r)- / *bur(r)- "corpo di forma tondeggiante o cavo" (REW 1224a; LEI 6,1097 ss., in partic. 1130 ss.).

(99) Nelle pratiche stregonesche i capelli occupano un posto di preminenza. In questo stesso processo un testimone deporrà: Doppo pocho tempo mi venne vomito et vomitette cozzi negri congiunti con aqua quasi serena "vomitai capelli neri mischiati con acqua quasi limpida". L'accusata confesserà: fui instigata et comandata a maleficiarlo, come feci faccendoli magnare alcuni de mei capelli nella minestra.

(100) Il verbo saglìr "saltare", anche nei significati allargati di "ballare; divertirsi, sollazzarsi", è caduto dall'uso, ma ne rimane traccia nel documenti, nel derivato liv. sagliót "cavalletta" (Longa 216 e 290) e nel topon. liv. Sagliént (Longa 318). Anno 1587: cominciai a saglir et andar cercando alla vitta de ditta Catarina in cerchar de poter haver il mio intento (QInq). Più avanti, in questo stesso processo: Mi haveramo intramazà e saglì… Quante volte sete statta con vostra madre in Verva a ballare et saglire? Lat. salīre "saltare" (REW 7540).

(101)Era curato a Pedenosso già nel 1601, cf. ACB, Quaterni inquisitionum da 15 feb. 1601, feb. 15.

(102) Il soprannome Bugliòl sopravvive tuttora a Isolaccia. Deriva da un toponimo quale Bugliòl fontana e vicinanze in Val Foscagno (Longa 310), a sua volta da bugliòl "piccola fontana di legno" (Longa 42), forse di origine prelatina, dalla base *būlium "vasca scavata nel legno o nella pietra" (REW 1193b; DEI 1,630; DVT 130).

(103) "Farlo benedire" per togliergli il maleficio. Ma esisteva anche un esorcismo praticato da laici. Borm. ant. segnàr "segnare, scongiurare con pratiche superstiziose una malattia" (Longa 223), segnadùra "esorcismo, scongiuro". «L'esorcista, a capo scoperto, prende tre palline di sugna e le mette in un bicchiere d'acqua benedetta. Dopo qualche istante ne leva una e, disegnando con essa una croce sulla parte ammalata, recita il seguente scongiuro: Aqua sànta, fortìfica co sc'to bàlsamo sc'ti cordàna! "Acqua santa, fortifica con questo balsamo questi muscoli!". Poi prende la seconda pallina, disegna una seconda croce, dicendo: Aqua vèrgina… "Acqua vergine…" ecc., come prima. Lo stesso fa con la terza pallina di sugna, dicendo: Aqua pùra… ecc. Se l'ammalato è una persona, l'esorcista lo esorta ad aver fede e, dopo la segnadùra, gli chiede: Ésc bón de dir su tré avemarìa a la Madòna, segónda la mìa intenzión?» (Longa 148; cf. anche Longa, Usi 190).

(104) Forse il difetto fisico, al quale si fa riferimento nel corso di questa stessa deposizione, si è già cristallizzato in soprannome. Poco sotto, in formula latina, sarà detta clauda.

(105) Borm. pizàr "accendere" (Longa 198). Viene qui descritta un'altra pratica esorcistica laica. Di particolare efficacia era ritenuta la céira de triàngul "cera che colava dal grande candelabro di legno a forma di triangolo che campeggiava al centro del coro durante il canto del mattutino nei giorni del triduo pasquale che concludevano la settimana santa. Al termine di ogni salmo si spegneva una candela, risalendo dal basso, fino a raggiungere quella culminale". A Cepina, «quando le bestie vanno a pascolare in montagna si usa, per preservarle da ogni male, gettar loro addosso un po' d'acqua santa o lasciar colare sulla testa qualche goccia di cera benedetta» (Longa 148). «Una rovente goccia di cera, benedetta la Settimana santa, fanno colare, quei di Premadio, tra le corna della bestia [prima di avviarla alla pastura libera] e vi incidono poi un segno di croce. Quella croce vien fatta invece dai bormiesi distillando gocce di cera sul dorso delle mucche pronte per l'alpeggio a cui le conduce lo stesso proprietario, che poi le affida a un unico pastore: o in Vallaccia, o su a Pedenollo, o in quel piano del Braulio che, se torna il sole, riavrà fra giugno e luglio, lo sfarzo luminoso dei suoi fitti ranuncoli d'oro. Riti ingenui che si appresero dai padri, e ai figli si tramandano, accompagnandoli spesso con offerte generose: due munte di latte che ogni proprietario di Talamona distribuisce, prima di partire, ai poveri senza bestiame, e il panel di burro che quei d'Ardenno offrono alla chiesa. In qualche luogo il dono, sempre di frua (frutti estivi del latte), è dato ai poveri o alla chiesa solo dopo il ritorno dall'alpeggio» (Lombardini, Valt. 32-3).

(106) Dunque la donna, quando è presente il marito, non è tenuta al giuramento.

(107) La numerazione riparte da 22.

(108) Formazione gerundiva analogica. Anno 1556: che siando in piazza; 1563: digandogli poi ancora; 1568: digando a detto Abondio; 1574: digando che volea piedezar [= far causa] (Rini 23; cf. (Rohlfs 2,364-5).

(109) Borm. lòbia "ballatoio di legno" nelle vecchie case, negli Statuti (c. 173): nullum lobium nec aliquod edificium neque lignamen a penziis [= ala sporgente] infra fiat in Villa de Burmio super aliquam viam communis, nisi usque ad tertiam partem vie versus suum (Longa ). Lat. tardo laubia, ripreso dal francone laubja "pergola, frascato", ted. Laube "chioma dell'albero" (REW 4936; DVT 590).

(110) Borm. sc'tùa "stanza, camera riscaldata dove si mangia, si raccoglie e dorme la famiglia" (Longa 251; REW 3108; DVT 1215).

(111) Borm. sàcola, sàcula "tasca, saccoccia" (Longa 215). Formazione dimin. di sach "sacco", lat. saccus, saccŭlus (REW 7489).

(112) Borm. ant. desc'pùs "dietro, a ridosso", desc'pùs la pìgna "dietro la stufa" in muratura nella stanza (Longa 52). Dalla locuz. avverb. composita de ex pŏst "dietro" (REW 6684). Montagn. de(sc')pùs "dietro, a ridosso", desc'pùs la pòrta "dietro la porta" (Baracchi 47), mil. depòs, cremon. depùs "dietro".

(113) "Avremo scherzato e giocato". Borm. ant. tramazàr, ir a tramàz "andare di sera a far lavori e conversazioni intime" (Longa 263).

(114) Borm. de la camìsgia infòra, a l'infòra de la camìsgia "se si eccettua la camicia".

(115) Borm. sc'tremìs "spaventarsi", sc'tremìr "spaventare, intimorire" (Longa 250). Lat. tardo *extrĕmēscĕre / *extrĕmiīcĕre "tremare per lo spavento, spaventarsi" (REW 3102; DVT 1203).

(116) "Non sarebbe campata molto tempo". Il "mangiar (pane)" per indicare "vivere" è già usato da Dante: e mangia e beve e dorme e veste panni (Purg. 27,30).

(117) Il termine sc'palaròl "spalline del vestito" esisteva ancora almeno fino alla metà del secolo scorso. Più oltre si specifica: me pigliasti per da dreto via per il vestì alla spalla sinistra e me tirasti alquanto indré. Anno 1629: mi prese per il spalarolo et per il vestito et di botta salda mi saltò adosso; 1653: ha tagliato li spalaroli ad una femena con un coltello (QInq). Mil. spalirö «sopraspalla, parte del finimento di un cavallo» (REWS 8130).

(118) Vallata in prossimità del villaggio di Trepalle, a partire dal fondovalle e risalendo il torrente dalla località Li Dórna, in dial. Valécia (Longa 319). È da ricordare che gli abitanti di Trepalle appartenevano alla vicinia di Pedenosso ed entreranno a far parte del comune di Livigno soltanto nel 1816. Borm. mudàr "cambiare casa o stalla; cambiare i panni", qui "spostarsi dal paese verso l'alpeggio", mudér int, in contrapposizione al mudér fòra che segue (Longa 164), dal lat. mūtāre "cambiare" (REW 5785; DVT 695-6).

(119) Borm. ésa, Morignone ìsa "ora, al presente", dal lat. ipsa (hōra) "in questa stessa ora, in questo momento" (REW 4541). L'interpretazione "si mormorava su di essa" non trova altri riscontri nei dialetti dell'alta valle. Poco più oltre troveremo: Sentì mi isa a mormorare d'altre che li siano cattive.

(120) Borm. "poi" (Longa 202), dal lat. pŏst "poi, in seguito, dopo, dietro" (REW 6684).

(121) Borm. ant. butàr "abortire" delle bestie, la vàca la m'à butà "la vacca ha abortito" (Longa 43), màdre "utero degli animali", butàr la màdre "rilassare l'utero", furv. sg'madrecèr (Longa 134).

(122) Borm. de per lór "da soli" (Longa 132).

(123) Borm. inandréit, in andréit "in modo corretto", far in andréit "comportarsi bene, filar diritto" (Longa 21), anno 1617: La sudetta quondam Anna Cristinella era mia germana et vicina, la qual stete bonadina amalada d'una fastidiosa malatia che potesse haver una creatura (QInq). Formato su dréit "diritto", dal lat. dirēctus, con la preposizione in e l'articolo determin. al dissimil. in an-, nel senso originario di "in (secondo) il modo di procedere diretto" (REW 2648; Merlo 29). Svizz. it. aldrìcc, da(l)drìcc, drìcc, ädinandrecc "ammodo, per bene" (VSI 1,81-2), surselv. endrètg "diritto, ordinato" (NVS 331), tell. aldrìc' "ben fatto, in ordine", fà en al drìc' "far tutto per bene; mettere giudizio", valt. aldrìcc "ornato, bello, nuovo" (Monti 3), "in ordine, ben fatto" (Pontiggia 15), montagn. al dricc "in ordine, ben fatto" (Baracchi 23).

(124) Borm. ant. dìna "a lungo", a dìna "a forza di", a dìna che l fàghi brut témp, al vegnerà pö l bèl "a furia di far brutto tempo, verrà poi anche il bello", a dìna de proàr "prova e riprova" (Longa 54). Derivato dal lat. diu "a lungo" con altre interferenze avverbiali (REW 2629). Surselv. adìna "sempre, continuamente" (NVS 10), valt. dìna "tardi", arivà dìna "arrivar tardi" (Monti 67); tell. bindìna "a furia di", bindìna che te dàet "a forza di fare", valt. vindìna "dopo le tante volte", bindìna che te l dìse "dopo le tante volte che te lo dico", albos. bindìna "alla fine", bindìna pô t'è idùt "finalmente poi tu hai visto" (Monti 21).

(125) Borm. ant. mi no séi pö àltro "io non so poi altro". La prima persona séi del verbo sör "sapere" è ancora viva ovunque (Longa 348). Di fronte all'it. so, da sao (a. 960) delle Carte capuane, con l'antica variante saccio, «nel settentrione ha agito, com'era prevedibile, lanalogia a ajo < habeo, cf. l'antico padovano , il ladino dolomitico e valtellinese (Valdidentro) séi, piemontese e friulano sai, istriano (Rovigno) sie (cf. ie "ho"). Anche il gallosiculo (Sperlinga) sùa "io so" è foggiato su ùa "io ho"» (Rohlfs 2,284-5).

(126) Borm. neghentàr (ìa) "affogare, soffocare", neghentàr del fum, de la sc'pùza "soffocare dal fumo, dal tanfo" (Longa 173), formazione ricavata dal part. pres. di negàr "annegare", liv. neér, dal lat. nĕcāre "uccidere" immergendo nell'acqua o soffocando col fumo (REW 5869). Surselv. neghentàr, nagantàr, najantàr "annegare" (NVS 668; HR 2,524), gros. neghentèr "annegare, soffocare" (DEG 570).

(127) Il cognome Pedrana è ancora vivo a Bormio, in Valfurva, in Valdisotto e a Livigno (Longa 328-30). Deriva dal personale Pédro "Pietro" nella sua versione matronimica, lat. Pĕtrus (REW 6449).

(128) L'interrogatorio di Domenica Chieriga senior continuerà all'interno di un altro fascicolo, trascritto di seguito a quello di Domenica Chieriga junior.

(129) Questo dovrebbe valere "sia", a giudicare dall'espressione corrispondente riportata in una deposizione incontrata in precedenza: Maledetto sia la vacha et chi la tene in casa, che la non va del male! Le forme segnalate dal Longa (342) come terza persona del cong. pres. del verbo èser sono: borm. ch lu l sìes, che lu l sìbia, cep. sìa, furv. sìas, piatt. sìa, sìes, sìbies, liv. séia "che egli sia".

(130) Borm. l'é perché l'é sc'téita pizigàda de n vèrm "il motivo è che è stata morsa da un rettile". Borm. pizigàr "pizzicare", "pungere, mordere" detto di pidocchi, pulci, formiche, api, vespe, piattole, scorpioni, rettili (Longa 198). Da una base espressiva *pīts- "a punta" (REW e REWS 6545; HR 2,597; DVT 849-50). Al di sotto del nome generico di vèrm, che congloba l'intera categoria dei rettili, si annida sempre qualche risvolto demoniaco. Già il ricorso a una denominazione dal largo spettro semantico denuncia l'interdizione del nome proprio, come è avvenuto per l'it. biscia dal lat. bīstia variante tarda di bēstia (REW 1061). Che animale sia il pizzo non è possibile stabilirlo con certezza senza altri riscontri. Si tratta forse di qualche insetto ritenuto velenoso, e perciò anch'esso contornato da risvolti demoniaci, come si deduce anche dal ricorso alla segnatura.

(131) Borm. ant. voltàda la vàca a lénges l'öbri "giratasi (con la testa) la mucca a leccarsi la mammella". Piatt. lénger "lambire, leccare con la lingua". Il verbo non è segnalato dal Longa, ma era ancora vivo a Piatta fino a qualche anno fa presso i più anziani. Dal lat. lĭngĕre "leccare" (REW 5066). Surselv. lenscher "leccare" (DRG 11,85-6), lènscher "leccare" (NVS 550).

(132) Borm. fòra per i témp "in un tempo lontano dal presente", senza voler specificare meglio la circostanza. Nelle pagine che precedono abbiamo incontrato: fora per questo agosto prossimo passato "durante l'agosto scorso".

(133) Il riflessivo sentìs "sentirsi" oscilla in questo processo nell'uso dell'ausiliare avere (ör) e essere (èser). Attualmente l'unica costruzione possibile è con èser: la s'èra plù sentida bén.

(134) "Per ripicca", borm. per ripìca. It. (sec. XVII) picca "gara puntigliosa, puntiglio, ripicco", fr. (sec. XV) pique "alterco", da piquer "piccare, ferire di picca" (DEI 4,2899).

(135) In questo processo si citano diversi strumenti di tortura: la corda, l'eculeo o cavalletto (cf. più oltre: sia ligata alla corda et messa al tormento sopra del cavaletto, over capra, sino a beneplacito del consiglio), i ceppi (compedes), i contrappesi (pondera). Poco avanti, per accelerare la confessione, si minaccerà all'imputata: non confessando la verità, vi saranno messi li contrapesi a piedi, di più se vi darà il foco a piedi. Nel processo alla Chieriga vecchia si specifica: aditis compedibus cum ponderibus. Nel processo contro Malgherta Pradella vengono indicate anche le misure: Et sic de ordine concilii fuerunt apposita compedibus pondera librarum decem; e ancora: Qua pertinacia et constantia audita, fuit ordinatum quod addatur aliud pondus librarum 15, quod fuit ligatum eius compedibus.

(136) Borm. sc'cusalìn, dimin. di sc'cusàl, sc'cosàl "grembiule" (Longa 236), dal got. skauts "grembo", la parte del corpo che copre, allo stesso modo dell'it. grembiale, grembiule da grembo, it. centro-mer. sinale, zinale da seno (REW 7986; DEI 5,3421; DVT 1079-80).

(137) Borm. inguràr "augurare", ingùri "augurio", generalmente di contenuto negativo. M'ingùri la mòrt, plutösc't "piuttosto mi auguro la morte" (Longa 91). Tart. ingör, ingür "augurio negativo, augurio di disgrazia, di eventi dannosi, malaugurio" (DVT 531-2). L'it. sciagurato vale, alla lettera "sotto cattivo augurio" e il fr. malheur "disgrazia" è un composto da malum augŭrium "augurio cattivo" (REW 785).

(138) Probabilmente per inscientibus dominis "all'insaputa dei signori".

(139) Invocazione a Dio perché intervenga a dimostrare la sua innocenza.

(140) Nel senso di "modificando, precisando".

(141) Borm. Vardé mó che bèla matèla l'é gnùda! "Guardate un poco che bella ragazza è diventata!". Il verbo può avere le due forme, vardàr e guardàr (Longa 85 e 267). L'oscillazione fonetica dipende dall'origine germanica: da *wardōn "guardare, osservare" (REW 9502).

(142) Borm. ant. tabladèl, ora tauladèl "piccolo fienile" (Longa 253-4), Touladèl nel Livignasco (Longa 318), formazione diminutiva del lat. tabŭlātum "solaio, cioè superficie piana fatta di tavole congiunte" (Monti 314), a motivo dell'assito posto sotto la stipa del fieno (REW 8515; DEI 5,3734; VEI 971; DEG 876).

(143) "Appreso, imparato" l'arte della strega.

(144) Voce caduta dall'uso. Dal contesto risulta il significato di "rancore, risentimento". Se ne trovano altre attestazioni in documenti antichi. Anno 1637: è sucesso una ruscia fra messer Antonio Baracho de Bormio et Nicolò de Vital del Caurino de Livigno con alcuni dispreggii; havendo il sudetto Domenico per ruscia, colera o altro percoso la sudetta con pugni et altro; 1638: è sucesso una ruscia in Livigno fra Crestofforo de Giacomo Claotto et Gioan Pietro de Borm del Cusino… di più è sucesso un'altra ruscia… di più è sucesso un'altra ruscia; 1645: come seguì la ruscia fra il campanar, Fogaroletto, Tomas Cancano e sua moglie; 1666: ero in Italia, quando hanno havuto le sue ruscie insieme costoro; 1670: il Moratto haveva russia vecchia con mi… ponno veder loro signori che è russia vecchia; 1677: esso pastore haveva ruscia con loro, per haverlo essi fatto pagare (QInq). Dal lat. aerūgo, -ĭnis "ruggine" (LEI 1,1134), che anche in italiano presenta il medesimo valore traslato.

(145) Il verbo sg'mèrger "abbattere, distruggere" si è perduto, ma rimangono consistenti tracce nei documenti antichi e nel toponimo la Sg'mèrza del Cròt, sopra Piazza, a indicare dove si era abbattuta la slavina (Bracchi, BSSV 35,39-40). Continua il lat. *exmergĕre "far precipitare" (Rohlfs 1,377) chiav. smèrges "precipitare da un dirupo, cadere" (Caligari 28). Anno 1560: deputati supra lignamen smersum in buscho della Colombina; 1566: totum illud lignamen smersum propter leinas in partibus de Trepalle, ubi dicitur in ti Muffé (QCons); 1627: hanno ritrovato una smersa fatta per li doi che gli erano abbrugiate le case 1624 "un taglio di bosco fatto da parte di quei due, ai quali erano bruciate le case", naturalmente per ricostruirle; 1628: se trovava hieri sera il patrone, il voleva smerzel… se mi ritrovava da solo a solo, mi voleva smergere o schiaffeggiare; 1630: venne giù [la lavina], che smerse una parte del tetto; 1658: vi era smersa; non so de chi fosse… havevan smerso nel boscho de Planazi una quantità di legnami (QInq). Il gergo dei calzolai ha continuato il verbo sg'merzèr nel significato generico di "tagliare, troncare" (Bracchi, Parlate 369-70).

(146) Mighina è sorella della Chieriga senior e moglie di Antonio Trabucchi detto Cottolo. Il richiamo alla figlia rende lecita l'ipotesi di un errore del cancelliere, che probabilmente si riferiva a Domenica Chieriga senior.

(147) Il riferimento è alla guerra del 1620 che seguì alla rivolta di Valtellina del luglio di quello stesso anno. Era detta invece "seconda guerra" la campagna iniziata nel 1635 dal duca Henri II de Rohan (1579-1638).

(148) Borm. frósc'ca "frasca, fronda" (Longa 75), forse da incrocio di frons, frŏndis con frasca da *virasca (REW e REWS 3532 e 9360; REWS 3483a; DEI 3,1708; DEG 388; DVT 418).

(149) Borm. (im)presc'tàr, resc'tituìr òbra "prestare, restituire mano d'opera", "lavorare per qualcuno, in attesa che, a suo tempo, ricompensi con un lavoro corrispondente" (Longa 179).

(150) Variante del borm. sg'grìgiol "brivido, raccapriccio", far gnur sg'grìgiol "raccappricciare" (Longa 228). Più avanti, nel medesimo processo, troviamo: havendo patito quella tal infirmità, che mi venesse un non so che di sgrisolo. Da una base espressiva *gricc- che espime "brivido, raccapriccio, orrore, ribrezzo" (REW e REWS 3865a; DEG 433; DVT 1120). Posch. sgrìsol "ribrezzo, spavento", tart. sgrisuléri "brividi, tremito per il freddo, lo spavento, la paura", com. sgrìsol "brivido per freddo o per febbre o ribrezzo" (Longa 228; Monti 273; Mambretti, BSAV 4,261); bellinz. sgrisôra "ribrezzo di febbre". La sensazione di gelo è ritenuta un segno di influenza malefica. Nel processo celebrato a Bormio contro la Petrogna nel 1610, si legge: gl'havevano hauto un puoco di suspicione che detta Petrogna gl'havesse fatto algor (QInq).

(151) Borm. ant. éi gomità cöz mascedà cu àqua seréna "ho vomitato capelli misti ad acqua quasi limpida", àqua seréna "acqua pulita", usata negli esorcismi (Longa 148). I capelli sono un ingrediente quasi irrinuciabile nei malefici.

(152) "Già tanto tempo prima della guerra".

(153) Borm. l'adigöir, la digöir "secondo fieno, grumereccio" (Longa 54). Negli Statuti civili bormini: a sancto Michele in antea nullum clausum pratorum sit in Burmio, quod non habeat vahonum [borm. bón "passaggio"] unum, ita ut possit pasculari, preter si in ipso cluso adigoirum segatum fuerit (c. 195). Da una base prelatina *alticorium / *aldicorium "grumereccio" (LEI 2,23-6), che forse contiene come secondo segmento il celt. *corio- "taglio", cf. irl. med. coire "spada", dalla rad. ie. *ker- "tagliare" (Hubschmid, ZRPh 103,465; LEI 3.2,2803; IEW 1,939). Se si considerasse primario il tipo borm. digöir, si potrebbe ipotizzare nel primo segmento l'ie. *dwi "due, due volte" (IEW 1,229; v. cimr. dwy-flwydd "biennis"), giungendo al significato originario di "secondo taglio".

(154) Borm. ör de besögn "aver bisogno" (Longa 31). Dopo la lessicalizzazione del sintagma debesögn, è stata introdotta per la seconda volta la preposizione.

(155) Formazione contratta, borm. e intànt che (a) lorài "mentre lavoravo", dal lat. laborabam. Manca la terminazione -i caratteristica a Bormio della prima persona singolare di tutti i tempi (Rohlfs 2, 246-7). Così poco sopra piglià "pigliai".

(156) Borm. fósc "canale di irrigazione, corso d'acqua" (Longa 73), dal lat. faux, faucis "gola, canale stretto" (REW 3225).

(157) "Quando vidi". Perfetto forte in s, ricorrente anche altrove nei documenti antichi (Rohlfs 2,328-9).

(158) Borm. e sgì int in sc'tùa, éi metù l marcìn su l cóp de la pìgna "e entrato in stanza ho deposto il ragazzo sulla copertura della pigna". Ant. pìgna a cùpula "stufa a cupola" (Longa 197), al cóp del capèl "il cucuzzolo del capello" (Longa 112).

(159) Borm. se la fudés chi… la ve cacerés. Nella proposizione ipotetica troviamo due congiuntivi imperfetti, in contrapposizione all'italiano che, nella seconda componente (protasi) userebbe il condizionale (Rohlfs 3,141). Lomb. ant. se tu fussi de ferro, tu devissi esse rotto.

(160) Borm. caminàr nel senso di "andar via".

(161) Borm. ant. dóa òlta, cóme ghe la déi mi "due volte, il doppio, come anch'io gliela do", cóme nu (ghe) la déi mi "come io non la do". La prima persona sing. del verbo dar è ancora ovunque mi déi "io do" (Longa 345; (Rohlfs 2,277-8).

(162) Non si è in grado di conoscere a quale santuario della Madonna si faccia qui riferimento. A Varese?

(163) Borm. "testa", drizàr (su) al cò "alzare la testa" (Longa 108-9), dal lat. caput "capo, testa" (REW 1668).

(164) Borm. florét "cruschello", dalla metafora del "fior di farina", pan de florét e tartùfol "pane di cruschello e patate" (Longa 68), mach "orzo pilato", menèsc'tra de mach "minestra di orzo" (Longa 135), deverbale da *maccāre "pestare" (REW 5196).

(165) Borm. céira, mod. céra, valli c(hi)éira "viso, faccia, cera" nell'espressione, nel colore, céra de bón "faccia umana, gioiosa, festosa, espressione di simpatia", de bóna céra "volentieri, allegramente" (Longa 45). Dal gr. cara "faccia", attraverso l'it. ciera e l'ant. fr. chiere, fr. faire bonne chère "fare buona cera, accogliere bene" (REW 1670).

(166) Borm. de per vó "da sola".

(167) "Mescolato", ora mesc'cià (Longa 154). Deverbale a suffisso zero di mĭscŭlāre "mescolare" (REW 5606).

(168) Borm. véira "vero" con terminazione avverbiale in -a, se l'é véira "se è vero, se è cosa vera", l'é mìga véira "non è vero" (Longa 269).

(169) Borm. ant. sorvedér "vedere di più di quanto si ha davanti, avere le travecole". Il verbo non sopravvive più nei dialetti attuali.

(170) Potrebbe trattarsi di un agnusdei "abitino con reliquia o immagine sacra" (REWS 290a; DEI 1,92; VEI 21). In processi degli anni successivi se ne fa menzione esplicita: anno 1631: lui [il capucino] mi insegnò due orationi, che le dicessi sera et matina, et mi diede un agnus Dei, quale ho portato adosso sette anni, né mai più son andata al ballo [delle streghe]; 1632: il signor curato diede un agnus Dei a detta Lucia, a fine che, esssendo strega, non gli potesse nuocere; 1655: gli fece un agnus Dei, col quale, portato adosso, non sentì più quella dificultà di stare in chiesa con quella putta (QInq). Il contesto è una scena di esorcismo, nella quale si avverte la presenza di tre demoni. Le risposte si alternano al singolare e al plurale, parlando lo spirito, attraverso l'ossessa, talvolta in modo personale, altre volte in modo collettivo.

(171) Probabilmente "acqua attinta alla fontana, senza trattamento in cucina".

(172) Borm. pizàr "accendere" (Longa 198). Dal punto di vista fonetico risulta difficile il collegamento con un ricostruito verbo lat. *pĭceāre "spalmare di pece per rendere infiammabile", "accendere servendosi di materiale resinoso" (REW 6479; VEI 53). In favore di questa ipotesi sembra collocarsi la locuz. sp. pegar fuego "incendiare", il cui verbo viene connesso con pez "pece, resina" (DCECH 4,514). A Bormio il verbo omofono pizàr significa "beccare", più anticamente valeva "pungere, infilzare con una punta". Ponendo come base questa metafora, il fuoco sarebbe concepito come una bestia addormentata, che deve essere pungolata per destarsi. Restando nell'ambito di questa immagine, sembra assumere più chiara imbricazione semantica anche l'oscillazione che si riscontra tra i sinonimi it. appiccare e appicciare "accendere il fuoco", partendo rispettivamente dalle basi *pikk- "pungere" e *pīts- "a punta" (REW 6495 e 6545), entrambe descrittive di un atto di istigazione servendosi di uno stimolo appuntito.

(173) Dal contesto nel senso dell'it. motto "parola" (DEI 4,2521), dal lat. tardo muttum "borbottamento", deverbale di mŭttīre "parlare sottovoce" (REW 5794). Nel processo contro Domenica Castelera troveremo: Cominciassimo a darsi delli motti, detta Domenica et mi (QInq).

(174) "Se si praticasse l'esorcismo", i diavoli sarebbero costretti a parlare".

(175) Borm. bofàr "soffiare, ansare" (Longa 34), da una base onomatopeica *buff- "soffiare" (REW 1373).

(176) "Perché ha con sé le cose di Dio".

(177) Plurale masch. in -i nato probabilmente dalla fusione col pronome proclitico lór i (fan) "essi fanno". Ven. lori, lore "essi, esse", istr. luri, lure, Busto Arsizio lui da luri "essi" (Rohlfs 2,135).

(178) Borm. ant. créta "credenza, reputazione", dal lat. crēdĭta "affidamento, credito" (REW 2308).

(179) Il mestiere del ciabattino era dunque praticato anche in paese, almeno da parte di qualcuno. Non tutti si allontanavano in direzione delle valli circostanti e delle città di pianura.

(180) Nello stesso processo compariva nelle pagine che precedono, Franziolinus de Casa de Isolacia. Entrambe le forme nascono da Casa, de Casa, reso al plurale nel formulario latino dei notai, e confluiscono nell'attuale cognome Dei Cas (Longa 327e 329).

(181) Si tratta del medico fisico Giulio Fogliani, che sarà maleficiato dalla Chieriga giovane, come si appurerà negli interrogatori seguenti. Giulio Fogliani fu un personaggio di primo piano, che ricoprì importanti cariche pubbliche. Nel periodo che seguì il trattato di Monzon del 1626, fu il primo bormino ad essere eletto podestà. L'elezione avvenne il 3 febbraio 1628 e fu confermata il 15 giugno seguente (cf. ACB, Quaterni consiliorum, sorte invernale 1627-28).

(182) Variante ora viva nel dialetto di Morignone, mentre nel borm., piatt., furv., cep. ant. troviamo iglià, glià, in Valdidentro igliè, a Semogo (Longa 87 e 349). Lat. *ĭllāc(e) "là" (REW 4265) e *ĭllōc(e) "là" (REW 4270).

(183) Fino a Bormio, al tribunale. Nella seconda persona singolare del verbo la registrazione oscilla tra le forme con la desinenza -s (te saras, has) e quelle già adeguate al tipo italiano (Rohlfs 2,247-8).

(184) Borm. ant. sèri sentà ió su un sc'chàgn "ero seduto su uno sgabello", dal lat. scamnum "sgabello" (Longa 230; REW 7649).

(185) "Non mi ha dato tanto fastidio, non si è ripetuto".

(186) Borm. sg'grìgiol "brivido, raccapriccio" (Longa 228). In un contesto precedente troviamo la variante sgrisór caduta dall'uso. Nella registrazione si ha un passaggio disinvolto dalla deposizione in prima persona alla narrazione in terza.

(187) Borm. sc'trozigàr "strascicare", sc'trozigàr li paròla "strascicare le parole", sc'trozigàr l'ère "pronunciare gutturalmente la erre" (Longa 251), liv. sc'trozïér "parlare male", piatt. sc'truzighèr "parlare con la erre moscia", front. sc'trozegàr "pronunciare male le parole, parlare male con la erre o la esse blese", gros. struzeghèr "parlare a fatica trascinando la lingua" (DEG 862), da sctróz "strascico", tirol. strutzen (REW 8837).

(188) "Gli procura un senso di smarrimento", come è spiegato nel contesto. Borm. pèrdes ìa "svenire", pèrder la tramontàna "perdere la bussola" (Longa 195).

(189) Borm. ant. tras "in modo forte", particella elativa, derivata dal lat. trans "oltre", come il fr. très "molto, assai" (REW 8852).

(190) Borm. córt "cortile" (Longa 114), in genere "androne coperto al piano terra, lungo il quale si aprono le porte di accesso alle stalle e alle cantine", lat. med. cŭrte, lat. class. cohors, cohōrtis "luogo di raduno della guarnigione militare; cortile" (REW 2032; Bracchi, BSSV 42,79; 50,84-5).

(191) Borm. zapàr "calpesatare, passare sopra con i piedi" (Longa 276-7), dalla base prelat. *tsapp- "battere (la terra)" (REW 9599; DVT 1421-2; EWD 7,361-2). Il gesto di zapàr la crósc è quello generalmente confessato come preliminare all'iniziazione della strega. Più raro quello di sedersi sopra.

(192) Borm. me contenteréi prima pers. sing. del futuro (Longa 338). Formazione composta dall'infinito del verbo da declinare e dalla prima pers. del verbo avere, in dial. mi éi "io ho", inizialmente "io ho da contentarmi" (Rohlfs 2,273 e 332-3). Appena sotto tasarei "tacerò".

(193) Borm. ant. saglìr "saltare", qui in senso più generale di "giocare, divertirsi". Verbo scomparso. Nel processo successivo contro la Chieriga vecchia, si legge, in versione meno arcaicizzante: detta Malgherta mi chiamò da parte, non mi racordo se fosse in prato o in campo, et mi disse qualmente era stria et che dovessi zappare sopra una croze, qual era in terra, et andar con lei che voleva menarmi a ballare e saltare.

(194) Borm. ant. la plàta del cendré "pietra larga e piatta che fa da base al focolare" (Longa 200), cendré "focolare" (Longa 45), lat. med. cĭnĕrētum "luogo dove si raccoglie la cenere, focolare" (REW 1929). Il focolare continua a essere considerato un luogo sacrale nel cuore della casa, anche se qui se ne accentua l'aspetto negativo. Nel processo contro la Mottisella di questo stesso anno leggeremo: Giacomo, figliolo di Mighina del Folonaro, mio cognato, quale ha havuto alcuni suoi luochi a fitto, mi ha detto: Se colei è daben, son daben tutte. Et soggionse che uno de suoi figlioli di detta Giacomina, gli haveva detto che momma [= madre] haveva non so che sotto il cendré (QInq). Furv. canéel "baitello in montagna, talvolta isolato, rinfrescato dall'acqua corrente, dove si conserva il latte in attesa dell'affioramento della panna" (Longa 100 e 293), nell'Inventarium del 1553: canipello uno a lacte, canipello uno a caseo, diminut. del lat. canăba "cantina", alla base del borm. cànoa, cànua "cantina" (REW 1566).

(195) "Acconsentirò, ammetterò".

(196) Altro nome del cavalletto, in lat. eculeus propriamente "piccolo cavallo" (DEI 2,1421), citato soltanto in questa occasione. Entrambi sono dedotti dalla forma dello strumento, che richiama il "cavallo". In questo medesimo concerto si affaccia pure la metafora della "capra". In un documento lat. dell'Italia sett. (sec. XIV) capra "attrazzo per alzar pesi, cavalletto", it. ant. "strumento di tortura", fr. chèvre (DEI 1,744).

(197) Si riteneva che nei capelli e nelle unghie si potessero più facilmente annidare i poteri magici. A Poschiavo il servo del carnefice (un certo Giacomo Riz di Teglio) incaricato delle rasature era chiamato il ravèta (Olgiati 50 ss.; Salvioni, RIL 39,583), da ravà "rapare", "pelare come una rapa".

(198) Borm. ant. bailón, bàilo, bàsgiol "bigollo, bacchio, arcuccio di legno che serve per portare sulla spalla le secchie", liv. bailón, baelón, furv. baialón, bïalón (Longa 24 e 28), tutti derivati dal lat. baiŭlus "portatore, strumento per portare", specializzatosi nel senso di "bigollo, arcuccio per le secchie" (REW 888).

(199) Borm. ant. giöbia, sgiöbia "giovedì" (Longa 81), lat. tardo *iŏvia (dies) "giorno di Giove" (REW 4591). Giorno prediletto dalle streghe, insieme al sabato, per i loro sabba, dal fr. ant. (sec. XII) sabbat "riposo e riunione notturna di streghe", con sottolineatura ingiuriosa dell "sabato" degli ebrei, della stessa etimologia (REW 7479; DEI 5,3302).

(200) Borm. ant. masgiorénga "maggiore di età", quindi anche "superiore in carriera".

(201) Borm. ant. mognìna "moina", far su plén de mognìna "fare tanti complimenti inzuccherati" (Longa 160). Qui probabilmente significa che approfittò di maleficiarla, con la scusa di fare complimenti. Da una base elementare *mugn-, variante di *mign-, che si usa per vezzeggiare il gatto, riprendendone il verso, con applicazione successiva alle persone, specialmente ai bambini (REW 5581).

(202) Cf. gli incartamenti trascritti fino al 1630: ACB, Quaterni consiliorum, sorte invernale 1618-19, aprile 14, e sorte primaverile 1619, marzo 20 e aprile 10.

(203) Borm. peciòl "piccolo abete", dim. di péc' "abete" (Longa 192), dal lat. picĕus, alla lettera "ricco di resina, di pece" (REW 6479).

(204) Propriamente "fatta sedere", qui "collocata, fatta giungere". Borm. far sentàr (ió) "far sedere" (Longa 223-4), dal lat. tardo *sĕdentāre "mettere a sedere" (REW 7780).

(205) Patronimico continuato nel cognome Lazzeri, ancora presente soprattutto a Semogo (Longa 330), dal personale Lazzaro (REW 4958), che nella versione femminile ha dato origine alla località la Làzera sopra Piatta.

(206) Borm. ant. ór "orlo", liv. ór "orlo" e "colletto della camicia", dim. oradèl "orlo", furv. oradèla (Longa 183), nella toponom. Iór, i Ór in Valfurva (Longa 299), Sambór "sulla sommità del ciglio" a Oga, Samigliór "sulle sponde" del torrente, presso Molina. Lat. ōrum per ōra "margine, orlo" (REW 6080).

(207) Borm. cantón "angolo, cantuccio", in topon. cantón "bacino superiore di una valle" (Longa 293), da cui il cognome locale Cantoni, lat. tardo cantho, -ōnis "angolo" (REW 1616; DVT 179).

(208) Di solito non si usava mungere le pecore. A Frontale tuttavia, fino alla metà del secolo scorso, gli allevatori che non possedevano bovine, proticavano regolarmente la mungitura delle pecore.

(209) Voce antica, scomparsa. Significa "cimitero". Si tratta del sagrato di San Martino di Pedenosso, come è detto poco sopra. Anno 1610: detta Petrogna corse con tanta furia giù per el segrà che quasi diede della testa nel muro del carneron (QInq).

(210) Dal contesto sintattico dovrebbe trattarsi di un imperfetto "venivamo", ora an vegnìa. Il Longa cita ancora per Livigno nó àrom "noi eravamo" (Longa 341), nó parlàom "noi parlavamo", nó paréom "sembravamo" (Longa 338-9). Poco sotto: havemo fatto il consiglio.

(211) Il verbo è usato qui nel suo significato più antico di "torturare". Deriva infatti dal lat. tardo (Concilio di Auxerre, anno 582) trepāium "strumento formato da tre pali" per stirare il corpo (REW 8911; DELI 5,1367).

(212) Borm. ant. àmeda "zia", per estensine "compagna", sem., cep. làmeda, liv., furv. làmada (Longa 21), dal lat. amĭta "zia materna" (REW 424).

(213) In origine soprannome professionale, dall'appellativo comune borm. sartór "sarto", sartóra "sarta", cep. sertór, sertóra (Longa 217), alla base dei cognomi Sartorio, Sertorio, del dimin. Sertorelli (Longa 328 e 330) e del soprann. furv. Sartorìn (Longa 331), dal lat. sartor con cristallizzazione al caso nominativo come altri nomi d'agente (REW 7614). Cf. SB138, nota 31.

(214) Il "capo di sotto" in riferimento al paese. A Livigno Cò d sór e Cò d sót (Longa 334).

(215) Variante di Sant, come si troverà altrove.

(216) Andrea Maiolani ricoprì le più alte cariche pubbliche, normalmente riservate in modo esclusivo al patriziato di Bormio (StCBorm, c. 37), nonostante fosse livignasco (prima di lui soltanto al notaio Francesco Viviani furono concessi gli stessi onori) e d'estrazione popolare, avrebbe quindi dovuto incontrare grossi ostacoli perché gli fossero affidati tali incarichi prestigiosi. In più era figlio di Caterina della Motta che fu processata, e assolta poi dal tribunale ecclesiastico, per stregoneria. Partecipò inoltre alla razzia di Bormio, associandosi agli Svizzeri e ai Grigioni, il 4 settembre 1620, unitamente a 24 suoi conterranei, come attesta la condanna del 12 dicembre 1622 (cf. ACB, Quaterni consiliorum, sorte invernale 1622-23, dove si cita pure Andrea di Christofen di Plasot). È verosimile che con il bottino razziato abbia cumulato un notevole capitale e abbia quindi prestato denaro, legando a sé molte persone anche del patriziato. Altre notizie si aggiungeranno in seguito, in quanto gli verranno rinfacciate queste colpe dal cavalier Gioachimo Imeldi nel 1651 (cf. ACB, Quaterni inquisitionum, sorte invernale 1650-51, gennaio 23) e prima ancora, nel 1637, ebbe una violenta lite con l'arciprete Simone Murchio che lo ingiuriò, insinuando la sua appartenenza, come tutti i livignaschi, alla setta degli stregoni (cf. ACB, Quaterni inquisitionum, fascicolo da 3 maggio 1637).