Introduzione
[Premessa]
Dal 1152 al 1178 a capo della canonica di S. Ambrogio di Milano si successero tre prepositi: Alberto di S. Giorgio (1154-1155), Lanterio Castiglioni (1156-1160) e Satrapa (1162-1178). Si è voluto pubblicare le pergamene relative a tali prepositure, e si è deciso di comprendere nell’edizione anche i documenti dei periodi, per così dire, di vacanza, nei quali cioè non si sa più nulla di un preposito e non si ha ancora notizia del successore, a cominciare dal documento che segue l’ultima notizia del predecessore di Alberto, Martino Corbo, per finire con il documento che precede la prima notizia del successore di Satrapa, Nazario Corbo. La scelta di questo periodo è dovuta al fatto che esso costituisce un momento di eccezionale rilievo nella storia di Milano: la città che oramai non aveva rivali nell’Italia settentrionale, e che per la sua potenza e ricchezza aveva suscitato forti gelosie e timori nelle città vicine, si trovò allora di fronte a un formidabile avversario, il giovane imperatore Federico I, il quale si presentava come il tutore della pace e il restauratore, nella idea e nella realtà, dell’impero romano-germanico. Il periodo prescelto, insomma, coincide quasi perfettamente con la prima e più lunga fase del regno di Federico Barbarossa, nella quale si susseguirono avvenimenti come la strenua lotta di Milano contro l’imperatore, la dura sconfitta della città, che con la distruzione poté sembrare definitiva, il suo risorgere, la lenta opera di ricostruzione, e infine il suo rifiorire forte e pronta a rinnovare la lotta a fianco del papato e delle città della Lega, fino a che l’imperatore, battuto a Legnano, dovette a sua volta piegarsi. La pace di Venezia, seguita più tardi da quella di Costanza, segnò da un lato il successo del papato e dell’autonomia comunale, dall’altro una netta svolta nella politica di Federico I e nella sua stessa concezione imperiale.
Il fondo di pergamene della canonica di S. Ambrogio
[p. XIII] Le pergamene, di cui si dà qui l’edizione, fanno parte del fondo della canonica di S. Ambrogio, una delle istituzioni ecclesiastiche che ebbero maggior peso nella storia di Milano, soprattutto nel Medioevo. La consistenza dell’attuale Archivio Capitolare di S. Ambrogio (circa mille duecento pergamene per un periodo che va dall’VIII al XIX secolo) è però ben lontana da quella originaria, rimasta intatta fino al 1798, quando, come apparirà dal seguito di questa introduzione, le vicende storiche della Lombardia portarono prima al sequestro dei documenti della canonica, poi al loro smembramento in due sezioni, una delle quali è ritornata al luogo di provenienza, l’altra è confluita nell’Archivio di Stato di Milano. Poiché la presente edizione si propone fra l’altro di ricostituire l’unità originaria del fondo, varrà forse la pena di ripercorrere brevemente le vicende che esso attraversò nel corso dei secoli, fino ad arrivare ai nostri giorni.
Il più antico documento autentico dell’archivio santambrosiano, giunto a noi in una copia del XII secolo, risale al 776. Fin da quella data, dunque, il clero secolare addetto alla custodia ed alla [p. XIV] officiatura della basilica dovette provvedere in qualche modo alla conservazione degli atti che comprovavano le donazioni fatte dai fedeli alla basilica nella quale era sepolto il vescovo Ambrogio, e le operazioni economiche compiute in vantaggio di essa. I documenti, non molto numerosi dapprima, tendono ad aumentare verso la fine del X secolo; il fenomeno è in buona parte da attribuire alla maggiore vivacità della vita economica, per cui i contratti si fanno più numerosi, e la tendenza a consegnarne la memoria allo scritto diventa più spiccata. Si può pensare però che alcuni mutamenti nella vita interna della basilica abbiano contribuito in una certa misura a far sì che i documenti, aumentati di numero, venissero conservati con cura sempre crescente. Già negli ultimi anni del decimo secolo, infatti, il numero dei custodi di S. Ambrogio, cioè dei membri del clero secolare dipendente dall’arcivescovo e addetto alla officiatura ordinaria e alla custodia della basilica, si era fissato a dodici [1]. Si era formato, così, almeno un embrione di collegio, che, se non altro per necessità liturgiche, doveva passare una parte considerevole della giornata accanto alla basilica. Vi era quindi un gruppo più consistente di persone che avevano la possibilità di dedicarsi con continuità maggiore agli interessi della chiesa. Quando poi, nel corso del secolo XI, il collegio si trasformò in canonica e si fissò, dapprima solo per alcuni membri, poi per tutti, l’obbligo della mensa comune e della residenza presso la basilica officiata, ben presto questo gruppo di persone cominciò ad organizzarsi in modo sempre più completo, preponendo un responsabile ad alcuni compiti più importanti e ben determinati. Sicuramente, tra i vari aspetti della vita organizzata che presero un assetto stabile e definitivo fu la sistemazione ordinata dei documenti dell’archivio, fatta senza dubbio per rispondere alle esigenze pratiche del collegio, la cui importanza e ricchezza andava crescendo parallelamente allo sviluppo economico dell’intera città. Questo primitivo ordinamento doveva essere fatto in base a criteri geografici: tutti i documenti relativi a beni posseduti dalla canonica in una certa località venivano di mano in mano raggruppati e riposti insieme, dopo essere stati più volte ripiegati [p. XV] fino a raggiungere dimensioni abbastanza ridotte. Sono i documenti stessi che ci informano di questi particolari: essi infatti presentano sul ‘verso’ delle annotazioni contemporanee alla stesura dell’atto, a volte limitate alla semplice indicazione del tipo di contratto in essi contenuto (‘libellus’, ‘carta venditionis’, ‘iudicatum’ ecc.), al nome dell’autore, al luogo; a volte, soprattutto nella seconda metà del XII secolo, la nota assunse uno sviluppo più ampio, e diventò un piccolo regesto; in ogni modo, però, la scritta era disposta in modo tale da essere leggibile anche a pergamena piegata. Nel corso dei secoli, mentre nuovo materiale si andava accumulando, gli atti più antichi erano soggetti a revisioni periodiche: gli originali sciupati in modo irrimediabile venivano allora sostituiti da copie, per lo più autenticate da notai, e inoltre su alcuni documenti si aggiungevano altre annotazioni dorsali, per precisare l’estensione delle terre acquistate o avute in permuta o a livello della canonica (v. ad esempio Docc. 66, 92), ed anche per indicare un successivo passaggio di proprietà di certi beni (v., sempre a titolo di esempio; Docc. 79, 93, 104). Nel periodo preso in esame dalla presente edizione ci è dato però di trovare anche qualche cosa di più personale, che ci rende vicino uno di questi ignoti riordinatori dei documenti della canonica. È infatti una nota di profonda soddisfazione quella che sembra di riconoscere nel commento apposto su di una carta nella quale era documentato un acquisto fatto dalla canonica. L’anonimo scriveva: «In hoc instrumento antiquisimo continetur predictam ecclesiam aquisivisse petias .XII. casarum et terrarum, pretio librarum .XI., et modo valent in quadruplum» (cfr. Doc. 46).
Il primo accenno ad una precisa preoccupazione per il materiale documentario si può cogliere soltanto nella seconda metà del secolo XVI, e precisamente nel 1567. Nelle nuove costituzioni emanate in quell’anno da san Carlo per il capitolo santambrosiano, a seguito della visita pastorale dell’anno precedente, un intero capitolo, il XV, era dedicato proprio all’archivio e al modo di conservare i documenti. Si stabiliva, tra l’altro, che ogni anno il capitolo dovesse eleggere un prefetto addetto alla custodia del materiale documentario, che doveva essere accuratamente conservato sotto chiave [2].
[p. XVI] Nei primi anni del secolo seguente, il fondo si accrebbe per un provvedimento del cardinale Federico Borromeo, confermato successivamente da papa Paolo V [3]. Nel 1611, infatti, il cardinale trasferì alla canonica di S. Ambrogio i beni già di pertinenza del capitolo di Castelseprio, con i quali istituì tre nuovi canonicati maggiori e sei minori. Insieme con i beni passarono ai canonici santambrosiani anche i documenti che li comprovavano: uno di essi è tra quelli editi qui (v. Doc. 85).
Attorno alla metà del XVII secolo finalmente le pergamene furono per la prima volta catalogate e ordinate in maniera organica, sempre però secondo criteri geografici. Un manoscritto conservato nell’Archivio Capitolare di S. Ambrogio, composto in massima parte in quel periodo, e le nuove annotazioni dorsali apposte alle pergamene illustrano chiaramente il metodo seguito. [p. XVII] I documenti, divisi in primo luogo a seconda delle località di cui trattavano (‘Axiliani’, ‘Badagy’, ‘Cisani’, ecc.), vennero poi ulteriormente suddivisi in base al tipo di contratto: ‘Aquisitiones bonorum’, ‘Investiturae simplices’, ‘Investiturae recentiores’ e così via. Ogni suddivisione interna era indicata sulla pergamena con una lettera dell’alfabeto, e ad essa corrispondeva una rubrica del manoscritto cartaceo, dove di ogni documento si indicava a volte soltanto la data, a volte anche il nome degli autori, a volte si dava infine un vero e proprio regesto. Il manoscritto, intitolato Jura Reverendissimi Capituli lnsignis Ecclesiae Collegiatae Secularis Sancti Ambrosii Maioris Mediolani, è costituito da 325 fogli scritti, più altri rimasti in bianco, ed è anche provvisto di un indice che ne facilita la consultazione [4]. In questo ordinamento, il primo completo e organico, a quanto ci è dato sapere, si può notare la presenza di un certo interesse storico, anche se limitato alla storia del Capitolo. Sia nel manoscritto, infatti, sia nelle annotazioni dorsali, venivano scritti i nomi dei prepositi e dei canonici citati in ogni documento, oppure si segnalava che in quella certa pergamena «non fit mentio de Capitulo Sancti Ambrosii».
La sistemazione dovette essere soddisfacente e pratica; e così nella prima metà del secolo seguente si decise di aggiornarla semplicemente, senza mutarla. Le aggiunte al manoscritto degli Jura Capituli e le nuove annotazioni dorsali sui documenti ci informano anche di questo. Non ci si limitò però ad aggiungere i documenti posteriori al riordino precedente; vennero infatti inseriti nell’elenco anche quelli che, sfuggiti all’ordinatore del XVII secolo, erano stati successivamente ritrovati.
Un nuovo aggiornamento dell’elenco si fece negli ultimi decenni del XVIII secolo, in un periodo cioè di rifiorente erudizione e di spiccato interesse per gli antichi documenti riguardanti la storia delle città. Tra i nomi di coloro che studiarono e trascrissero anche documenti dell’archivio santambrosiano citiamo soltanto quelli che ritorneranno spesso nel corso di questo lavoro: il Sormani, il Giulini, il Della Croce. Questo rinnovato e straordinario interesse per il materiale documentario si fece sentire anche all’interno della canonica, dove l’archivista di allora, il canonico [p. XVIII] Luigi Frisi, aggiornò nuovamente l’elenco del secolo XVII, aggiungendo i nuovi documenti e quelli sfuggiti alle precedenti ricerche; provvide poi a compilare un catalogo dei prepositi di S. Ambrogio, sulla base degli elementi emersi dagli antichi atti, infine dispose questi in cartelle ben ordinate [5].
La fatica del Frisi, però, fu inutile, e il nuovo riordinamento ebbe vita breve: nel 1798, infatti, le autorità della Repubblica Cisalpina soppressero la canonica santambrosiana, ne incamerarono i beni e ne sequestrarono i documenti. Fu soltanto alcuni anni dopo, nel 1805, che il capitolo riprese a funzionare: molti beni però erano andati perduti e una notevole parte del fondo documentario era rimasta in quello che allora si chiamava Fondo di Religione. Da questo momento le due sezioni dell’originale archivio della canonica santambrosiana rimasero divise, e ognuna ebbe una storia diversa. La parte rimasta nel Fondo di Religione ebbe la sorte di tutti gli altri documenti in essa collocati, fino a che ricevette la sistemazione che attualmente ha nell’Archivio di Stato di Milano. Non mi soffermerò sulle vicende del Fondo di Religione, che sono state ampiamente ed esaurientemente illustrate [6]. Passerò invece ad esaminare la sorte delle pergamene restituite alla canonica santambrosiana, che probabilmente riguardavano, almeno in parte, beni non confiscati. Per un certo periodò di tempo questi documenti non trovarono una sistemazione definitiva, ma furono più volte spostati a seconda delle esigenze del momento: il disordine dunque aumentava. Perciò, nel 1850, l’arcivescovo Romilli, in seguito alla visita pastorale, ordinò che si facesse un nuovo elenco delle pergamene dell’archivio [7]. Passò qualche anno, tuttavia, prima che l’ordine dell’arcivescovo fosse eseguito. Solo quando mons. F. Rossi, preposto parroco di S. Ambrogio, iniziò i complessi lavori di restauro della basilica, che portarono poi al rinvenimento dei corpi dei ss. Ambrogio, Gervasio e Protasio, si diede mano anche al riordinamento [p. XIX] dell’archivio; la persona incaricata di questo compito era mons. Luigi Biraghi, che, fra l’altro, andava cercando sulle pergamene notizie relative al possesso delle reliquie santambrosiane [8]. Queste ricerche diedero come frutto, per quello che riguarda l’archivio, la sistemazione dei documenti in grandi cartelle, in parte ancora in uso; inoltre, un semplice elenco delle pergamene ordinato cronologicamente e distribuito sui fogli di guardia delle singole cartelle [9]. Evidentemente l’elenco puro e semplice dei documenti era un punto di partenza, ma non poteva essere considerato soddisfacente. Era naturale, perciò, che si desiderasse qualche cosa di più: tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, abbiamo notizia di due nuovi tentativi di riorganizzare l’archivio: il primo da parte di mons. Comi, abate mitrato di S. Ambrogio fino al 1909, di cui A. Ratti, chiamato a commemorare la figura e le opere, ricordava proprio, purtroppo senza dare particolari, il riordino dell’archivio [10]; il secondo da parte del marchese Carlo Ottavio Cornaggia Medici, che tentò, di fare un catalogo delle pergamene meno sommario di quello del Biraghi: i suoi appunti, però, si arrestano al secolo XI [11].
Nel frattempo l’importanza del fondo di S. Ambrogio veniva sempre meglio alla luce, grazie altresì ai ricercatori che ne studiavano i documenti; anche a questo proposito ci limitiamo a citare due nomi che si illustrano da sé: lo Pflugk-Harttung e il Kehr. È quindi comprensibile,che l’esigenza di un catalogo organico e completo fosse troppo viva per essere accantonata definitivamente. L’occasione per soddisfarla fu la ricorrenza del sedicesimo centenario della nascita di S. Ambrogio. Il benedettino padre Luigi Sisto Pandolfi predispose allora un completo riordinamento di tutto il materiale conservato nell’Archivio Capitolare: pergamene, codici e carte. Per le pergamene, in particolare, che sono l’oggetto del presente lavoro, compilò un nuovo [p. XX] catalogo, tenendo come base quello del Biraghi, ma accompagnando le note cronologiche con un riassunto del contenuto dei documenti [12]; il lavoro del Pandolfi, che nel 1942 era ormai terminato, fu poi completato dall’attuale archivista di S. Ambrogio, mons. M. Ceriani, che fece dattilografare il catalogo descrittivo dei codici e delle pergamene perché diventasse uno strumento realmente utilizzabile, e tale da permettere un primo orientamento. Questa opera, ultima in ordine di tempo, è del 1960 [13].
Oggetto e limiti della presente edizione
[p. XXIV] Prima di passare a considerare il contenuto dei nostri documenti, per vedere in quale misura le vicende della grande storia si riflettano in essi, è opportuno indicare brevemente alcune caratteristiche più esteriori del gruppo di carte qui pubblicate, e dare ragione di talune esclusioni.
Poiché, come si è detto, si voleva ricostituire nei limiti del possibile l’unità originaria del fondo, oltre ai documenti attualmente conservati nell’Archivio Capitolare di S. Ambrogio e nell’Archivio di Stato di Milano, si sono ricercate copie, o semplicemente notizie, anche tarde, che fossero state tratte da documenti appartenuti un tempo alla canonica santambrosiana. La ricerca, condotta soprattutto sulle grandi opere storiche e di erudizione, e sulle raccolte di trascrizioni compilate alla fine del XVIII secolo, prima cioè dello smembramento del fondo, ha dato qualche frutto: si è così ritrovata notizia di un documento perduto (Doc. 11), una copia recente e un’edizione di altro documento perduto (Doc. 85), due edizioni di una sentenza consolare oggi scomparsa (Doc. 78).
Nel Codex diplomaticus del Della Croce si sono poi trovate le trascrizioni di due documenti che, a tutta prima, sembrerebbero avere pieno diritto di cittadinanza in questa edizione: sono infatti presentate come copie di documenti della canonica di S. Ambrogio e recano una data che rientra nel periodo qui preso in esame. Il primo documento [14] è una lettera, indirizzata alla canonica da Alessandro papa, che il Della Croce data [p. XXV] approssimativamente «1155 vel 1156», identificando il pontefice con Alessandro III, e che poi trascrive di nuovo sotto l’anno 1163, rifacendosi in entrambi i casi ad una copia del Sormani che manca di ogni indicazione cronologica [15]. Una piccola ricerca nell’Archivio Capitolare di S. Ambrogio ha però permesso di ritrovare l’originale del documento, che emana non da Alessandro III bensì da Alessandro IV, nel suo vanno di pontificato, e che quindi è datata 15 maggio 1259 [16]. La seconda copia eseguita dal Della Croce, e che potrebbe rientrare in questa edizione, è di un documento contenente statuti per la riforma della disciplina ecclesiastica. L’erudito milanese trascriveva da una copia semplice conservata nell’Archivio santambrosiano. Il Della Croce attribuiva tali statuti a san Galdino arcivescovo di Milano, e li riteneva circa del 1170 [17]. Questa attribuzione era fatta in base a due punti del documento: nel primo l’autore dichiarava di agire per autorità della Chiesa milanese e inoltre «auctoritate domini pape qua fungimur», nel secondo si fa riferimento alla eresia catara: poiché Galdino fu arcivescovo di Milano e legato papale, e inoltre combatte l’eresia catara, il Della Croce pensava che gli si potesse senz’altro attribuire la paternità di questi provvedimenti. Un altro punto del documento, però, porta a scartare la soluzione del Della Croce: il riferimento preciso ad un canone del concilio Lateranense, che tratta della punizione degli usurai, porta infatti a collocare questo documento almeno dopo il concilio Lateranense III del 1179. Che gli statuti per la riforma della disciplina ecclesiastica debbano essere considerati posteriori a Galdino aveva già sostenuto del resto E. Cattaneo, il quale propendeva a ritenerli opera di Uberto Crivelli, il futuro Urbano III [18]. Sull’interessante problema mi propongo di ritornare presto.
Due documenti, poi, che, non appartenendo al fondo della canonica di S, Ambrogio, avrebbero dovuto essere esclusi da [p. XXVI] questa edizione, contengono però elementi di tale interesse per la storia della canonica, che si è ritenuto di doverli pubblicare, separati dagli altri, in una appendice (Appendice I, 1 e 2). Le ragioni che hanno indotto a non trascurare i due documenti appariranno più avanti.
Vi sono inoltre altri due documenti che, pur appartenendo al fondo della canonica di S. Ambrogio, hanno fatto sorgere parecchie perplessità: si tratta di due lettere, non datate, in cui i possibili termini ‘post quem’ e ‘ante quem’ sono molto distanti l’uno dall’altro, tanto che i documenti potrebbero anche uscire cronologicamente dal periodo qui considerato. Per di più il tono delle due lettere e altri indizi fanno sospettare che si tratti di esercitazioni letterarie. I due documenti, già pubblicati, il primo con la data 1150-1158, il secondo con quella, che deve essere corretta, 1172-1173, sono stati riproposti in una appendice distinta dalla prima (Appendice II, 1 e 2). Ho invece omesso una lettera di Alessandro III, conservata nell’Archivio di Stato di Milano (ASMi, AD, pergg., cart. 303, n. 142) e già pubblicata dallo Pflugk-Harttung [19], che potrebbe essere datata sia del 27 marzo 1178, sia del 27 marzo 1179; non riuscendo a trovare ragioni decisive per l’una delle due date croniche, ho seguito il criterio, adottato in tutto questo lavoro, di attenermi, nell’ordinare i documenti, al termine ‘ante quem’ che nel caso è il 1179: siamo così fuori dei limiti cronologici prefissi alla presente edizione.
Passando a considerare altre caratteristiche delle nostre carte, notiamo prima di tutto che se il numero dei documenti pubblicati è 123, quello delle pergamene che sono entrate nell’edizione è diverso: dei documenti nn. 3 e 90 oltre all’originale abbiamo infatti anche una copia, autentica nel primo caso, semplice nel secondo, che è stata collazionata con quello; del Doc. 62 ci è giunta, oltre all’originale, anche l’imbreviatura: questa volta, dato l’interesse, l’abbiamo riportata integralmente dopo le note introduttive del documento. Le permute pubblicate sotto i numeri 66, 74, 86 ci sono giunte attraverso due originali, uno dei quali è stato collazionato con l’esemplare scelto di volta in volta [p. XXVII] come primo testimone. Non abbiamo invece le pergamene di altri documenti: il Doc. 11, di cui ci è rimasta solo una notizia, il 78 e 1’85 di cui abbiamo soltanto copie recenti e edizioni, il Doc. 89, infine, che ci è giunto come inserto nel Doc. 90.
Gli originali costituiscono la grande maggioranza; i Docc. 55, 65, 83, 95, 103, 104, 120, oltre all’89 contenuto come inserto nel 90, sono invece copie autentiche del XII o del XIII secolo; un solo documento, il 96, ci è giunto in copia semplice, e di due, il n. 81 e il 117, abbiamo unicamente l’imbreviatura.
Resta poi da osservare che, fatta eccezione per le sentenze consolari (Docc. 30, 40, 78, 91, 95, 102, 103, 118), e inoltre per i Docc. 39, 55, 58, 59, 69, 79, 85, Appendice I, 2, Appendice II, I e 2, le pergamene qui pubblicate sono inedite, Dei Docc. 24, 41, 62, 71 esisteva una edizione, ma incompleta nell’escatocollo e nel formulario; il Porro Lambertenghi, infine, che ha edito talora per intero talora in modo incompleto alcuni dei sopraindicati documenti, ha altresì procurato una edizione molto frammentaria dei Docc. 25, 42, 80, 101, estraendo quei brani che lo interessavano in rapporto a determinati problemi, ad esempio le vendite di animali (Doc. 101), la ‘quarta’ (Doc. 42), il faderfio (Doc. 25), le vesti (Doc. 80) [20].
Il sistema di datazione usato è quello ‘a Nativitate’, con inizio dell’anno al 25 dicembre, come risulta chiaramente dai Docc. 3 e 47; l’indizione, conforme all’uso milanese, è quella greca che parte dal lodi settembre, con un anticipo di quattro mesi su quella romana (cfr. Docc. 3, 12, 14, 19, 20, 21, 22, 23, 38, 45, 46, 47, 53, 54, 55, 62, 69, 70, 74, 75, 76, 77, 87, 95, 98, 99, 105, 110, 111, 118, 119, Appendice I, 1); le poche eccezioni, dovute probabilmente a errore del notaio e mai, tranne un solo caso (Doc. 88), all’adozione di altro uso, saranno segnalate nella presentazione delle singole carte.
Per quanto riguarda il processo di formazione dei documenti, rivestono un certo interesse i Docc. 8, 34, 62. Nel primo, la mancata sottoscrizione autografa del giudice ‘Ginismerius’, incaricato di interrogare le donne interessate nel contratto, e morto evidentemente prima che il documento fosse redatto in forma definitiva, può far pensare che questa dovesse essere stata [p. XXVIII] preceduta da una minuta. Così pure è degno di nota il documento n. 34, in cui la sottoscrizione del notaio tradente è stata evidentemente inserita in un secondo tempo nello spazio lasciato in bianco per servire a questo scopo. Del Doc. 62, come si è già ricordato, abbiamo l’originale e l’imbreviatura: è interessante notare che fu quest’ultima, e non l’originale, per di più incompleto nell’‘actum’, ad essere esibita come prova del negozio (cfr. Doc. 69). Segnaliamo semplicemente infine i seguenti documenti, nei quali il notaio tradente è diverso dal notaio scrittore: 7, 9, 10, 19, 34, 36, 37, 38, 42, 44, 52, 58, 62, 65, 70, 88, 94, 97, 98.
La canonica di S. Ambrogio dal 1152 al 1178
[p. XXVIII] È venuto ora il momento di esaminare il contenuto dei documenti della canonica di S. Ambrogio qui pubblicati. Chi volesse trovare in essi precise e circostanziate testimonianze sui grandi avvenimenti che sconvolsero Milano in quegli anni, e ai quali abbiamo già avuto occasione di accennare, rischierebbe di rimanere deluso. Solo una volta, infatti, ci è dato cogliere un riferimento preciso alle devastazioni compiute da Federico che causavano a Milano miseria e bisogno disperato di ogni cosa più necessaria alla vita. Queste tribolazioni colpivano certo tutti indistintamente, ma, come sempre avviene, i più deboli e indifesi erano anche i più disarmati di fronte ad esse, e dovevano quindi soffrirne in misura maggiore, tanto da arrivare al punto di non aver più di che mangiare, ne di che bere, ne di che vestirsi (cf. Doc. 41). Esclusa questa testimonianza, tanto più preziosa e suggestiva proprio a causa della sua unicità, nei documenti di quegli anni non si trova nessun’altra allusione diretta e precisa ad avvenimenti contemporanei. Questo silenzio è però facile da spiegare: proprio perché il pericolo, le privazioni, la lotta per la sopravvivenza prima, per la ricostruzione poi, erano realtà incombenti che toccavano tutti e che nessuno ignorava, non si sentiva la necessità di ricordarle in modo esplicito in semplici contratti che inoltre, per loro natura, hanno una forma ufficiale e impersonale. Con questo non si vuol dire che i documenti non riflettano la realtà da cui emergono, tutt’altro, ma lo fanno per lo più attraverso semplici allusioni e accenni frammentari che possono essere colti e compresi solo se si tenga presente lo sfondo [p. XXIX] dal quale nascono e sul quale debbono essere ricollocati per poter essere ricomposti in unità. È quello che vorremmo tentare di fare ora, non per elaborare in modo compiuto e definitivo il notevole materiale che i documenti ci mettono a disposizione, ma per proporne una prima parziale sistemazione: isoleremo dunque alcuni temi, tra i tanti degni di interesse, e li illustreremo brevemente, senza pretendere di esaurire l’argomento. Accanto alla canonica di S. Ambrogio metteremo dunque in rilievo quei gruppi familiari e quei singoli individui che sembrano emergere più degli altri nella vita di quegli anni; esamineremo poi il quadro geografico e ambientale in cui queste persone si trovarono ad agire; accenneremo infine ad alcune questioni, situazioni, istituti particolari. Un secondo scopo che vorremmo raggiungere nelle pagine seguenti è quello di offrire una serie di notizie utili, e forse necessarie, a intendere i testi.
Sapremmo ben poco dei tre uomini che si successero a capo della canonica santambrosiana nel periodo preso in esame, e sulle vicende stesse della canonica, se, oltre ai documenti qui pubblicati, non avessimo le testimonianze rese dai monaci e dai canonici di S. Ambrogio alla fine del secolo, quando, in una nuova fase della secolare controversia, ognuno dei due collegi, per rivendicare contro l’altro certi diritti, fece ricorso alla consuetudine, che veniva provata ricordando gli usi del passato e facendo riferimento a fatti e persone dei decenni trascorsi. Proprio alle deposizioni di alcuni testimoni del monastero dobbiamo così gran parte delle nostre informazioni sui tre prepositi che ci interessano. Sappiamo dunque che, morto Martino Corbo, fu fatto preposito Alberto ‘de Sancto Georgio’, allora cimiliarca, e che, durante la prepositura di questi, almeno alcuni uffici della cimiliarchia vennero svolti da un certo altro canonico di nome Alberto, detto ‘Zopus’. Morto Alberto fu fatto preposito Lanterio ‘de Castelliono’, e Satrapa divenne cimiliarca. Tutto questo avvenne prima della distruzione di Milano. Ad un certo punto però Lanterio lasciò la sua carica e si fece monaco a Morimondo; fu eletto quindi preposito Satrapa. Morto Satrapa, la prepositura passò a Nazario Corbo [21].
[p. XXX] Premessa questa schematica successione, si tenterà di ricostruire a grandi linee la storia della canonica di S. Ambrogio nel periodo dal 1152 al 1178; ci soccorreranno dati desunti dai documenti, che cercheremo di collocare sul più vasto sfondo degli avvenimenti di quegli anni [22].
Tra l’ottobre del 1152 e il 10 febbraio del 1154, in un momento che non ci è possibile determinare meglio, venuto a morte Martino Corbo, fu eletto a succedergli Alberto di S. Giorgio, allora cimiliarca. Notiamo appena che al cimiliarca era affidata la custodia del tesoro della basilica, del prezioso altare d’oro, dei paramenti, dei libri e degli arredi sacri. Non si va forse molto lontani dalla realtà pensando che il canonico insignito di tale carica dovesse anche interessarsi degli altri beni della chiesa, cioè delle terre e del denaro, e che quindi, quando si rivelava persona capace, fosse in pratica l’amministratore generale. Il fatto stesso che sia Alberto sia Satrapa prima della prepositura abbiano avuto tale carica, e che, prima di loro, anche Martino Corbo abbia fatto la medesima carriera, induce a ritenere che l’ufficio fosse importante [23]. Nel periodo in cui Alberto fu scelto a guidare la canonica, la guerra doveva sembrare un pericolo molto lontano per i Milanesi, tesi ad affermare sempre più la loro supremazia politica ed economica sull’Italia settentrionale; il fatto che due Lodigiani presentatisi all’imperatore alla dieta di Costanza nel 1153 avessero osato chiedere giustizia contro Milano, non destò eccessive preoccupazioni: la città si sentiva troppo [p. XXXI] forte per temere minacce e ordini che venissero da lontano, e questa sensazione di sicurezza dovette permanere per un certo tempo, sin dopo la discesa di Federico in Italia e l’inizio delle sue azioni intimidatorie contro gli alleati di Milano. La prepositura di Alberto di S. Giorgio, dunque, si svolse tutta in un clima di quasi completa normalità, ed ebbe tra i suoi obiettivi principali (l’unico che ci è dato ravvisare nei documenti) di assicurare la continuità territoriale dei possedimenti della canonica, punto di partenza necessario per una buona amministrazione. Il luogo in cui tale politica si attuò fu soprattutto Assiano, nella pieve di Cesano Boscone: per comperare terre in quella zona ne furono vendute altre, ad esempio ad Albignano, in pieve di Corneliano, e a Zunico, in pieve di S. Giuliano, cioè a est e a sud di Milano (cf. Docc. 15, 19, 25).
Tra la fine d’agosto del 1155 e il luglio del 1156, morto Alberto, gli successe Lanterio Castiglioni, il quale aggiunse il prestigio del proprio casato a quello, già notevole, dell’istituzione alla quale veniva preposto. Forse è proprio da attribuire a questo prestigio il fatto che tra i prepositi milanesi solo Lanterio, oltre ai prepositi di S. Tecla e di S. Stefano, fosse stato chiamato a presenziare, con gli abati dei monasteri di S. Ambrogio,S. Vincenzo e S. Vittore, con un folto gruppo di ordinari e con il primicerio dei decumani, all’atto con cui l’arcivescovo Oberto concedeva al preposito e ai canonici di S. Eustorgio di amministrare le entrate della loro basilica. Il clima in cui Lanterio si trovò ad operare era però ben diverso da quello del suo predecessore: la guerra si avvicinava sempre più e con essa la fame e il bisogno (cf. Doc. 34). Nel 1157, inoltre, S. Ambrogio veniva compresa entro nuovi fossati, costruiti in previsione di un assedio che non tardò a venire, e anche la canonica dovette contribuire a pagarne le spese, facendo dei debiti che non poté pagare subito (cf. Appendice I, 1). Lanterio, che proveniva da una famiglia devota all’impero, e la cui elezione è forse da attribuire ad un prevalere, nel collegio canonicale santambrosiano, di tendenze pacifiste, se non filo imperiali, fino a che poté procurò di fare gli interessi della canonica: continuò la serie di acquisti in Assiano (Docc. 34, 35), e ne fece altri nella vicina località di Moirano (Doc. 46). Cercò inoltre di difendere alcuni diritti del suo collegio, messi ingiustamente in discussione, ricorrendo una volta all’arbitrato di competenti, cioè un giurista e una [p. XXXII] persona che conosceva le terre di cui si trattava (Doc. 29), una seconda volta presentandosi direttamente ai consoli di Milano (Doc. 30). A proposito di questo secondo caso, bisogna osservare che le autorità laiche di Milano non erano mai state favorevoli ai canonici: quando nel 1123 e poi ancora nel 1143 si era trattato di schierarsi a favore di uno dei due collegi santambrosiani, che le controversie di quegli anni opponevano l’uno all’altro, senza nessuna esitazione avevano favorito il monastero, nel quale vedevano una forza ‘ambrosiana’, a scapito della canonica, della quale si consideravano con diffidenza gli stretti legami con l’arcivescovo e con la sede apostolica [24]. Anche in occasione delle rivendicazioni di Lanterio, dunque, il buon diritto dei canonici non valse che ad ottenere una mezza vittoria nella causa contro i fratelli ‘de Pusterla’. Se la fondatezza degli argomenti addotti dal preposito riuscì ad imporsi per il punto fondamentale sul quale verteva la causa, i consoli decisero però ugualmente di negare al collegio santambrosiano il diritto di ricevere gli arretrati di un affitto che per anni, ingiustamente, non era stato pagato.
Ma quando, dopo il primo assedio di Milano e la breve tregua, subito seguita dalla ripresa della guerra, ogni voce pacifista doveva suonare infida e traditrice, chi come Lanterio proveniva da una famiglia legata a Federico I da collaborazione anche militare, era senza dubbio guardato con estrema diffidenza, se non addirittura con ostilità. Si comprende bene, quindi, che ad un certo momento, dopo il 10 dicembre 1160 e prima del 28 gennaio 1162, Lanterio decidesse di uscire da una situazione oramai troppo pesante, e si ritirasse a Morimondo rinunciando alla prepositura.
Fu eletto al suo posto il cimiliarca di allora, Satrapa, probabilmente capace uomo d’affari: aveva infatti compiuto alcuni acquisti di terre per incarico del defunto Alberto (cf. Docc. 15, 25), era in buoni rapporti con il monastero, e inoltre non doveva essersi compromesso nelle lotte politiche di quegli anni. Poteva dunque sembrare la persona più adatta per affrontare la situazione, [p. XXXIII] qualunque essa fosse, successiva alla resa di Milano; fatto, quest’ultimo, che oramai sembrava inevitabile a tutti, a causa del secondo più stretto assedio che Federico aveva posto alla città. Un altro indizio ci induce a sospettare che l’elezione di Satrapa fosse legata ad una situazione di emergenza: il collegio dei canonici infatti, nel prendere questa decisione, passò sopra alla circostanza che colui che si voleva eleggere non fosse ancora prete [25].
Satrapa fece del suo meglio per salvare quanto era possibile in una situazione oramai disperata: in campo economico portò a termine una operazione abbastanza complessa che doveva essere stata predisposta da tempo: la canonica cioè ottenne a livello perpetuo da un intermediario, il preposito della chiesa di S. Apollinare di Baggio, alcune terre in Assiano, che quel preposito aveva a sua volta ricevuto allo stesso titolo e per lo stesso prezzo dal possessore originario (Docc. 47, 48); tale procedimento, che era già stato adottato precedentemente in altri casi, mirava forse ad approfittare delle circostanze favorevoli, cioè a ottenere della terra da gente che era costretta a cederla per necessità, aggirando al tempo stesso la legislazione canonica che colpiva l’usura [26]. Notiamo un particolare che può dire qualche cosa sulla mancanza di denaro liquido e più ancora sulle condizioni miserevoli in cui la gente viveva alla vigilia della distruzione della città: il preposito di S. Apollinare, per compiere la sua parte nell’affare, era stato costretto ad impegnare il calice della chiesa pievana di Cesano Boscone.
Caduta Milano, Satrapa, nonostante facesse sforzi per barcamenarsi, e in particolare tentasse di impressionare in modo favorevole Federico offrendogli solennemente gli ulivi in S. Ambrogio in occasione della domenica delle Palme, non riuscì ad evitare al suo collegio l’esilio, al quale furono condannati tutti i Milanesi, e che l’arcivescovo Oberto, da parte sua, aveva scelto volontariamente già prima della distruzione della città: messi di fronte alla drammatica alternativa di aderire allo scisma o di seguire il destino comune, i canonici di S. Ambrogio scelsero dignitosamente [p. XXXIV] questa seconda via. Cacciati dalla canonica, privati dei beni della chiesa (le chiavi della cimiliarchia e del tesoro erano infatti rimaste nelle mani dei monaci, i quali avevano prestato giuramento di fedeltà all’imperatore e a Vittore IV) le possibilità di azione dei canonici erano ben poche. Satrapa tuttavia non rimase inattivo. Provvide innanzitutto, sacrificando alcune terre, a pagare il debito che il suo collegio aveva contratto, probabilmente al tempo di Lanterio, per contribuire alle spese di costruzione del nuovo fossato (Appendice I, 1); si adoperò, recandosi perfino in Francia, perché l’arcivescovo riconoscesse ai canonici i diritti sulla chiesa di S. Ambrogio di cui erano momentaneamente privati; provvide infine a liberare certi beni della canonica da oneri o da diritti avanzati da terzi, opera questa che, iniziatasi nell’esilio, continuò anche in seguito, dopo il rientro dei Milanesi in città nel 1167 (cf. Docc. 53, 54, 57, 61). Solo allora si poté pensare a ricostituire il procedente ‘status’ della canonica, opera lunga e ardua, perché alle difficoltà economiche si aggiungeva la necessità di rendere di nuovo ordinata ed organica l’amministrazione di terre e beni che gli anni di guerra, e più ancora quelli dell’esilio, durante i quali nel territorio di Milano i vicari imperiali avevano spadroneggiato, avevano indubbiamente ridotto in una situazione caotica. Nonostante tutte le difficoltà, Satrapa portò avanti con costanza il disegno di assicurare prima di tutto la continuità territoriale dei possedimenti della canonica. La mancanza di denaro fece però sì che egli non potesse seguire un piano organico di investimenti: dovette lasciarsi guidare di volta in volta dalle circostanze, e agire soprattutto attraverso permute: la sua azione venne così dispersa in diverse zone: Moirano, Baggio, Assiano, Paderno Dugnano, Cascina Concorezzo (cf. Docc. 66, 73, 74, 86, 94). Anche in questo modo, però, fosse frutto della saggia amministrazione di Satrapa, fosse per entrate impreviste o per prestiti straordinari, nel 1173 la canonica era di nuovo pronta ad affrontare spese considerevoli per procurarsi grandi estensioni di terra, in Balbiano nel 1173 (Doc. 81), e poi a Moirago nel 1178 (Doc. 114). Il momento critico doveva ormai essere stato superato. Un’altra circostanza induce a pensarlo: il fatto cioè che sembra composto quel conflitto tra l’arcivescovo di Milano e i decumani, cui forse è da attribuire il lungo ritardo nella ordinazione sacerdotale di Satrapa (solo nel 1174 egli poteva infatti sottoscriversi con il titolo di ‘presbiter’: cf. [p. XXXV] Doc. 92). Si era pure conclusa la nuova fase di controversie tra il collegio canonicale e quello monastico di S. Ambrogio: la lite, portata davanti alle autorità religiose di Milano prima, al papa stesso poi (Docc. 89, 90), nel 1174 era stata finalmente chiusa (Appendice I, 2).
La canonica di S. Ambrogio, verso la fine del 1178, sembrava dunque essere nella stessa situazione di Milano dopo la vittoria di Legnano: terminata la fase della ricostruzione, ci si preparava ad un periodo di nuova espansione. In questo periodo, tra il 23 marzo 1178 e il 1° dicembre dello stesso anno, anche Satrapa morì (cfr., per l’ultima menzione di lui, il Doc. 115), e gli successe Nazario Corbo (cfr. ASA, Perg. sec. XII, n. 143).
Le persone
[p. XXXV] Tra i modi di leggere una raccolta di documenti, costituita in massima parte da atti privati, vi è senza dubbio quello di ricercare informazioni su un determinato problema, cioè di chiedere ai documenti una risposta precisa a precise domande. Si può però anche affrontare la lettura senza porsi problemi troppo determinati, lasciandosi trasportare dai documenti stessi nel mondo da cui sono stati prodotti. Questo mondo, che dapprima può sembrare caotico e disorganizzato, col procedere della lettura prende forma e rilievo, nonostante il ripetersi continuo delle formule, e si popola di una quantità di personaggi, diversi, oltre che per la loro condizione e professione, anche per la parte che si trovano a svolgere nel singolo documento e nel complesso della raccolta.
Il quadro generale in cui tutte queste persone si collocano, e dal quale non sono separabili perché vivono in esso e di esso, è costituito, per usare una formula che può essere efficace, dal binomio città-campagna ove i due elementi sono in un rapporto di connessione reciproca. La terra e il denaro, infatti, sono sempre strettamente legati nei documenti, ed hanno bisogno l’uno dell’altra: molti di coloro che si proclamano con orgoglio cittadini milanesi, e che quindi hanno case ed attività nell’ambito urbano, considerano evidentemente un buon investimento l’acquisto di terre nel contado, e gli uomini del contado, da parte loro, gravitano sulla città. Milano e il suo territorio avevano poi una forza di richiamo notevole anche su città e terre non vicinissime: un rapido esame dei cognomi derivati da toponimi come [p. XXXVI] ‘de Ispira’, ‘de Padoa’, ‘de Leuco’, per citarne solo alcuni, ci dice che le persone che li portavano discendevano da uomini originari di quelle località, o ne provenivano esse stesse.
In questo vasto quadro viveva ed agiva un mondo socialmente complesso e differenziato di consoli, giudici, nobili, ‘cives’, piccoli e grandi proprietari terrieri, monetieri, mugnai, fornai, macellai, massari, rustici, semplici salariati, forse guardiani di porci, o quanto meno discendenti da guardiani, Come Domenico ‘Porcari’ (Doc. 46).
Abbiamo citato alla rinfusa le condizioni, le cariche e i mestieri (che vengono ricordati espressamente nei nostri documenti, o che ci sono suggeriti da certi cognomi. Tuttavia per dare almeno un’idea della complessità della vita nel XII secolo attorno a Milano, accanto alla società, per così dire, laica, dobbiamo almeno accennare al clero cittadino, diviso in due ‘ordines’, gerarchicamente ordinati e spesso in opposizione tra loro; oltre al clero ordinario, officiante nella cattedrale, con a capo l’arcivescovo stesso, troviamo infatti il clero decumano, officiante nelle basiliche e nelle cappelle della città e addetto alla cura di anime [27]; i canonici santambrosiani appartenevano a questo clero, a capo del quale stava il primicerio, che, in assenza dell’arcivescovo e degli ordinari, Come accadde dal 1162 al 1167, assumeva poteri molto ampi: di lui infatti poteva dirsi addirittura che faceva le veci dell’arcivescovo (Doc. 52). Bisogna poi aggiungere i monasteri maschili e femminili della città, in genere fondazioni episcopali, largamente dotate di beni e privilegi da parte di arcivescovi, re e imperatori [28]. Erano strettamente legate all’autorità dell’arcivescovo, ma quando questa entrava in contrasto con quella imperiale, per di più sostenuta dalla forza delle armi, indubbiamente era difficile scegliere tra le due: così, quando Federico I impose un giuramento di obbedienza a Vittore IV, alcuni, e tra essi il monastero di S. Ambrogio, come abbiamo visto, prestarono il giuramento richiesto, altri invece, come le monache di S. Maria Aurona, preferirono abbandonare la città, ritirarsi nei loro possedimenti di Cascina Bagnolo e proclamare la loro [p. XXXVII] fedeltà all’arcivescovo Oberto, che aveva seguito in Francia Alessandro III: le monache, infatti, in una vendita abbastanza considerevole di beni del monastero, per la quale evidentemente in tempi normali sarebbe stato necessario il consenso dell’arcivescovo, facevano sottoscrivere l’atto dal primicerio Stefano «qui modo stat loco archiepiscopi», e promettevano di farlo sottoscrivere anche da Oberto, quando fosse ritornato in città, o dal successore ‘catholicus’ di questi (Doc. 52) [29]. Vi erano infine altre istituzioni: gli ospedali, specialmente, molti dei quali sorti accanto ad alcune importanti basiliche e ad esse soggetti, come ad esempio l’ospedale di S. Ambrogio, che, nel periodo qui preso in esame, dipendeva, quanto a diritti parrocchiali, dal monastero ambrosiano (Doc. 89). Gli ospedali tendevano tuttavia a liberarsi da una tale tutela, anche se non sempre con esito favorevole [30]; il Doc. 11, nel quale i ‘fratres’ di S. Giacomo al Restocano rinunciano ad ogni diritto sul loro ospedale in favore dei canonici di S. Ambrogio, cedendo anche quanto avevano ottenuto un anno prima, è forse un indizio di questa situazione.
Se ora, entro le grandi categorie che abbiamo passato in rassegna, vogliamo isolare e mettere a fuoco qualche persona, non abbiamo che l’imbarazzo della scelta. A tutta prima l’attenzione rimane maggiormente colpita dai particolari più curiosi e dai casi umani, forse perché questi ultimi non hanno età e la distanza che ci separa dagli uomini del passato è allora più facilmente superata. Ecco, per esempio, alcune osservazioni sul livello di cultura del tempo: le monache di S. Maria Aurona, intervenute a dare il loro consenso ad una vendita di terre in Assiano, e che si sottoscrivevano di loro pugno, non sembravano avere molta dimestichezza con la penna e la pergamena: alcune potevano a mala pena scrivere il loro nome. Del resto anche tra gli ecclesiastici, che teoricamente erano una categoria di persone abbastanza istruite, non mancavano gli analfabeti: ad esempio il prete Pietro, al quale si riferisce la frase finale del Doc. 87: «… et [p. XXXVIII] ego Anselmus (notarius) per parabolam suprascripti presbiteri Petri qui scribere nesciebat subscripsi». Le sottoscrizioni del preposito di S. Ambrogio, Satrapa, e di qualche altro ecclesiastico, invece, denotano una certa confidenza con lo scritto e, a volte, anche una certa eleganza (v. tavv .IV e V).
Passiamo ora ad un altro ordine di considerazioni, ad esaminare cioè i casi toccanti. Soprattutto negli anni che videro i due assedi di Milano, e nel periodo immediatamente successivo, ma anche in altri momenti, i documenti ci fanno conoscere alcune figure di fanciulli e di donne, i più deboli e indifesi di fronte alle calamità e alla guerra, ed anche di fronte ai profittatori. La realtà della fame e del bisogno si fa sentire pesantemente a Romedio e a ‘Garbaniate’, minorenni e costretti a vendere le loro terre, il primo nel 1158 e il secondo nel 1160, in pieno periodo di guerra (Docc. 34, 41). Sulle spalle di altri fanciulli, come Giovanni ‘de Vico’, ricadono i debiti dello zio, forse caduto in combattimento (Doc. 42); per altri invece i parenti o i tutori prendono impegni e cedono i beni (cf. ad es. Docc. 22, 61). Le donne, che portavano a volte nomi strani e suggestivi: ‘Belvisus’, ‘Carabella’, ‘Caracosa’, ‘Strabella’, ‘Strania’, ‘Rubea’, ‘Stramadizius’, per citarne solo alcuni, erano diverse per le condizioni sociali della famiglia da cui provenivano. Alcune di esse, come ad esempio Ilaria ‘de Badaglo’ (Doc. 59), avevano portato al marito una dote considerevole: ventiquattro lire; altre invece, come Contessa, non avevano ricevuto denaro dalla famiglia paterna, ma solo roba (Doc. 25). Altre, come Cesaria (Doc. 34), andarono spose durante la guerra, molte sicuramente rimasero vedove a causa di essa; tra queste ultime è forse da annoverare ‘Aicharda’ (Doc. 42) e alcune delle donne che dal 1158 in poi, fino ai primi anni del dopoguerra, vengono nominate come ‘relicte’.
Vogliamo soffermarci un momento su due donne in particolare: ‘Strania’ e ‘Belvisus’. La prima, nel 1173, a causa della prolungata assenza del marito, era rimasta senza mezzi di sussistenza, ed evidentemente non aveva trovato aiuto ne presso il fratello, ne presso il figlio, nato da un precedente matrimonio; era stata quindi costretta a chiedere denaro a prestito impegnando una pezza di terra (Doc. 88). ‘Belvisus’, una vedova che aveva una figlia sposata, e possedeva un po’ di terra nel territorio di ‘Garbaniate’, che forse non era in grado di amministrare da [p. XXXIX] sola, aveva dovuto contrarre un debito in denaro, poi si era fatta dare della biada, poi due buoi, e non potendo restituire quanto doveva al suo creditore, era stata costretta a cedergli tre pezze di campo e una di zerbo (Doc. 101).
Se è molto facile, come si è visto, trovare gente stretta dal bisogno, è anche facile trovare chi approfittava di questo stato di cose: citiamo ad esempio Ambrogio e ‘Revegiatus de Oldanis’, sui quali ritorneremo tra poco, ‘Masius de Parabiago’, che aveva probabilmente prestato del denaro a persone di Magenta avendone in pegno della terra che non avevano poi potuto riscattare (Doc. 3), Giovanni ‘Masiolus’, che per anticipare una somma alla chiesa di Baggio, nel 1161, aveva accettato in pegno un calice (Doc. 48), Gaspare ‘Menclotius’, infine, che per avere la restituzione di un prestito, aveva ottenuto dal podestà di Milano, nel 1163, di rifarsi sui beni del debitore, cioè del monastero di S. Maria Aurona (Doc. 52). Se nel caso delle persone sopra indicate è abbastanza giustificato il sospetto che fossero quanto meno affaristi senza scrupoli, per altre i documenti non lasciano capire chi fossero in realtà; certo rimane una notevole curiosità di sapere da che parte venissero a Giovanni ‘de Muzano’ i soldi necessari a compiere due investimenti nel 1163 (Docc. 50, 51), o quale fosse il motivo che aveva trattenuto un altro Giovanni tanto a lungo lontano da casa, senza provvedere alla moglie ‘Strania’, rimasta senza mezzi di sussistenza (Doc. 88). Ma un altro viaggio incuriosisce ancor di più, quello che si apprestava ad affrontare nel 1178 ‘Gacius Colderarius’ e che aveva per mèta addirittura terre ‘ultra mare’ (Doc. 112). ‘Gacius’ tuttavia si dimostrò più previdente di Giovanni: prima di intraprendere un cammino dal quale non sapeva se sarebbe mai ritornato, provvide a sistemare le sue cose e a predisporre un annuale in suffragio della sua anima. L’indeterminatezza con la quale accenna alla «via de ultra mare qua ire disposui», ci porta ad escludere che lo scopo di tale viaggio fosse un pio pellegrinaggio verso la Terra Santa, tanto più che, provvedendo ad un rito di suffragio, egli non fa cenno alcuno al valore meritorio ed espiatorio che il pellegrinaggio, di per sé, possedeva. ‘Gacius’ poteva essere, assai semplicemente, un commerciante.
Nella folla di tutti questi piccoli grandi protagonisti delle pergamene di S. Ambrogio, e quindi della storia di Milano in quegli [p. XL] anni, talune persone, o gruppi familiari, assumono un rilievo particolare. Delle famiglie, interessanti per tentare di ricostruire il tessuto sociale di quegli anni a Milano, alcune sono già state oggetto di studio: ‘i capitanei’ da Baggio, i Cagapisto, i Veneroni, i de Vico, gli Ermenulfi, gli Scaccabarozzi [31]; per altri gruppi familiari lo studio è attualmente in corso [32], per altri infine manca ancora. Qualche notizia si è procurato di fornire, nelle note ai documenti qui editi, a mano a mano che se ne presentava l’occasione.
Tra le famiglie che emergono maggiormente dalle pergamene qui considerate, e che quindi sembrano meritare di essere esaminate, ricordiamo i Crivelli, gli Zavattari, i da Rho. Molti altri però potrebbero riuscire interessanti, anche se il materiale documentario, disposto su un troppo breve arco di tempo, probabilmente non si presta a lavori specifici su singole famiglie. Potrebbe comunque essere di qualche utilità ricercare le vicende e le fortune di alcuni gruppi che possono essere bene individuati grazie ai cognomi oramai quasi completamente fissati, nella seconda metà del XII secolo: a titolo di esempio si possono citare i ‘Mulinarii’, i ‘Pristores’, gli ‘Iudei’.
Se dalle famiglie passiamo agli individui, nelle pergamene della canonica scritte nel nostro periodo compaiono molti personaggi che nelle vicende della città svolsero una parte di primo piano; non vogliamo però soffermarci su questi, sia che abbiano avuto uno studio biografico, sia che lo aspettino ancora, e vogliamo segnalare soltanto quattro persone non molto importanti per la [p. XLI] ‘grande storia’: Ambrogio e ‘Revegiatus de Oldanis’, Domenico ‘Abbas’, ‘Ferrus Iudeus’. I due ‘de Oldanis’ erano senza dubbio affaristi nati, e cercavano di sfruttare al massimo le situazioni loro favorevoli senza lasciarsi frenare dagli scrupoli: Ambrogio, il padre, a quanto risulta dalle nostre pergamene, aveva concentrato la sua azione sul territorio di ‘Garbaniate’: evidentemente sorvegliava la situazione e non si faceva sfuggire l’opportunità di fare acquisti (Docc. 5, 6, 7, 8, 17, 21, 22, 23, 26, 33, 41, 43); ad un certo punto arrivò addirittura a un accordo con Arialdo da Baggio per dividere il territorio di quel luogo in sfere di influenza: Ambrogio e Arialdo si davano infatti reciproca assicurazione che non avrebbero compiuto nuovi acquisti al di fuori della propria zona (Docc. 36-37). Gli investimenti di Ambrogio erano proseguiti fino al 1160, anno in cui tra l’altro comperò le terre di ‘Garbaniate Veneronis’, che non aveva di che vivere a causa della guerra (Doc. 41), e prestò denaro al monastero di S. Vincenzo: se abbiamo ben compreso le condizioni elencate nel complesso contratto, si trattava certamente di un prestito da usuraio (Doc. 44). Gli affari, però, non andarono tutti lisci, e Ambrogio lasciò agli eredi, in particolare al figlio ‘Revegiatus’, una situazione un po’ ingarbugliata ‘Revegiatus’ dovette infatti contrarre un debito per pagare quelli lasciati dal genitore: ce lo dice il Doc. 60, dal quale inoltre pare di poter concludere che Ambrogio avesse compiuto anche delle operazioni quanto meno irregolari. Anche ‘Revegiatus’, tuttavia, era della stessa pasta del padre, ed aveva il medesimo interesse per le terre di ‘Garbaniate’. Infatti, allorché quella zona di influenza fu o gli sembrò minacciata dal fratello ‘Squarciavilla’, che, a quanto sappiamo, era più tranquillo e badava ai suoi prati, non esitò a trascinarlo davanti ai consoli a più riprese (Docc. 91, 95, 103, 117, 118). Per il resto, il nostro ‘Revegiatus’, una volta sistemati gli affari del padre (Docc. 60, 63, 67), si diede da fare per conto suo; del resto aveva già cominciato nel 1160, quando aveva comperato della terra da un minorenne indebitato (Doc. 42). Tra le altre operazioni da lui compiute, da allora fino al 1178, ne ricordiamo solo due, anche a costo di essere accusati di presentare un’immagine unilaterale e denigratoria del nostro personaggio: sono i Docc. 88 e 101, che già abbiamo ricordato perché in essi due donne sole, ‘Strania’ e ‘Belvisus’, dopo aver ricevuto un prestito che non erano [p. XLII] state in grado di pagare, erano state costrette a cedere delle terre: il credito re di entrambe era proprio ‘Revegiatus’.
Passiamo ora a Domenico ‘Abbas’. È il solo laico che in una occasione abbia agito come rappresentante della canonica di S. Ambrogio (Doc. 18): la canonica infatti, di solito, si faceva rappresentare dal preposito o da un canonico, o comunque da un ecclesiastico. Domenico aveva delle terre in Moirano (Doc. 27), e, come si è detto, era legato all’ambiente della canonica di S. Ambrogio. Un atto del 1173 (Doc. 82) ci aiuta a fare qualche supposizione sul tipo di questi legami: Domenico infatti dava ‘guadia’ al canonico Ruggero ‘de Bozo’ che avrebbe fatto una carta di vendita, in favore dello stesso Ruggero, relativa ad un certo prato di Moirano per il quale aveva già ricevuto una somma superiore alla metà del prezzo totale. L’asserzione fatta da Ruggero, che egli agiva solo a titolo personale, non ci trae in inganno: all’atto erano infatti presenti altri due canonici. La vendita promessa, inoltre, fu conclusa proprio «in curia suprascripte canonice Sancti Ambrosii» (Doc. 93). Pare proprio di poter concludere che questa volta sia stata la canonica a prestar denaro e a pretendere poi terra in pagamento.
L’ultimo personaggio che vogliamo esaminare è particolarmente affascinante, tanto da indurci a uscire per un momento dall’ambito cronologico che ci siamo proposti per conoscerlo meglio. Si chiamava ‘Ferrus Iudeus’, figlio di Pietro ‘Iudeus’ che nel 1145 era già morto, ed era di Milano. In quell’anno, non sappiamo in seguito a quali traversie, ‘Ferrus’ era costretto a cedere a Ugo e Bianca, suoi cugini, figli del defunto Airoldo ‘Iudeus’, tutte le case e le terre del territorio di Moirago che aveva in beneficio dai ‘de Berenzago’; otteneva in cambio venti tre lire d’argento e una pezza di campo e un prato in Menzago (ASA, Perg. sec. XII, n. 75). Nel giro di meno di vent’anni, però, la fortuna volse le spalle al cugino di ‘Ferrus’: nel 1172 Ugo era infatti costretto a cedere un campo a un certo Pietrino ‘Barozi’ (Doc. 76), e pochi giorni dopo a dare in pegno a ‘Ferrus’ tutto ciò che possedeva nel territorio di Moirago per garantire le terre che Ugo aveva dato a livello a ‘Ferrus’ per nove lire (Doc. 77). In questo documento è interessante notare che ‘Ferrus’ è detto «de civitate Mediolani», ma, subito dopo, «de loco Sumirago», e infine si aggiungeva che in quel momento abitava a Menzago. Nel 1175 i beni di Ugo erano evidentemente passati a ‘Ferrus’, [p. XLIII] forse in seguito al pegno, più probabilmente per eredità a quella data infatti Ugo era già morto ‘Bruxadus de Berenzago’, allora, anche a nome dei ‘parentes consortes’, investì ‘Ferrus’ delle case e terre del territorio dl Moirago che il defunto Ugo aveva avuto in beneficio l’investitura era fatta «per legale et vetus feudum», cioè trasmissibile solo per linea maschile e di primogeniti Secondo l’uso, ‘Ferrus’ giurò fedeltà ai suoi signori completando l’atto di investitura (Doc. 97) Probabilmente però i ‘de Berenzago’ non navigavano in acque troppo buone, e ‘Ferrus’ aveva in mente un piano preciso: nel 1178 otteneva infatti a livello perpetuo da ‘Bruxadus’, per la somma di venti lire, le terre di Moirago che già teneva ‘per feudum’ dalla famiglia di questo ultimo, cioè i ‘de Berenzago’, i quali a loro volta avevano tali terre in proprietà o a livello (Doc. 113) A questa data, ‘Ferrus’ abitava a Quinzano S. Pietro, ma di lui si diceva sempre che era «de civitate Mediolani», e che era stato del Cordusio.
A questo punto entra in scena la canonica di S. Ambrogio, che ottiene a sua volta a livello perpetuo da ‘Ferrus’ un sedime, venti pezze di campo, cinque di prato, una di zerbo, nove di bosco nel territorio di Moirago per il prezzo di settantatré lire (Doc. 114) Nell’ultimo atto ‘Bruxadus de Berenzago’, insieme col fratello Giovanni, rinuncia infine, anche a nome dei parenti, alla prelazione che si era riservata e ad ogni altro diritto sulle terre di Moirago, ricevendo dalla canonica di S Ambrogio un ‘launechild’, e dalla canonica stessa per conto di ‘Ferrus’ venticinque lire, che erano una patte del prezzo delle terre di Moirago, e di cui i fratelli ‘de Berenzago’ avevano una carta ‘atestati’ di venti lire (Doc. 115) Questo complesso meccanismo, che a dire Il vero non ci riesce di capire perfettamente, soprattutto a causa della disparità tra Il prezzo pagato da ‘Ferrus’ e quello pagato dalla canonica, e del fatto che nell’acquisto di ‘Ferrus’ le terre non erano indicate una per una, nasconde probabilmente un prestito fatto ai ‘de Berenzago’ che in cambio avevano ceduto le terre di Moirago. Il prestito, altrettanto probabilmente, veniva dalla canonica, che l’ultimo documento ricordato induce a ritenere Il principale attore di tutto l’affare, con ‘Ferrus’ come intermediario. Quanto a quest’ultimo, poi, il cognome, e le circostanze che fosse cittadino milanese, già abitante nel Cordusio, quindi proprio del centro di Milano, e che dal 1172 in poi avesse successivamente dimorato a Sumirago, [p. XLIV] Menzago e Quinzano S. Pietro, possono indurre a qualche suggestiva supposizione. Certamente, né ‘Ferrus’, né Ugo, e nemmeno il padre di ‘Ferrus’, Pietro, erano di religione ebraica, ma il cognome fa ritenere che fossero discendenti da Ebrei. Ora, è facile pensare che, alla pari di ‘Ferrus’, altri Ebrei avessero profittato del lungo periodo della guerra per compiere fruttuose operazioni finanziarie. Ciò spiega la reviviscenza di spirito antisemita che dovette manifestarsi in Milano, e che trovò la sua espressione nei rilievi di Porta Romana, dove il protettore della città, sant’Ambrogio, è rappresentato in atto di cacciare con il flagello Ariani ed Ebrei [33]. Del resto, il fatto che proprio Federico I, il grande nemico di Milano, avesse sottratto i Giudei alle violenze popolari rendendoli servi della camera imperiale, doveva certo contribuire a indisporre i Milanesi [34].
In un clima del genere, non crea grande difficoltà il pensare che ‘Ferrus’, discendente da Ebrei e abile a maneggiare il denaro in operazioni disinvolte, abbia ritenuto opportuno lasciare la città insieme con la famiglia per abitare nella maggiore quiete della campagna, pur senza rinunciare del tutto alla sua lucrosa attività.
I luoghi
[p. XLIV] Tra i centri urbani ricordati nei documenti qui presi in esame, il più importante, senza alcun dubbio, era Milano. Sulla città infatti gravitavano i numerosissimi centri minori del contado che, se per le necessità quotidiane ricorrevano a mercati locali, più comodi perché più vicini, come ad esempio quello di Nerviano (Doc. 32), non potevano non sentire l’attrazione del più vasto mercato milanese, dove affluiva ed era smistata la merce destinata non solo al commercio regionale, ma anche a quello internazionale, se è lecito usare una espressione anacronistica. La rete commerciale di Milano era infatti vastissima: arrivava a Genova e alla Sicilia, in Francia, Svizzera, Germania, Fiandre, dove veniva a incontrarsi anche con le merci provenienti [p. XLV] dai mercati orientali [35]. Un commercio così vasto e complesso, che traeva impulso anche da una fiorente industria tessile e di lavorazione del ferro, caratterizzava in modo notevole, senza dubbio, la fisionomia cittadina; nei nostri documenti, però, non troviamo traccia di tutto questo, ne accenni agli edifici che erano riservati a simili attività. I documenti ricordano invece soprattutto gli edifici sacri: le chiese, le cappelle, i monasteri, le canoniche, i campanili, vecchi e nuovi, gli ospedali destinati al soccorso dei poveri e dei pellegrini, i cimiteri.
Non mancano però accenni ad altre costruzioni importanti per la vita cittadina. Entro le mura massimianee, nel centro vivo della città, accanto alla chiesa cattedrale, sorgeva il palazzo dei consoli, sull’area dell’attuale Palazzo Reale, dove aveva sede la suprema magistratura comunale (Docc. 30, 118). Davanti al palazzo consolare vi era uno spiazzo erboso, il broletto, nel quale a volte venivano emesse le sentenze (Docc. 78, 91). Un altro edificio importante era la Zecca (Doc. 75), che sorgeva vicino all’antico Foro e non molto distante dal Teatro romano, ricordato solo perché diede il nome alla chiesa di S. Vittore, che sorgeva nei pressi (Doc. 55). Sempre nelle vicinanze, era il Cordusio, dove anticamente sorgeva il palazzo ducale, ma che nei nostri tempi si era forse trasformata in zona residenziale (Docc. 114, 115). Molto importante era poi il palazzo arcivescovile, che presso a poco doveva avere la stessa ubicazione di oggi (Appendice I, 2). Non solo l’arcivescovo però aveva un ‘palatium’, ma lo aveva anche Milone di Cardano, arciprete della Metropolitana e vescovo di Torino (Doc. 85), e senza dubbio le famiglie più nobili e ricche della città non vivevano in comuni case di abitazione. La città era cinta da mura, costruite già in età imperiale e restaurate più volte in seguito, nelle quali si aprivano porte e pusterle che immettevano sulle strade più importanti; molte di queste porte sono ricordate nei nostri documenti, anche se in due casi soltanto come cognome: a cominciare da nord e proseguendo in senso orario, troviamo dunque la Porta Comacina (Docc. 72, 96), la Nuova (Doc. 78), la Orientale (Doc. 75), la Romana (Doc. 40), la Pusterla di S. Eufemia, poi Porta Lodovica (Doc. 56), la Pusterla di S. Lorenzo (Doc. 51), [p. XLVI] la Pusterla Fabbrica (Doc. 84), la Porta Giovia (Doc. 86); tra la Pusterla Fabbrica e la Porta Giovia si apriva la Porta Vercellina, quella ricordata più volte nei nostri documenti, perché la più vicina a S. Ambrogio [36].
La città si estendeva però anche al di fuori delle mura, dove troviamo chiese, case di abitazione con orti e cortili, cimiteri: in alcuni punti, soprattutto vicino alle porte, e quindi alle grandi vie di comunicazione, l’abitato si faceva più denso e diventava borgo. Ne troviamo uno vicino alla Porta Comacina (Doc. 96), un altro a Porta Orientale (Doc. 79), altri ancora presso le Pusterle di S. Eufemia e Fabbrica (Docc. 56, 84), oltre naturalmente a quello di Porta Vercellina. Su di esso i documenti, più numerosi, dicono anche di più: vicino alla porta, che si apriva allo sbocco del decumano, vi erano infatti, oltre alle case di abitazione, anche banchi di vendita e macellerie (Doc. 71). Prima della guerra contro il Barbarossa; i borghi non avevano difesa, o quanto meno questa era inefficace in caso di vero pericolo; solo nel 1157, nell’imminenza dell’assedio, si era deciso di comprenderli dentro un fossato, che all’atto pratico si dimostrò inutile (non valse infatti ad evitare la resa di Milano), e che per di più venne a costare una somma enorme: 50.000 marche di argento. La prima testimonianza di questo fossato nei nostri documenti è del 1162 (Appendice I, 1): a quella data, infatti, il preposito di S. Ambrogio, Satrapa, doveva cedere delle terre per poter pagare il debito contratto dalla canonica «in fatiendo fossato civitatis Mediolani» [37]. Nei nostri documenti, però, bisogna attendere il 1176 per trovare detto espressamente che la basilica santambrosiana era «infra fossatum» (Doc. 100). Nel 1173 troviamo invece ricordato un altro settore del fossato: quello di Porta Orientale; il documento che ce ne parla (Doc. 79) ci porta a conoscenza di un particolare facilmente intuibile, [p. XLVII] ma che qui ci si presenta nella sua concretezza: per costruire quest’opera difensiva il comune di Milano aveva dovuto espropriare delle terre, evidentemente assicurando un risarcimento ai proprietari di queste; il risarcimento promesso, però, come spesso ancora oggi avviene, si faceva desiderare parecchio.
Al di là del fossato vi era la campagna: si potevano vedere campi, prati, in parte destinati all’uso comune degli abitanti dei borghi, qua e là qualche agglomerato di mulini, case, cascine, talora raccolto attorno ad un edificio religioso, come S. Pietro in Sala (Doc. 71), oppure altri borghi veri e propri, come S. Siro alla Vepra e Nosedo, luoghi di rifugio dei Milanesi costretti, ne11162, a lasciare la città per ordine dell’imperatore (Docc. 52, 54, 55) [38].
La distesa dei campi, coltivati ed incolti, prati, boschi, cascinali sparsi e centri minori, era intersecata da corsi d’acqua e dalla rete stradale, comprendente le maggiori vie di comunicazione e le strade che collegavano località minori. Agli uni e all’altra accennano talvolta i nostri documenti. Per quanto riguarda l’idrografia attorno a Milano, è necessario innanzi tutto premettere che alcuni dei corsi maggiori, e talvolta anche quelli minori, furono deviati artificialmente dal loro alveo già in età romana, poi ancora in seguito [39]: è dunque estremamente difficile cercare di ricostruire quale fosse la situazione nel periodo del medioevo che qui consideriamo, ove i documenti ricordano, oltre a ‘rivi’ non meglio determinati, il fiume ‘Olona’ o ‘Orona’, il fiume ‘Vepra’, il ‘Refregius’ o ‘Rivus Frigidus’, l’‘Oronella’, il ‘Merdariolus’, il ‘Ristocanus’, il ‘Derio’, infine il fiume ‘Zena’ e quello ‘de Colzume’. Di tutti questi corsi d’acqua, che scorrevano a ovest di Milano, l’Olona era senza dubbio il più importante. Esso ha origine a Malnate, presso Varese, e scorre con direzione nord-ovest sud-est fino ad arrivare a Lucernate presso Rho, dove già in età romana parte delle sue acque erano state deviate in un letto artificiale; il letto naturale, però, doveva proseguire nella direzione originaria, come pare suggerire anche il nome di Olona che ancora oggi troviamo attribuito ad un modesto corso d’acqua, poco sopra Binasco, che va poi a gettarsi [p. XLVIII] nel Po vicino a S. Zenone [40]. Ricostruire il corso originario dell’Olona da Lucernate a Binasco, però, non è cosa facile. Ci si provò il Poggi. Esaminate le caratteristiche geografiche del territorio e l’alveo di alcune rogge, egli formulava l’ipotesi che da Lucernate l’Olona scendesse a Cascine Olona, di lì passasse tra Settimo e Quinto, scorresse a est di Baggio, Cesano Boscone, Corsico, finisse in quella che ai tempi del Poggi si chiamava Roggia Vecchia, toccando Assago e poi, seguendo il corso dell’attuale Olona, Pontelungo, Lardirago, Vistarino, Corteolona e S. Zenone Po [41]; la presenza di un cavo che si chiamava, e che ancora oggi si chiama Olona, nel tratto da Assago a Corsico, e più precisamente tra Moirago e Rozzano, come risulta dalla tavoletta Zibido S. Giacomo dell’Istituto Geografico Militare [42], serviva al Poggi per avvalorare la sua ipotesi. Anche i nostri documenti spingono in tal senso: essi infatti segnalano il fiume Olona nel territorio di ‘Garbaniate’, località oggi scomparsa, ma che, come si vedrà più innanzi, doveva essere ubicata tra Settimo, Quinto e Baggio (Docc. 6, 36, 37), nel territorio stesso di Settimo (Doc. 12), in quello di Moirago (Doc. 114) e infine vicino a Basiglio (cfr. Doc. 65). Come si è detto, vicino a Lucernate l’Olona era stato deviato verso Milano: questo corso d’acqua aveva preso un nome diverso, Vepra; toccava S. Siro, che nei nostri documenti è appunto detto ‘ad Vepram’ o ‘ad Vebriam’ (Doc. 55; Appendice I, 1), piegava poi a sud scorrendo a ovest della città nei pressi della chiesa di S. Pietro in Sala [43].
Gli Statuti delle strade ed acque del contado di Milano fatti nel 1346 ci aiutano a ritrovare le tracce di alcuni altri corsi d’acqua [44]. Dell’‘Oronella’, che noi troviamo ricordato nel territorio di Assiano (Doc. 25), gli statuti danno infatti questa notizia: «El fiume dove fu dicto a le Horonelle ultra il loco da [p. L] Corsico da za dal ponte de Solcio» [45]. Poco sotto la Cascina M° Campana, a ovest di Monzoro e non molto lontano da Assiano, c’è ancora oggi un fontanile Orenella, che ai nostri giorni si perde quasi subito nella campagna, ma che potrebbe corrispondere al fiume degli statuti: prolungando infatti il suo corso e conservandone la direzione, si arriva tra Corsico e Trezzano [46].
Un po’ più a nord troviamo un fontanile, che nel nome (Olonetta) ricorda il fiume di cui cerchiamo le tracce; questo ha però origine poco lontano dalla Cascina Ghisolfa, a sud-est di Rho, e finisce poco lontano da Settimo [47]. La maggiore vicinanza con Assiano e la maggiore somiglianza del nome portano tuttavia a preferire il primo fontanile e a formulare l’ipotesi che l’antico fiume ‘Oronella’ dovesse almeno in parte corrispondere a questo. Sempre dagli Statuti viene ricordato «El fiume de Rostocano quale è de za dal locho del Roncheto» [48]. Il corso del fiume, ancora all’inizio del ’900 era in qualche modo suggerito dalla presenza di una località Villa Restocco, vicina alla Cascina Basciana, sulla strada che da Porta Magenta passava per Quarto e Quinto Romano, e altresì di una Cascina Restocco, tra Rottole e Ronchetto. È quindi possibile forse identificare il ‘Ristocanus’ con la roggia, appunto detta Restocco, che prende tale nome presso la Cascina Maiera, passa da Cascina Castello, Villa Restocco e si perde nel Naviglio poco sopra alla Cascina Ferrera, al di qua di Ronchetto [49]. Il corso d’acqua di cui ci occupiamo era dunque molto vicino a Milano, e percorreva un notevole tratto nella pieve di Cesano Boscone (Doc. 11). Il ‘Refregius’ o ‘Rivus Frigidus’ è ricordato negli Statuti come «El fiume dove fu dicto al Refregio, dove è una certa bocha o beveragio apreso al loco de Corsico» [50]. Dai nostri documenti risulta che questo corso d’acqua passava attraverso il territorio di ‘Garbaniate’ (Docc. 21, 36, 37 , 91, 101, 103, 108), ma arrivava anche nel territorio di Moirago (Doc. 114). Il ‘Refregius’ è dunque forse almeno in parte identificabile con l’attuale fontanile Refreggio che si scarica [p. LI] nel Naviglio Grande proprio vicino a Corsico, e che si ritrova, con il nome cambiato in Refredda, vicino a Moirago [51].
Né gli Statuti, né i rilievi del Poggi, e neppure l’esame delle carte topografiche forniscono elementi per localizzare in modo più preciso il fiume ‘de Colzume’, che si trovava nel territorio di Moirago (Doc. 114), il fiume ‘Zena’, che scorreva tra Moirago e Basiglio (Docc. 65, 114), il fiume ‘Derio’, ricordato una sola volta nel territorio di Moirano (Doc. 27). Neppure del ‘Merdariolus’, citato più di una volta, ma esclusivamente nel territorio di ‘Garbaniate’, i sussidi già ricordati sopra dicono nulla. A proposito di questo corso d’acqua, probabilmente piuttosto modesto a giudicare dal ristretto ambito in cui è localizzato, è però possibile tentare di formulare una ipotesi, che trae spunto dal nome e dall’osservazione della carta idrografica del territorio milanese [52]. Notiamo innanzi tutto che un altro fiume, sempre a ovest della città, aveva in un tratto un nome che, come subito risulterà,. ricorda da vicino quello del ‘Merdariolus’; si tratta del Lambro meridionale che nel tratto superiore si chiama Lombra e che riceveva a S. Siro le acque del Vepra, cioè del tratto deviato dell’Olona, come già si è visto, e che poi, con il nome di Lambro meridionale, si scarica nel Lambro maggiore, per mezzo di un canale artificiale, presso S. Angelo Lodigiano. Quando il Vepra fu deviato, probabilmente già in età antica, verso Milano, all’altezza del ponte Fabbrica, un tratto di alveo tra il Naviglio Grande e il Naviglio pavese rimase depauperato di acque e in esso vennero convogliati gli scarichi delle fogne cittadine: ora, questo tratto del Lambro meridionale veniva chiamato anche Lambro morto, o Lambro ‘Merdarius’ [53]. Anche il nostro ‘Merdariolus’, potrebbe dunque essere un ramo morto di qualche fiume o torrente maggiore: precisamente del Lura che, nato dai colli comensi, passava per Lomazzo, Saronno e Caronno, fino a giungere a Rho, dove si univa alla deviazione dell’Olona divenuta Vepra; oppure di un altro corso d’acqua, il Bozzente, che andava a finire nella derivazione dell’Olona vicino a Cerchiate. Può essere infatti che le acque del Lura o del Bozzente continuassero, almeno in parte, per il loro alveo naturale, conservando [p. LII] la direzione originaria, ma senza più forza e quasi stagnanti. Se ora sulla carta geografica proviamo a tracciare la prosecuzione dei corsi del Lura e del Bozzente, andiamo a finire tra Quinto e Settimo, cioè proprio dove si trovava ‘Garbaniate’. Lasciamo la identificazione del tratto inferiore del Lura o del Bozzente con il ‘Merdariolus’ allo stato di semplice ipotesi, e passiamo a considerare le strade ricordate nei nostri documenti.
Dobbiamo per forza di cose trascurare le molte ‘vie’ segnalate in vari territori senza altre specificazioni, e concentrare l’attenzione su quelle di cui è possibile, almeno in parte, determinare il percorso. Ricordiamo appena la ‘Via Cava’ di Bollate (Doc. 97), della quale non sappiamo che il nome, e passiamo ad un gruppo di segnalazioni relative al territorio a sud e a ovest di Milano. Le prime ci possono spiegare almeno in parte l’interesse dimostrato dai canonici di S. Ambrogio per Moirago, che pure si trovava al di fuori della zona dove erano concentrati in massima parte i loro possedimenti. Moirago, infatti, era su una via di grande comunicazione, precisamente sulla strada che da Milano portava a Pavia (Doc. 114); questa grande arteria, cui forse allude la denominazione di un campo in territorio di Basiglio, detto «ad stradam» (Doc. 65), era descritta, nel tratto da Porta Ticinese a Lacchiarella, negli statuti che abbiamo più volte ricordato, dove si faceva espressa menzione anche di Moirago [54].
La zona più interessante dal punto di vista stradale, anche perché su di essa abbiamo più documenti, è quella dove in età romana passava la strada che dalla Porta Vercellina andava a Vercelli, e il cui percorso originario ci è suggerito dai toponimi, rimasti ancora oggi, di Quarto Cagnino, Quinto Romano, Settimo Milanese. Le tre località che abbiamo ricordato sono sulla linea del primo tronco della strada Vercellina, che ora passa più alta, per Bettole e Cascine Olona, per riprendere la direzione primitiva nella località di S. Martino [55]. Nell’epoca illustrata dai nostri documenti, una via, a quanto sembra, toccava successivamente Milano, Baggio e ‘Garbaniate’ (Doc. 67); un’altra, o forse la stessa, era poi così descritta: «strata illa que venit a Sancto [p. LIV] Petro ad Ulmum versus locum de Badagio et ipsum locum de Garbaniate et locum de Securi et Quinto» (Doc. 110).
Riesce difficile ritrovare il percorso di quest’ultima strada, sia perché le località non sono citate in ordine, sia perché una di esse, cioè ‘Garbaniate’, non esiste più, anche se sappiamo che doveva essere ubicata tra Settimo, Quinto e Baggio [56], e che era collegata a Seguro: le due località erano unite da una strada che, vicino alla prima località, passava su di un ponte; gli uomini di Seguro la percorrevano per ritornare a casa (Doc. 102, ed anche Docc. 36, 37). Gli statuti del 1346 non ci sono di molto aiuto per conoscere esattamente lo sviluppo di questo sistema stradale: ricordano infatti la «strata de S. Pedro al Olmo» che viene localizzata «alla fine del borgo di Porta Vercellina zoe a la stretta per la qual se va a Cassino»; ma nella descrizione vengono ricordate, alla rinfusa, le località di tutta la zona, comprese Baggio, Seguro, Cascine Olona e Trenno: tanto da far pensare che si trattasse non di una strada vera e propria, ma di un complesso di strade minori che sboccavano in quella maggiore, o anche soltanto che si volessero nominare tutti i paesi gravitanti sull’arteria [57].
Gli statuti ricordano anche un’altra via di comunicazione della zona, quella detta di Baggio, «comenzando al ponte de la preda»: à proposito della quale si nominavano le località di Cesano, Seguro, Moirano [58]. A questo punto, possiamo fare solo delle ipotesi: data l’importanza di Baggio per tutto il territorio (qui infatti sorgeva il ‘castrum’ dei ‘capitanei de plebe’ [59], è possibile che tale località fosse direttamente collegata con Milano, come sembra suggerire il già ricordato Doc. 67, che tra le coerenze di un campo nel territorio di ‘Garbaniate’ nominava la «via de Badagio et que vadit ad Mediolanum». Oltre che con Milano e ‘Garbaniate’, Baggio poteva essere poi collegata in qualche modo alle località della zona, tra cui Seguo – che era unita da un ponte a ‘Garbaniate’ –, e Quinto, sulla strada romana [60]. Si [p. LV] potrebbe però fare un’altra ipotesi: forse, nel periodo qui studiato, la strada romana, per evitare zone paludose createsi a seguito di inondazioni, o semplicemente a causa della già ricordata importanza di Baggio, era stata deviata più a sud: da Baggio passava così successivamente per ‘Garbaniate’ e Seguro, si ricongiungeva con il percorso originario della strada romana forse a Settimo, e arrivava infine a S. Pietro all’Olmo. Probabilmente ‘Garbaniate’ era a sua volta collegata a Quinto attraverso un guado sull’Olona: la mancanza di qualunque accenno a un ponte su questo fiume, verso Quinto, induce infatti a ritenere che tale ponte non esistesse; inoltre la posizione che ‘Garbaniate’ assume nei documenti, dove è sempre nominato con Baggio, Seguro e Settimo, siti sulla destra dell’Olona, porta a concludere che il paese si trovasse dalla stessa parte rispetto al fiume: è pertanto ovvio supporre che per recarsi a Quinto, ubicato sulla sinistra dell’Olona, si dovesse ricorrere a un guado.
Quello delineato sopra pare il percorso stradale più logico, anche perché non comportava l’attraversamento dell’Olona, e tale considerazione induce a non scartare l’ipotesi anche se Settimo non è ricordato nel Doc. 110, che enumera le varie località interessate dalla strada di cui ci occupiamo. Per spiegare questo silenzio, la Corsi avanza un’ipotesi degna di considerazione: S. Pietro all’Olmo, cioè, verrebbe ricordata perché è la prima località fuori della pieve di Cesano Boscone, che comprendeva Baggio, ‘Garbaniate’, Seguro e Settimo. L’attenta studiosa di cose milanesi formula però anche una ipotesi, diversa dalla mia, sul percorso della strada, che avrebbe collegato, nell’ordine, Baggio, ‘Garbaniate’, Seguro e Quinto, dove si sarebbe inserita sulla strada romana che andava a Vercelli. Ma la proposta suscita qualche perplessità, se si accetta, come del resto i documenti indurrebbero a fare, il percorso dell’Olona che ho creduto di poter ricostruire qui sopra. Sarebbe infatti necessario pensare a un duplice attraversamento del fiume [61].
[p. LVI] Una volta ricordati fiumi e strade, sarebbe forse utile descrivere nei particolari le condizioni naturali del suolo e le opere dell’uomo per modificarle o per assecondarle; un simile intento, però, ci tratterrebbe troppo a lungo, e ci porterebbe troppo lontani dallo scopo prefisso alla introduzione. Ci limiteremo quindi ad individuare le caratteristiche più rilevanti di due località scelte come campione, lasciando ad altri il compito di dare una descrizione compiuta di tutto il territorio. Le due località sono state scelte perché su di esse i documenti sono particolarmente ricchi di notizie, ed inoltre sono abbastanza lontane l’una dall’altra e possono quindi offrirci un quadro abbastanza diverso, pur nel permanere delle caratteristiche fondamentali di tutto il territorio. Delle due località, una, ‘Garbaniate’, si trovava a ovest di Milano, e non esiste più, l’altra, Moirago, esiste tuttora a sud della città.
Di ‘Garbaniate’, che già nel secolo XVI, all’epoca della visita pastorale di S. Carlo, era scomparsa, l’ultima notizia che possediamo risale ad un documento del 1473, dove compare con la denominazione «Garbaniate Arsitio plebis Cixani». Pare dunque che il luogo fosse stato danneggiato da un incendio [62], ma già da diverso tempo doveva aver perso qualsiasi importanza, poiché, tra l’altro, non viene neppure nominato negli statuti di Milano, là dove sono ricordate tutte le località gravitanti sulla strada di S. Pietro all’Olmo [63]. Seri studiosi di cose milanesi hanno già tentato di localizzare quel centro scomparso: si tratta della Santoro, che per la prima volta distingueva chiaramente il nostro ‘Garbaniate’ dagli altri Garbagnate del territorio milanese, e che riteneva di doversi limitare a collocare il nostro centro tra Settimo e Seguro; e della Corsi, che pensa di poter più precisamente ubicare ‘Garbaniate’ tra Quinto, Baggio, Seguro, Settimo [64]. Tuttavia, l’ipotesi sopra formulata relativa al corso dell’Olona, e di conseguenza al probabile percorso della strada tra Baggio. e S. Pietro all’Olmo, mi induce a qualche altra osservazione, che è logico sviluppo di quanto ho ritenuto di dover affermare fin qui, e che può forse illuminare meglio il problema [p. LVII] dell’ubicazione di ‘Garbaniate’. La tavola idrografica e quella stradale dei dintorni di Milano, qui accluse con i nr. 1 e 2, serviranno a chiarire l’esposizione che segue.
‘Garbaniate’, se si accetta il percorso da noi sopra delineato, si trovava sulla strada che da Baggio portava a S. Pietro all’Olmo; confinava a est con il territorio di Baggio (Doc. 23) e di Quinto (Doc. 21); a ovest con Seguro (Docc. 41, 119) e con Settimo (Docc. 6, 12) [65]. Era inoltre vicino all’Olona (Docc, 6, 36, 37), ed il suo territorio era attraversato dal ‘Merdariolus’ e dal ‘Rivus Frigidus’ (Docc. 36, 37, 38, 86, 91, 95, 108, 119). Tenendo conto della complessa e ricca idrografia del territorio, che forse fece dare al luogo il nome di ‘Marcidum’ o ‘Marciuffi’ [66], e richiamando alla memoria le considerazioni già fatte sul corso antico dell’Olona, che qui non corrispondeva all’attuale, ma passava probabilmente tra Settimo e Quinto per poi piegare a sud, scorrendo a est di Baggio, risulta chiaro che il pericolo di alluvioni e inondazioni doveva essere abbastanza grave.
Se ora poi, spostandoci dall’idrografia alla rete viaria, osserviamo i luoghi della zona, e in particolare i toponimi, Quarto, Quinto, Settimo della strada romana per Vercelli e Novara, siamo colpiti dalla strana assenza di un ‘Sextum’, la cui ubicazione si potrebbe supporre di trovare facilmente dividendo a metà la distanza che separa Quinto e Settimo. Ma a questo punto, abbiamo una sorpresa: ‘Sextuffi’, se mai esistette, avrebbe dovuto sorgere in un punto vicinissimo al corso antico dell’Olona, sarebbe stato attraversato circa al centro dal ‘Merdariolus’ (se il tentativo da noi fatto di localizzare questo corso d’acqua regge), avrebbe avuto a est il ‘Rivus Frigidus’, e sarebbe stato assai prossimo a Seguro. Sorge dunque spontanea l’ipotesi che ‘Garbaniate’, i cui dati topografici, elencati poco sopra, coincidono quasi alla perfezione con quelli di ‘Sextuffi’, si possa senz’altro identificare con questa ipotetica località. Il fatto però che ‘Garbaniate’ confinasse anche con il territorio di Baggio, e inoltre che la distanza tra Quinto e Settimo non raggiunga il doppio di quella tra Quarto e Quinto, ci induce a qualche altra riflessione. Se si pensa che il punto medio tra Settimo e Quinto cade esattamente [p. LVIII] su quello che doveva essere il vecchio corso dell’Olona, e se si suppone che il fiume in quel luogo non fosse di facile attraversamento, si può ipotizzare che il centro chiamato ‘Sextum’ fosse stato costruito più a sud presso un tratto del corso dell’Olona ove la costruzione di un ponte riuscisse più agevole, e verosimilmente in un punto distante presso a poco un miglio romano tanto da Quinto quanto da Settimo.
Tuttavia l’ubicazione di ‘Garbaniate’ proprio in quella sede suscita qualche difficoltà, perché sappiamo che il nostro centro confinava anche con Baggio, situata sensibilmente più a sud est. La spiegazione potrebbe essere quella, già accennata, di qualche inondazione o alluvione, in seguito alla quale il ponte che collegava Quinto all’ipotetico ‘Sextum’ fosse stato travolto e l’abitato trasferito un poco più verso Baggio. Divenuto inutilizzabile il ponte, la strada romana che da Milano arrivava a Settimo passando per Quarto e Quinto sarebbe stata abbandonata per quella più sicura che faceva capo a Settimo per Baggio. Gli abitanti di Quinto, da parte loro, potevano arrivare al corso modificato della strada romana raggiungendo ‘Sextum-Garbaniate’ attraverso un guado. Alcuni particolari, che vengono dalla toponomastica locale, potrebbero forse corroborare questa ipotesi; nel territorio di ‘Garbaniate’ troviamo la località ‘post graverio’ (Doc. 1), termine che, connesso con la voce celtica ‘grava’, ben si adatta ad una zona alluvionale; troviamo poi un’altra località detta ‘in senedogio’, che sembra derivare dalla parola ‘xenodochium’, cioè ospizio per i pellegrini, che si comprende meglio se pensiamo prossima una grande strada di comunicazione come la Milano-Vercelli (Docc. 10, 100). La terza località, infine, ha un nome ancora più interessante: ‘in Villa Vedere’ (Docc. 14, 16, 42, 68, 98). Se il termine ‘villa’ è ,da intendersi nel senso più antico, si tratterebbe di una azienda agricola abbandonata, se invece ‘villa’ stava già ad indicare centro abitato, questo luogo potrebbe essere un vecchio abitato lasciato deserto: in entrambi i casi la nostra ipotesi che ‘Garbaniate’ fosse sorta a seguito dello spostamento ,della popolazione di un altro centro potrebbe ricevere parziale conferma.
Lasciamo queste considerazioni nel campo delle semplici ipotesi, e passiamo rapidamente in rassegna le caratteristiche del territorio di ‘Garbaniate’. In una tale ricchezza di corsi d’acqua più [p. LIX] o meno importanti, è naturale che nella zona i prati fossero particolarmente numerosi: ricordiamo semplicemente, rimandando all’indice dei nomi per più precisi riferimenti ai documenti, il prato ‘cornarius’, quello ‘in credario’, quello ‘de Luvoldo’, il ‘pratus longus’, quello ‘de Rovoredo’. Sempre dall’acqua, inoltre, veniva un’altra fonte di ricchezza: l’energia necessaria al funzionamento dei mulini, come quello ‘de Rovoredo’ (Doc. 117). Non mancavano però altri tipi di coltivazione: ad esempio le vigne, probabilmente situate nella parte più asciutta del territorio e che si estendevano anche nel territorio di Seguro (Docc. 1, 41, 67, 108) ; inoltre proprio vicino a ‘Garbaniate’ vi era una ‘braida’, cioè un campo coltivato suburbano [67]; altri campi probabilmente erano destinati alla coltivazione di cereali; non mancavano poi gli zerbi (Doc. 108), cioè terreni ancora incolti [68]. Alcuni toponimi, derivati da ‘runcus’ (Doc. 108), ci dicono che esistevano delle zone dissodate di recente [69] e strappate alla sodaglia (‘silva’: Doc. 101) o al bosco vero e proprio (Docc. 17, 108); il nome ‘in castenedello’ dato ad un campo, infine, parrebbe suggerire che nella zona esistessero dei castagni (Docc. 5, 41). Se ora lasciamo ‘Garbaniate’ per scendere a Moirago, un solo documento, il 114, enumera in quel luogo, con le loro genominazioni, venti pezze di campo, cinque di prato, cinque di zerbo, cioè, come abbiamo visto, di terreno non coltivato, nove di bosco, e un sedime, cioè, come potremmo dire con un termine attuale, un’area fabbricabile [70]. La presenza dei prati anche qui non reca meraviglia a motivo dei vari corsi d’acqua che attraversavano il territorio; alla stessa causa sono da riferirsi toponimi come ‘in glairora’, ‘in glarea’, che si spiegano bene in una zona percorsa da tanti corsi d’acqua. I campi, però, almeno nell’area acquistata dai canonici santambrosiani, predominavano; alcuni di essi avevano forme strane: ricordiamo ad esempio quello fatto a forma di ‘sella de braga’. A Moirago, forse, c’era stato un notevole impulso all’attività agricola e si erano da poco messe a cultura [p. LX] terre prima incolte, come sembrano suggerire i toponimi ‘ad runcazum’, ‘ad runchetum de monacha’, ‘ad runcadizum’. Il terreno incolto a vegetazione spontanea, però, era ancora esteso: ce lo dice la presenza di una ‘silva’ e la denominazione ‘de spinedo’ data ad un campo. Verso Zibido S. Giacomo vi era poi il bosco vero e proprio. Tra i vari nomi degli appezzamenti, molti dei quali meriterebbero di essere studiati in modo particolare per poter essere spiegati, ricordiamo il toponimo ‘in castello’, che ci riempie di curiosità: vi era forse in questo punto un luogo fortificato?
Possiamo ora domandarci più in generale quali prodotti venissero coltivati, o raccolti, nel conta do milanese: enumeriamo semplicemente, tra i cereali, il frumento (Docc. 44, 67, 98), la segala (Docc. 15, 55, 58, 65, 73) il panico (Docc. 30, 58, 72, 73); vi era poi il miglio (Doc. 72), e il ‘menudrum’ (Doc. 49), termine con cui venivano indicati i cereali che si coltivavano dopo aver mietuto il grano, e in genere le seconde colture. La vite era abbastanza diffusa, e quindi il vino non doveva mancare (Docc. 20, 28, 35, 49, 55, 65, 108, 119). Vi erano poi fieno (Doc. 83), biada (Docc. 55, 71, 101, 114), paglia (Doc. 83) e legna (Docc. 44,55,83). Tra gli animali domestici i nostri documenti ricordano quasi esclusivamente il pollame: polli (Docc. 55, 57, 83) e capponi (Doc. 44); una sola volta viene ricordato un porco (Doc. 108), e tre volte i buoi che dovevano servire per i lavori dei campi (Docc. 24,52, 101); due toponimi servono a non farci dimenticare gli animali selvatici, che, allora, dovevano essere numerosi: ‘in cigoniaria’ e ‘in vulpera’, il primo nel territorio di ‘Garbaniate’, il secondo in quello di Moirago (Docc. 108, 114).
Non sarà forse inutile un’ultima considerazione: fatte poche eccezioni, i pagamenti degli affitti, non solo quelli in natura, ma anche quelli in denaro, conservavano le scadenze consuete fissate dai raccolti: s. Martino e s. Michele. Fondamentalmente, dunque, il ritmo della vita nei nostri documenti, anche per gli uomini la cui attività appare più legata al denaro, rimane in accordo con l’avvicendarsi delle coltivazioni e dei raccolti. Altro segno del prevalere dell’agricoltura sulle altre attività.
Questioni particolari
[p. LXI] È forse opportuno concludere la presentazione del gruppo di documenti qui pubblicati esaminando brevemente alcune questioni particolari, cioè la condizione della donna e del minorenne, e alcuni diritti signorili e feudali che vengono ricordati nei nostri testi. Non si pretende, naturalmente, di dire qualcosa di nuovo in proposito, ma si vuole soltanto cogliere l’occasione per illustrare rapidamente il significato di alcuni termini che, essendo ricordati dai Glossari e dai Lessici più importanti, non vengono inseriti nel glossario del presente volume. D’altra parte, ci è parso che il loro interesse fosse tale da esigere almeno un cenno esplicativo; ne era possibile fornirlo nelle note storiche ai singoli documenti per non appesantire in modo soverchio l’apparato.
La donna e il minore – La donna, nel diritto longobardo, anche se libera, era sempre soggetta al mundio, cioè alla tutela; in altri termini, al potere che il suo tutore, detto mundoaldo, esercitava su di lei e sui suoi beni. Il mundio, esercitato in primo luogo dal padre, quando la donna si sposava, passava al marito (cf. ad es. Doc. 33); quando questi moriva, ai figli (cf. Docc. 51, 58), e se non aveva figli, ad un parente (cf. Doc. 16). Pur essendo soggetta a tutela perpetua, la donna poteva ugualmente possedere beni propri, anche se l’amministrazione di essi era affidata al mundoaldo [71]. Tra i beni ai quali la donna aveva diritto, vi era il faderfio, parola germanica composta da ‘fader’ e ‘fehu’, cioè bestiame, o denaro del padre [72]. Il faderfio era la quota legittima delle sostanze della famiglia alla quale la donna aveva diritto e che riceveva come dote dal padre quando andava sposa. Se il padre era morto, erano i fratelli a provvedere a questo assegno dotale (Doc. 34). Il faderfio per lo più consisteva in una somma di denaro, ma poteva anche essere una terra (cf. ad es. Doc. 14), o della roba (Docc. 5, 25). La proprietà del faderfio, come di ogni altro oggetto personale che portasse in casa del marito, [p. LXII] rimaneva alla donna, ma l’amministrazione era riservata al marito, che poteva investirlo come meglio ritenesse [73]. Se però compiva una alienazione, era tenuto a garantire alla moglie che aveva provveduto a salvaguardare il faderfio di lei, le dava cioè ‘consultum’ (cf. Docc. 3, 5, 8, 14, 21, 34, 35, 39, 45, 46, 50, 56, 59, 65, 66, 69, 80, 98, 104, 111, 114). Se non lo faceva, la donna doveva dichiararsi soddisfatta di non avere faderfio (Doc. 47). Dai nostri documenti emergono alcuni casi tali da incuriosirci: quando la donna stessa, o il marito, vendevano terre che evidentemente costituivano il faderfio, il ricavato della vendita non era affidato all’amministratore naturale, cioè al marito, bensì al fideiussore presentato per difendere i beni venduti (Docc. 3, 33, 111).
La donna aveva altri beni oltre il faderfio: all’atto del matrimonio, infatti, il marito le doveva fare donazione della quarta parte dei propri beni. Anche questo assegno veniva amministrato dal marito; poiché però la ‘quarta’ era calcolata su tutti i beni dell’uomo, non solo su quelli che aveva al momento del matrimonio, ma anche su quelli che avrebbe acquisito in seguito, ne derivava che egli non poteva disporne liberamente senza il consenso della donna, che aveva diritto di accendere ipoteca (cf. Docc. 66, 69, 70, 72, 80, 98, 104, 111, 114). Se il marito moriva, i parenti di lui dovevano restituire alla donna il suo faderfio, ed anche la sua quarta (cf. Docc. 39, 42, 46, 56, 98) [74]. Anche i minorenni erano sottoposti a tutela: quella del padre, finché era vivo, o dei parenti, o anche di un tutore indicato dal padre stesso per testamento (cf. Doc. 62) [75]. Tali tutori avevano una certa libertà di azione: vediamo infatti che vendevano o davano a livello beni e diritti dei loro pupilli, incassando il ricavato di tale operazione. Dovevano però dare ‘guadia’ [76] al compratore, garantendo che, quando il minorenne sotto la loro tutela avesse raggiunto la maggiore età, gli avrebbero fatto perfezionare [p. LXIII] il negozio, senza richiedere, per questo, altro denaro (cf. Docc. 1, 4, 10, 22, 25, 28, 35, 62). Quando poi non vi fossero parenti, e il minore dovesse compiere una alienazione, gli veniva concesso un tutore che lo assistesse e rappresentasse solo per quell’atto (cf. Docc. 41, 42).
Se ora ci domandiamo quando un uomo fosse considerato maggiorenne, i nostri documenti ci danno qualche indicazione: un fanciullo di sedici anni e undici mesi era infatti dichiarato «iam pubes factus», e come tale era il mundoaldo della madre (Doc. 58; cf. anche il Doc. 51), ma era assistito da un tutore che integrava per così dire la sua capacità giuridica [77]. A venti anni, poi, si poteva affermare di aver raggiunto la maggiore età (Doc. 35).
La ‘advocatia’ – Per quanto riguarda le istituzioni ecclesiastiche, notiamo che anch’esse avevano qualche limitazione: nelle vendite e nelle permute infatti, la persona che le rappresentava era assistita da un laico, detto ‘advocatus’, che doveva tutelarne gli interessi (Docc. 44, 48, 52, 66, 67, 73, 74; Appendice I, 1). Talvolta questa funzione era divenuta un diritto ereditario per una certa famiglia: ad esempio i da Baggio avevano il diritto di avvocazia sulla chiesa di S. Martino di ‘Garbaniate’ [78]; la canonica di S. Ambrogio, invece, ricorreva ogni volta ad un ‘advocatus’ scelto per quel particolare contratto. I rappresentanti delle istituzioni ecclesiastiche potevano però liberamente compiere quelle operazioni che fossero chiaramente vantaggiose per la chiesa o il monastero da loro rappresentato; ad esempio potevano fare acquisti e ricevere donazioni, in cambio delle quali dovevano però dare un ‘launachild’ o ‘launegild’, termine che significa denaro della ricompensa. Nei diritti germanici, infatti, che non conoscono atti di pura liberalità, il rapporto giuridico era reso stabile solo dall’esistenza di una controprestazione, sia pure ridotta a simbolo [79].
[p. LXIV] Diritti e oneri vari – Non ci resta che accennare ad alcuni diritti, signorili ma anche feudali, che vengono ricordati nei nostri documenti, e dai quali, a quanto è dato osservare, la gente tendeva a sciogliersi, talvolta riscattandosi con una somma di denaro, tal altra, trasformando, ad esempio, il rapporto feudale in rapporto di altro tipo.
Oltre ai poteri giurisdizionali quali l’‘honor’ e il ‘districtus’ (cf. Docc. 28, 35, 46, 52, 83) [80], troviamo il ‘condicium’, cioè il diritto ad avere determinati doni, fissati ‘ex condicto’ (Doc, 57) [81] e le ‘condiciones’, che probabilmente avevano lo stesso significato (Docc. 28, 35, 52). Vi erano però anche altri diritti, piuttosto curiosi: ad esempio la ‘bremma’ (Doc. 62) che pare consistesse nel tributo dovuto ai signori per il pasto dei cani da caccia [82], e la ‘fractura’ (Doc. 62), probabilmente una multa che il signore aveva diritto di esigere da colui che aveva invaso certi territori a lui soggetti [83]. Vi era poi la ‘comandasia’, che doveva consistere nelle prestazioni richieste per la ‘commendatio’, quelle cioè a cui era tenuto chi richiedesse la protezione di un signore [84]. Questa richiesta, però, non era più fatta liberamente, ma era un onere dal quale colui che ne era gravato cercava di riscattarsi una volta per tutte (Doc. 63). Anche in un altro caso, forse, siamo di fronte ad una persona che si liberava da oneri pagando una somma: il documento non lo dice espressamente, ma i tre carri di legna, le trecento libbre di fieno, le diciotto uova, tre polli, tre focacce, il carretto e mezzo di paglia, sono veramente troppo strani, dati a livello perpetuo per la somma di dieci lire di denari milanesi d’argento, e non sembrano consentire altra spiegazione (Doc. 83).
Segnaliamo appena un caso di diritto di giuspatronato esercitato dai signori di Castiglione su due chiese del luogo, nelle quali potevano scegliere l’officiante (Doc. 85), per arrivare alle poche menzioni di feudo. In un caso si tratta di un semplice accenno un gruppo di terre viene dato a livello, «preter feudum», [p. LXV] escludendo cioè le terre detenute a titolo di beneficio (Docc. 62, 78). Il secondo caso, invece, è più interessante: si tratta infatti di una vera e propria investitura feudale, nella forma di «legale et vetus feudum» come dice il documento (Doc. 97). L’espressione significa che l’investitura era compiuta secondo le norme che avevano regolato il primo periodo di vita del feudo, quando i beni concessi erano trasmissibili per linea maschile e di primogeniti, ai discendenti della persona investita; se la linea diretta si estingueva, il feudo sarebbe passato agli agnati [85]. L’investitura, come di frequente avveniva in Italia [86], si conclude con il giuramento di fedeltà prestato dal beneficiario ai signori. Indubbiamente, però, nel secolo XII e nel Milanese, i rapporti feudali avevano ormai perso la loro ragione e il loro significato: colui che aveva giurato fedeltà, pochi anni più tardi otteneva a livello perpetuo ciò che già aveva in beneficio, e non esitava poi a cederlo alla canonica di S. Ambrogio (Docc. 113, 114, 115).
L’esistenza di tanti diritti, e a volte il loro sovrapporsi sulla stessa terra, faceva sì che talora il compratore, che aveva operato un certo acquisto in buona fede, se ne vedesse privato del tutto o in parte per evizione, cioè in base a un procedimento giudiziario con il quale colui che aveva i diritti maggiori recuperava quanto gli spettava (Docc. 69, 78, 111) [87].
Le monete – È infine necessario aggiungere qualche osservazione sulle monete in uso a Milano nel periodo da noi preso in considerazione. Le indicazioni che troviamo infatti sono varie e possono suscitare qualche perplessità: sono infatti dapprima nominati gli «argenti denarii boni mediolanenses», poi dal 1154 (Doc. 20) in poi, anche gli «argenti denarii boni mediolanenses novi». Nel 1163 (Doc. 52) troviamo per la prima volta ricordati gli «argenti denarii boni mediolanenses de imperialibus», e infine, nel 1169, gli «argenti denarii mediolanenses tertioli» (Doc. 57); questi ultimi, insieme ai nuovi, sono poi usati in tutti i documenti successivi. [p. LXVI] La moneta milanese era suddivisa, secondo il sistema introdotto dai Carolingi, in lire, soldi e denari: originariamente la lira era solo una moneta di conto e corrispondeva ad una libbra di argento; ogni lira era suddivisa in 20 soldi, e ogni soldo in 12 denari. Con l’andare del tempo, però, il peso e la lega delle monete erano stati alterati cosicché non c’era più la corrispondenza tra libbra d’argento e lira di conto [88]. Il Giulini, che aveva raccolto indicazioni di moneta vecchia e nuova anche nel secolo XI, si provò a determinarne il valore mettendo in rapporto il prezzo di alcuni beni (soprattutto terre) nei vari periodi del medioevo e ai tempi suoi. poiché purtroppo su questo punto siamo ancora fermi alle acute osservazioni del Giulini, è forse opportuno riprenderle brevemente: lo storico milanese calcolava che, mentre ad una lira del periodo ottoniano corrispondevano 1080 lire dei suoi tempi, all’inizio del secolo XI la moneta aveva perduto di valore: una lira di quell’epoca era infatti equivalente a sole 360 lire del secolo XVIII; circa l’anno 1150 la lira medioevale era ancora diminuita di valore e corrispondeva a sole 130 lire del Giulini, Grazie ai documenti da lui raccolti, inoltre, poteva affermare che nel secolo XII moneta nuova e terzoli erano la stessa cosa, e che gli imperiali valevano il doppio dei terzoli, e corrispondevano dunque alla moneta vecchia [89]. I nostri documenti non offrono dati che consentano qualche altra conclusione probabile sul valore del denaro: l’unico confronto che possiamo fare è tra il prezzo di due buoi nel 1154 e nel 1163 (Docc. 24, 52). Nel 1154 due buoi infatti costavano cinquantotto soldi, probabilmente della moneta vecchia, e nove anni dopo il prezzo era salito a quattro lire di buoni denari milanesi d’argento imperiali. È però impossibile ricavare qualcosa di preciso da questi elementi: anzitutto su entrambi i contratti grava il dubbio che nascondano un prestito ad usura; in secondo luogo non sappiamo se gli animali fossero della stessa qualità ed età; infine, ne11163, le razzie dell’esercito vincitore potevano aver contribuito a un rialzo dei prezzi degli animali agricoli e da soma.
In questo campo si avverte la mancanza di uno studio condotto [p. LXVII] con vero metodo scientifico [90]; sarebbe molto utile, ad esempio, conoscere esattamente la lega delle monete che ci sono rimaste, e inoltre condurre studi per ricercare quale fosse il reale costo della vita, e stabilire se certi divari siano da attribuire ad una svalutazione della moneta o piuttosto ad un lievitare dei prezzi.
Segnaliamo in questo campo una ricerca condotta su documenti tra il 960 e il 1139, che ha già permesso di raggiungere qualche risultato interessante, individuando alcuni momenti di crisi; sappiamo così che, dopo la prima svalutazione monetaria avvenuta in età ottoniana, quando fu fabbricata moneta di peso inferiore, bisogna giungere ai primi anni del secolo XI per trovare qualche cambiamento significativo nell’area italiana: nel 1024, infatti, la moneta milanese veniva distinta per la prima volta da quella pavese, segno che i valori non erano più equivalenti. Attorno al 1049, poi, Pavia cominciò a coniare monete più leggere, seguita ben presto da Milano. Una nuova svalutazione decisa da Pavia nel 1102, questa volta dovuta ad un cambiamento della lega di metallo usata, fu imitata ancora una volta a Milano [91]. Questo è il risultato dell’ultima crisi monetaria del secolo XI: le crisi del XII secolo aspettano ancora di essere chiarite [92].
Note
[1] Alcune notizie sulla formazione del collegio santambrosiano ho dato nello studio: Un documento sulla vita comune dei canonici di S. Ambrogio, in Contributi dell’Istituto di Storia Medioevale, III, in corso di pubblicazione, e a questo studio mi permetto di rinviare.
[2] Una copia semplice manoscritta delle Constitutiones ad Divi Ambrosii Maioris Mediolani Collegiatam Ecclesiam pertinentes, promulgate da san Carlo il 9 aprile 1567, è ancora conservata nell’Archivio Capitolare di S. Ambrogio (Manoscritti cartacei, I A 3: Statuti Capitolari Vecchi e Nuovi. Dottori dell’Ambrosiana). Tali costituzioni furono pubblicate, probabilmente nel secolo XVII, con il titolo: Constitutiones Imperiali Collegio Canonicorum Sancti Ambrosii Majoris Mediolani a Sancto Carolo praescripta anno MDLXVII nunc primum in lucem editae; nel volumetto il capitolo XV, De scripturis servandis in Archivio (sic), si trova alle pp. 70-75 (tre esemplari del volumetto a stampa sono conservati nell’Archivio Capitolare di S. Ambrogio, insieme con la copia manoscritta). L. S. Pandolfi, osb (L’Archivio di S. Ambrogio in Milano, in Ambrosiana. Scritti di storia, archeologia ed arte pubblicati nel XVI centenario della nascita di S. Ambrogio, Milano 1942, p. 245), ricordando le norme date da san Carlo a proposito dell’Archivio, affermava che il capitolo relativo era il XIII, mentre nel testo carolino è il XV; probabilmente egli si riferiva non alla copia cartacea, né a quella a stampa delle costituzioni di san Carlo, bensì alle Constitutiones Reverendissimi Capituli ad Sanctum Ambrosium maiorem, che nel 1908 mons. Comi, abate di S. Ambrogio, aveva presentato all’arcivescovo di Milano, Andrea Ferrari, «per modum experimenti», dove il capitolo De scripturis servandis in Archivio (sic) è appunto il XIII. Nelle costituzioni definitive del 1914 (Constitutiones Reverendissimi Capituli ad Sanctum Ambrosium Majorem Mediolani, a Sancto Carolo datae novissime recognitae) il capitolo XIII era infatti sparito, e le norme sull’archivio erano state introdotte in quello De diversis officialium muneribus (le costituzioni del 1908 e del 1914 sono conservate nella stessa cartella contenente gli statuti di san Carlo). Il Pandolfi può essere stato indotto a citare le Constitutiones del 1908 come quelle di san Carlo da quanto si legge nella presentazione di quelle Constitutiones ove appunto si affermava che le norme sottoposte al cardinal Ferrari erano sostanzialmente quelle approvate da san Carlo. A conclusione di quanto detto su questo argomento, rimane da aggiungere che il testo originale e varie copie delle costituzioni caroline sono conservati nell’Archivio Arcivescovile di Milano, nel fondo delle Visite Pastorali: cfr. A. PALESTRA, Visite pastorali di Milano (1423-1859). Inventario, Firenze-Roma 1951 (Monumenta Italiae Ecclesiastica. Visitationes, 1), pp. 46, 48, 49, 55.
[3] Il documento, datato 14 gennaio 1612, con il quale Paolo V concedette al cardinale Federico Borromeo di sopprimere la collegiata di Carnago, già Castelseprio, per istituire nuovi canonicati nella chiesa di S. Ambrogio di Milano, è conservato nell’Archivio Capitolare santambrosiano (Perg. sec. XVII, n. 2).
[4] Il manoscritto, conservato nell’Archivio Capitolare di S. Ambrogio, ha la segnatura: III, A, 1.
[5] Sull’opera del Frisi, v. PANDOLFI, p. 247; E. BERNASCONI, La serie cronologica degli Abbati del Monastero e dei Preposti al Capitolo della perinsigne basilica ambrosiana di Milano, «S. Ambrogio. Ragguaglio della basilica e della parrocchia», marzo 1957, 4.
[6] v. A. R. NATALE, L’Archivio Generale del Fondo di Religione dello Stato di Milano. Note e documenti, Milano 1969 (Monografie storiche, 2), ed anche, dello stesso autore, l’Introduzione a Il Museo Diplomatico dell’Archivio di Stato di Milano, I, parte prima, Milano s.d. ma 1971, pp. VII-XXXIII.
[7] Anche a questo proposito, v. PANDOLFI, p. 239.
[8] v. Cronaca dei ristauri e delle scoperte fatte nell’insigne basilica di S. Ambrogio dall’anno 1857 al 1876, dalle lettere di mons. Francesco Maria Rossi, preposto parroco di S. Ambrogio, vicario generale della diocesi di Milano, a don Luigi Lozza, parroco di Galgiana, Milano 1884, pp. 39, 52, 78.
[9] PANDOLFI, pp. 239, 247. Ritrovo alla fine, di mano del Biraghi, anche un elenco cronologico su registro (ASA, Ms. XII B 2).
[10] In memoria di Monsignor Gerolamo Corni, Abate Mitrato di S. Ambrogio, Conte di Civenna, Limonta e Campione (18 maggio 1831-20 dicembre 1909). Discorso pronunciato nella Basilica Ambrosiana da mons. Achille Ratti, Prefetto della Biblioteca Ambrosiana, Milano 1910, p. 9.
[11] PANDOLFI, p. 247.
[12] PANDOLFI, pp. 239-240.
[13] v. M. CERIANI, Archivio Capitolare di S. Ambrogio in Milano, «S. Ambrogio. Ragguaglio della basilica e della parrocchia», luglio-settembre 1960, 16-18; e, dello stesso autore, Prefazione all’Inventario descrittivo dei Codici, «S. Ambrogio. Ragguaglio della basilica e della parrocchia», ottobre 1960, 11-15. Ultimata così brevemente la storia dell’Archivio Capitolare, varrà la pena di ricordare che esisteva anche un ricco archivio presso il monastero di S. Ambrogio, vicino e in certi periodi rivale del collegio canonicale (per il monastero, v. Doc. 55, n. 4). Quando il monastero, divenuto centro vivissimo di cultura ai tempi dell’abate Fumagalli, fu soppresso dalle autorità della Cisalpina, come già era avvenuto della canonica, anche l’archivio monastico fu sequestrato. A differenza della canonica, però, la fine del monastero fu definitiva, e i documenti rimasero tutti all’Archivio di Stato di Milano; le sole pergamene dal 1101 fino all’inizio del secolo XVIII occupano oggi le cartelle 312-354 dell’Archivio Diplomatico, ivi compresi alcuni codici di inventari settecenteschi. I codici della biblioteca, invece, passarono alla Braidense (PANDOLFI, p. 246; A. RATTI, Del monaco cisterciense Don Ermete Bonomi Milanese e delle sue opere, «Archivio storico lombardo», 22/1 (1895), 306-312; 315-319). Sempre alla Biblioteca Braidense si trova il manoscritto di E. Bonomi contenente la trascrizione delle pergamene del monastero santambrosiano dal 721 fino al 1150 (Tabularii Coenobii Ambrosiani Exemplaria, ms. sec. XVIII, Biblioteca Braidense, AE. XV. 17-19).
[14] G. C. DELLA CROCE, Codex diplomaticus Mediolanensis ab anno 658 ad annum 1408, ms. fine XVIII secolo in Biblioteca Ambrosiana, I, 8, f. 107rv; I, 9, f. 29rv.
[15] N. SORMANI, Diplomatica Mediolanensis ex anecdotis ferme collecta ab urbe condita ad annum Christi post mortem MDC, ms. XVIII secolo in Biblioteca Ambrosiana, H 101, f. 216r.
[16] ASA, Perg. sec. XIII, n. 189.
[17] DELLA CROCE, I, 8, ff. 92r-98r. Questi statuti sono stati pubblicati dal Sormani, che però li attribuisce genericamente al sec. XII (La gloria de’ Santi milanesi, Milano 1761, pp. 211-222).
[18] E. CATTANEO, Istituzioni ecclesiastiche milanesi, in Storia di Milano della Fondazione Treccani degli Alfieri, IV, Milano 1954, p. 662.
[19] J. V. PFLUGK-HARTTUNG, Acta Pontificum romanorum inedita, III, Graz 19582, pp. 266-267; in questa edizione il documento porta la data 1166-1176, che però il Kehr correggeva, a ragione, in 1178-1179 (P. F. KEHR, Italia Pontificia; VI, 1: Lombardia, Berolini 1913, nr. 32 p. 82, nr. 1 p. 137).
[20] G. PORRO LAMBERTENGHI, Liber consuetudinum Mediolani anno MCCXVI collectarum, in Leges Municipales, tomus II, pars prior, Augustae Taurinorum 1876 (Historiae Patriae Monumenta, XVI/1), coll. 878-879, 896-897, 899-900, 958.
[21] Queste indicazioni ci vengono in particolare dalle testimonianze di Giovanni ‘Plattus’, priore del monastero, confermate ed arricchite dal monaco Arnaldo; entrambe le deposizioni sono tra quelle rese in favore del monastero di S. Ambrogio contro la canonica e raccolte nel novembre del 1200 dal notaio Lanfranco ‘de Concorezo’. Tale documento è ora conservato nell’Archivio Capitolare di S. Ambrogio ed ha la segnatura: Perg. sec. XII, n. 205.
[22] Per quanto riguarda le vicende di Milano nell’ambito cronologico considerato, avverto una volta per tutte, per non appesantire di citazioni queste note introduttive, che mi gioverà delle notizie raccolte da G. GIULINI, Memorie spettanti alla storia al governo ed alla descrizione della città e campagna di Milano ne’ secoli bassi, III, Milano 1855², pp. 415-781 ; da G. L. BARNI, La lotta contro il Barbarossa, in Storia di Milano della Fondazione Treccani degli Alfieri, IV, Milano 1954, pp. 3-112, e da A. AMBROSIONI, Testimonianze su vicende e consuetudini della canonica di S. Ambrogio nel periodo della prepositura di Satrapa (1162-1178), in Contributi dell’Istituto di Storia Medioevale, II: Raccolta di studi in memoria di S. Mochi Onory, Milano 1972 (Pubblicazioni dell’Università Cattolica del S. Cuore. Contributi, s. 3a, scienze storiche, 15), pp. 19-45. Per le Memorie del Giulini, come per la Storia di Milano, gli indici per argomenti sono prezioso sussidio di orientamento.
[23] Per la carriera di Martino Corbo, v. G. MERCATI, Le «Titulationes» nelle opere dogmatiche di S. Ambrogio, Appendice B: Gli scritti di S. Ambrogio del secolo XII, in Opere minori, I: 1891-1897, Città del Vaticano 1937 (Studi e testi, XXVI), p. 470 anche note 2 e 3.
[24] Per l’episodio del 1123, v. P. ZERBI, La Chiesa ambrosiana di fronte alla Chiesa romana dal 1120 al 1135, «Studi medievali», s. 3a, 4 (1963), pp. 144-153; per quello di venti anni dopo, v., dello stesso autore, Una lettera inedita di Martino Corbo. Note sulla vita ecclesiastica e politica di Milano nel 1143-44, «Studi e materiali di storia delle religioni», 38 (1967) [Studi in onore di A. Pincherle, 2], pp. 704-705.
[25] Per quanto riguarda in modo particolare la prepositura di Satrapa, quando manchi il preciso riferimento ai documenti mi rifaccio, sintetizzandoli, ai risultati ai quali sono arrivata nello studio citato alla nota 9.
[26] Alcune osservazioni su questi contratti in due tempi ho fatto nello studio Testimonianze…, alle pp. 24-25 e alle note relative.
[27] Sulla organizzazione ecclesiastica milanese, v. CATTANEO, Istituzioni…, IV, pp. 651-703.
[28] In proposito, v. P. ZERBI, I monasteri cittadini di Lombardia, in Monasteri in Alta Italia dopo le invasioni saracene e magiare (sec. X-XII). Relazioni e comunicazioni al XXXII Congresso storico subalpino (Pinerolo, 6-9 settembre 1964), Torino 1966, pp. 285-293.
[29] Sul soggiorno delle monache del monastero di Aurona a Bagnolo, v. G. P. BOGNETTI, La condizione giuridica dei cittadini milanesi dopo la distruzione di Milano (1162-1167), «Rivista di storia del diritto italiano», 1 (1928), p. 320.
[30] L’ospedale di S. Ambrogio, ad esempio, nel 1153 aveva tentato, senza successo, di liberarsi dalla tutela del monastero; la sentenza emessa in quella occasione dall’arcivescovo Oberto è edita in G. C. BASCAPÈ, Antichi diplomi degli arcivescovi di Milano e cenni di diplomatica episcopale, Milano-Firenze 1937 (Fontes Ambrosiani, XVIII), pp. 67-69.
[31] v. M. L. CORSI, Note sulla famiglia da Raggio (secoli IX-XIII), in Contributi dell’Istituto di Storia medioevale, I: Raccolta di studi in memoria di Giovanni Soranzo, Milano 1967 (Pubblicazioni dell’Università Cattolica del S. Cuore. Contributi, serie ³, scienze storiche, 10), pp. 166-204; Piccoli proprietari rurali in Garbagnate Marcido: i Veneroni, in Contributi dell’Istituto di Storia Medioevale, II, pp. 687-724; G. ANDENNA, Una famiglia milanese di «cives» proprietari terrieri nella pieve di Cesano Roscone: i Cagapisto, ibid., pp. 641-686; E. OCCHIPINTI, Piccoli proprietari rurali in Garbagnate Marcido: i de Vico, e Una famiglia di rustici proprietari legata alla canonica di S. Ambrogio: i da Trezzano, ibid., pp. 727-744; 747-778; sempre della Occhipinti è in corso di pubblicazione nel III volume dei Contributi, La famiglia milanese degli Ermenulfio. Note relative al secolo XII. V. infine, sugli Scaccabarozzi, L. FASOLA, Una famiglia di sostenitori milanesi di Federico I. Per la storia dei rapporti dell’imperatore con le forze sociali e politiche della Lombardia, «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», 52 (1972), pp. 116-218.
[32] La dott. M. L. Corsi, per esempio, ha iniziato uno studio sugli Oldani (cf. CORSI, Indagini sulla società milanese nei secoli XI-XIII: le famiglie da Baggio e Oldani, in Problemi di Storia religiosa lombarda, Como 1972, pp. 27-29).
[33] Intorno ai rilievi di Porta Romana e al loro significato, v. G. P. BOGNETTI, Introduzione alla storia medioevale della basilica ambrosiana, ora in L’età longobarda, I, Milano 1966, pp. 359-360.
[34] v. l’editto di Federico I, emanato il 6 aprile 1157 in favore dei Giudei del regno teutonico, in MGH, Leges, s. IV: Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, I, ed. L. Weiland, Hannoverae 1893, nr. 163, p. 227.
[35] In proposito, v. G. FRANCESCHINI, La vita sociale e politica nel duecento, in Storia di Milano, IV, Milano 1954, pp. 146-153.
[36] Sulle mura, le porte e le pusterle di Milano, v. G. GIULINI, Delle antiche mura di Milano, in Nel secondo centenario della nascita del conte Giorgio Giulini istoriografo milanese, II, Milano 1916, pp. 1-353. Per quanto riguarda in particolare il borgo di Porta Vercellina e la zona immediatamente circostante, avverto che più avanti, quando manchi il riferimento preciso ai documenti, mi rifaccio ai risultati da me raggiunti nello studio S. Ambrogio alla fine del XII secolo. Contributo alla conoscenza di Milano medioevale, «Archivio storico lombardo», 97 (1970), pp. 159-192. Per tutti gli edifici cittadini fin qui menzionati, v., più innanzi, la Pianta di Milano.
[37] Sulla costruzione dei fossati, v. anche G. BISCARO, Gli antichi navigli milanesi, «Archivio storico lombardo», 35 (1908), pp. 285-326.
[38] Gli altri borghi destinati ad ospitare i Milanesi dopo l’abbandono della città, cioè Lambrate, Vigentino e ‘Carraria’, non sono ricordati nei nostri documenti.
[39] v. quanto dice in proposito A. CALDERINI, Milano archeologica, in Storia di Milano, I, Milano 1953, p. 484.
[40] v. A. PASSERINI, Il territorio insubre nell’età romana, in Storia di Milano, I, p. 161. Per il corso dell’Olona e degli altri fiumi, v. la cartina disegnata dal Poggi (cit. alla nota seguente) e qui riprodotta (Fig. 1).
[41] P. POGGI, Le fognature di Milano. Rapporto dell’Ufficio tecnico all’on. Giunta Municipale su li studi e lavori relativi alla fognatura cittadina dal 1868 al 1910, Milano 1911, pp. 171-174.
[42] La tavoletta, eseguita su rilievo del 1888, è parzialmente aggiornata al 1961.
[43] Il Doc. 71 asseriva infatti che una certa ‘Cassina de Tavernis’ era presso S. Pietro in Sala; nel Doc. 100, si diceva che la stessa ‘Cassina’ era «ultra Vepram». Sul fiume Vepra, v. POGGI, p. 171.
[44] Gli Statuti sono editi da G. PORRO LAMBERTENGHI, in Miscellanea di Storia italiana, VII, Torino 1869, pp. 309-437.
[45] Statuti…, p. 423.
[46] Cf. la tavoletta Bareggio dell’Istituto Geografico Militare, aggiornata al 1937.
[47] Cf., oltre alla tavoletta Bareggio, anche quella Rho, aggiornata al 1937.
[48] Statuti…, p. 423.
[49] E. RIBOLDI, I contadi rurali nel Milanese (sec. IX-XII), «Archivio storico lombardo», 31/1 (1904), 48-49.
[50] Statuti…, p. 423.
[51] Cf. la tavoletta Zibido S. Giacomo dell’Istituto Geografico Militare.
[52] Cf. POGGI, fig. 46.
[53] POGGI, pp. 175-179.
[54] Statuti…, pp. 321-324.
[55] PASSERINI, pp. 144-145.
[56] v. il tentativo di localizzare ‘Garbaniate’ che faremo più avanti.
[57] Statuti…, pp. 349-353.
[58] Statuti…, pp. 353-354.
[59] v. in proposito CORSI, I Veneroni…, pp. 700-701, n. 77.
[60] La Corsi (loc. cit. alla nota precedente), riferendosi al Doc. 110, osserva che una strada diretta tra S. Pietro all’Olmo e Baggio avrebbe dovuto passare per Seguro; e pertanto trova difficilmente spiegabile il riferimento a Quinto, che rimane spostata. La Corsi risolve il problema pensando che il documento in questione rifletta il modo di vedere degli abitanti di ‘Garbaniate’ per i quali il punto fisso di riferimento era la sede dei ‘capitanei de plebe’ cioè Baggio; gli uomini di ‘Garbaniate’ cioè, guardando da quell’osservatorio, enumeravano alcune delle località ritenute più importanti collegate con il loro paese e con Baggio.
[61] CORSI, I Veneroni…, pp. 700-701, n. 77.
[62] v. C. SANTORO, Garbagnate Marcido, ora in Scritti rari e inediti, Milano 1969, p. 161.
[63] Cf. Statuti…, pp. 349-353.
[64] SANTORO, Garbagnate…, pp. 157-162; CORSI, I Veneroni…, pp. 699-703.
[65] Nel primo dei due documenti citati si nomina un campo di ‘Garbaniate’ che confina a nord con un ‘pratus longus’; nel secondo la località ‘pratus longus’ viene detta nel territorio di Settimo.
[66] Questa osservazione è della CORSI, I Veneroni…, p. 702.
[67] Cf. H. BOSSHARD, Saggio di un glossario dell’antico lombardo, Firenze 1938 (Biblioteca dell’Archivum Romanicum, s. II, vol. 23), pp. 92-94. Questa parola e le seguenti sono anche comprese nell’indice delle cose notevoli.
[68] BOSSHARD, p. 168.
[69] BOSSHARD, pp. 254-256; ed anche V. FUMAGALLI, Note per una storia agraria altomedioevale, «Studi medievali», 3a s., 9 (1968), p. 374.
[70] BOSSHARD, p. 270.
[71] Su tutti questi punti, v. P. S. LEICHT, Storia del diritto italiano. Il diritto privato, I: Diritto delle persone e di famiglia, pp. 95-99; 139-140; 152-155.
[72] C. DU CANGE, Glossarium mediae et infimae latinitatis, editio nova aucta a L. Favre, Niort 1883, alla voce faderfium; v. anche la voce faderfio del Grande Dizionario della lingua italiana, a cura di S. Battaglia, V, Torino 1968.
[73] Su tutti i problemi inerenti al faderfio, v. LEICHT, Le persone, pp. 194-195.
[74] A questo proposito, v. LEICHT, Le persone, pp. 190-192; 194-199.
[75] Sui minorenni, v. LEICHT, Le persone, pp. 90-92; 241-242; 244.
[76] La ‘guadia’ o ‘wadia’, era una promessa sostenuta da fideiussori; colui che prometteva consegnava una festuca a colui che riceveva la promessa, e questo passaggio era simbolo dell’obbligazione che univa il primo al secondo; colui che aveva dato ‘guadia’ doveva poi presentare dei fideiussori, i quali a loro volta ricevevano la festuca: si stabiliva così un vincolo anche tra i fideiussori e colui che aveva ricevuto la promessa, da una parte, e tra gli stessi fideiussori e colui che prometteva dall’altra (LEICHT, Storia…, III: Le obbligazioni, pp. 3-6).
[77] LEICHT, Le persone, pp. 241-242.
[78] CORSI, Note, p. 196. Un altro caso particolare di avvocazia ereditaria è costituito dagli avvocati dell’arcivescovo di Milano [v. G. BISCARO, Gli avvocati dell’arcivescovo di Milano nei secoli XI e XII, «Archivio storico lombardo», 33/1 (1906), pp. 5-29; e cf. anche, in questo volume, Appendice II, 2].
[79] LEICHT, Le obbligazioni, p. 103; F. CALASSO, Medioevo del diritto, I, Milano 1954, p. 187.
[80] Cf. P. VACCARI, La territorialità come base dell’ordinamento giuridico del contado, Pavia 1921, p. 85.
[81] DU CANGE, alla voce.
[82] DU CANGE, alla voce brenna, brennium.
[83] J. P. NIERMEYER, Mediae Latinitatis Lexicon Minus, fasc. v, LEIDEN s.d., alla voce.
[84] DU CANGE, alle voci comandisia, comandiscia, commendisia.
[85] DU CANGE, alle voci feudum legale, feudum antiquum.
[86] Cf. R. BOUTRUCHE, Signoria e feudalesimo. Ordinamento curtense e clientele vassallatiche, trad. it. di M. Sanfilippo, Bologna 1971 (Nuova collana storica), p. 209.
[87] E. FORCELLINI-F. CORRADINI-G. PERIN, Lexicon totius latinitatis, Patavii 1935, alla voce evictio.
[88] M. STRADA, La zecca di Milano e le sue monete, Milano 1930 (I libri della famiglia meneghina, 13), pp. 16-17,32,35-36.
[89] GIULINI, Memorie, II, pp. 34-35; 51-52; III, pp. 327, 516, 551, 578.
[90] C’è infatti qualche ricerca condotta con criteri scientifici, ma riguarda solo periodi posteriori a quello esaminato nel presente volume. Per l’età viscontea e sforzesca, v ., ad esempio, G. BELLONI, Problemi circa la monetazione della zecca di Milano al tempo dei Visconti e degli Sforza. Premesse ad un catalogo, «Aevum», 41 (1967), pp. 425-451.
[91] D. HERLIHY, Treasure hoards in the italian Economy, 960-1139, «The Economic History Review», 2a s., 10 (1957-1958), pp. 1-14.
[92] Poiché il Giulini è arrivato a stabilire una equivalenza, su basi che sembrerebbero attendibili, tra la moneta milanese medioevale e quella dei tempi suoi, può venire la tentazione di cercare di andare oltre per giungere a stabilire un rapporto anche tra la moneta del Giulini e la nostra. Gli strumenti, a dire il vero, non mancano: A. MARTINI (Manuale di metrologia, ossia misure, pesi e monete in uso attualmente presso tutti i popoli, Torino 1883) ha infatti definito una equivalenza tra le principali monete del medioevo e dell’età moderna e la lira italiana del 1883. Recentemente poi sono stati pubblicati coefficienti con riferimento agli indici del costo della vita, che rendono possibile tradurre le lire correnti del 1883 in lire italiane del 1970 (Annuario statistico italiano, Roma 1971, p. 307). Dal 1970 al 1972 il passaggio è fatto utilizzando gli indici medi dei prezzi riportati nel «Bollettino mensile di statistica», 48 (1973), nr. 8. Almeno in teoria sembrerebbe quindi possibile passare dal valore della lira medievale ai giorni nostri, attraverso alcuni punti di riferimento intermedi. In realtà, però, tale procedimento si appoggia su dati che non sono omogenei: il rapporto stabilito dal Giulini tra la sua lira e quella del medioevo, infatti, si basava essenzialmente sul valore della terra; gli indici del Martini si riferiscono, forse, al valore dell’oro, i dati più recenti infine, considerano il costo della vita. I risultati che si ottengono usando promiscuamente gli elementi ricavati utilizzando questi tre criteri insieme, quindi, non possono che essere falsati in partenza. Per di più, secondo che si tenga conto del rapporto stabilito dal Giulini fino al 1750 circa, e poi dei sussidi offerti dal Martini e dall’Istituto Centrale di Statistica, o invece dei dati del solo Martini, sempre con l’aggiornamento sopra indicato, per una qualsiasi delle operazioni finanziarie registrate nei nostri documenti, per esempio per l’acquisto contenuto nel Doc. 62, si arriva a risultati diversi. Nel primo caso, infatti, si raggiunge una cifra di lire italiane 315.315, nel secondo caso, invece, si otterrebbe un risultato di sole 27.610 lire italiane. Da questo esempio risulta evidente quanto incida il diverso criterio adottato dal Giulini e dal Martini sul risultato totale. Un altro esempio può servire a chiarire come anche il Martini si muova su di un piano che non è quello dell’Istituto Centrale di Statistica, e come quindi anche i risultati che si ottengono escludendo il Giulini, abbiano poco valore. Ci soccorre un documento citato da C. M. CIPOLLA [Moneta e civiltà mediterranea, Venezia 1957 (Studi Politici, 4), pp. 74-75], dal quale risulta che nel 1376 il costo della vita a Pavia era di 20 fiorini annui. Poiché il fiorino, del peso di 3,5 grammi in oro, corrispondeva a 32 soldi, il valore del fiorino riportato al 1883 sarebbe di 7,58 lire italiane; ma poiché una lira italiana di allora corrisponde a 551 lire italiane del 1972, ne deriva che i 20 fiorini del 1376, sufficienti allora ad una persona di media estrazione per mangiare e vestirsi un anno, corrispondono a 83.540 lire di oggi. E evidente che tale risultato non si avvicina neppure lontanamente alla realtà, e ricevono quindi conferma i rilievi formulati dal Cipolla nello studio teste citato (pp. 82-90), nel quale non solo nega la possibilità di tradurre in termini attuali i prezzi di altri tempi, ma va oltre, e critica anche le altre soluzioni adottate dagli storici nella scelta di unità di valore in cui esprimere serie di prezzi: tra l’altro neppure il sistema di trasformare il valore della moneta del passato in grammi d’oro è esente da rischi, in quanto, nel medioevo, il potere di acquisto dell’oro era molto più alto di oggi, cosicché le cifre espresse in grammi d’oro non danno un’idea precisa del valore economico dei vari beni, ma tendono a sottovalutarlo. A maggior ragione questi rilievi servono per l’epoca da noi studiata, in quanto, in quegli anni, non esisteva ancora monetazione aurea, e la moneta in circolazione era una lega d’argento. Il problema potrebbe essere risolto, dunque, solo unificando i criteri di valutazione, possibilmente in base al costo della vita. E questo tuttavia un lavoro difficilissimo da compiere per la scarsità di dati sicuri e significativi offerti dai documenti medioevali, e pertanto di esito assai dubbio.