comune del territorio e del contado di Como sec. XVI - 1757
Nell’ultima fase di sviluppo dell’ordinamento comunale della città di Como, i diritti che la città lariana esercitava sulle pievi comprese nel suo territorio erano rappresentati dal diritto di approvazione e conferma degli statuti delle singole comunità, il diritto di riscossione del fodro, l’istruzione delle cause in materia finanziaria, la giurisdizione esclusiva in materia criminale.
Nel formulario notarile tra XI e XII secolo, il termine pieve aveva assunto il significato di circoscrizione territorale civile, ossia un distretto del vescovado.
L’ordinamento del territorio comasco nell’epoca comunale e quale ci appare dagli statuti di Como nelle edizioni del XIII secolo è quello di una vasta aggregazione di pievi e di terre, in cui le varie forme del comune rurale si erano già affermate saldamente (Prosdocimi 1939).
Per la nascita del fenomeno comunale, nei termini particolari dell’epoca medioevale, furono necessarie varie componenti, di cui l’elemento territoriale, unitario o frazionato, fu appunto la pieve, a cui si aggiunsero altri elementi: economici, sociali e politici. Elemento catalizzatore fu senz’altro la comunione attiva di interessi che si creò fra tutti coloro che, rustici e nobiles, erano (a diverso titolo e in varie misure) soggetti a un determinato signore, e che per presentare le proprie rivendicazioni di diritti avevano bisogno di esprimere una rappresentanza comune, unica o distinta in rusticana e nobiliare (Coradazzi 1980).
Gli ordinamenti giuridici vigenti nelle comunità comasche furono, per tutto il periodo medioevale e fino alla fine dell’epoca moderna, articolati su più livelli. Al livello più basso stavano gli statuti e gli ordini delle singole comunità, che regolavano in particolar modo le attività economiche, tra le quali spazio preponderante avevano quelle agricole, forestali e pastorali. Tali ordinamenti prevedevano in taluni casi le modalità di scelta degli amministratori e degli incaricati di comunità; davano disposizioni dettagliate circa il godimento dei beni comuni, per evitare abusi o sopraffazioni; stabilivano i doveri comunitari e le modalità di regolamentazione dei rapporti tra i singoli e i gruppi all’interno della comunità; stabilivano infine quali fossero le violazioni e come dovessero essere sanzionate. Non vi era, a questo livello, nessuna articolazione per materia e gli statuti di comunità prevedevano, spesso alla rinfusa, norme eterogenee in materia civile, penale, amministrativa. Essi erano costituiti, in sintesi, da un lungo elenco, spesso stratificatosi in modo disordinato lungo un arco di secoli, dei doveri e dei divieti imposti ai membri della comunità, con le sanzioni per i trasgressori. Si trattava, in ogni caso, di violazioni equiparabili a trasgressioni di carattere amministrativo. Tali statuti erano in genere di diretta emanazione popolare, tramite assemblee plenarie dei membri delle comunità. A livello delle singole comunità, era il decano o console che, presiedendo l’assemblea dei vicini e curando gli interessi materiali della comunità, fungeva da amministratore della bassa giurisdizione, facendo osservare gli ordinamenti locali.
Al di sopra degli ordinamenti locali vigevano gli statuti di Como, che riconoscevano formalmente alle singole comunità la nomina di consoli, podestà e capitani, anche se il capoluogo lariano esprimeva la propria egemonia proprio inviando d’autorità giusdicenti in vari luoghi del territorio.
Con l’ingresso stabile del distretto comasco nello stato visconteo, l’esercizio delle funzioni fondamentali di governo, cioè la giurisdizione (comprendente non solo il diritto di rendere giustizia, ma anche di riscuotere multe e ammende), i poteri militari, i poteri finanziari (che si concretizzavano nell’esazione dei tributi diretti e indiretti) passarono al signore di Milano (Aureggi 1958).
Il successivo inserimento stabile dello stato milanese nei domini absburgici comportò nei fatti la sostanziale continuità del sistema amministrativo nelle singole comunità così come era stato ereditato dal periodo tardomedioevale, a fronte, invece, del ridimensionamento territoriale subito dalla provincia comasca tra XV e XVI secolo e della sua sempre più marcata tripartizione tra città e territorio di Como, contado e valle Intelvi, frutto della maturazione di interessi contrastanti e della ricerca di maggiore equilibrio nella politica fiscale.
Nella provincia comasca dell’epoca moderna si assistette alla contemporanea presenza e complementarietà di legislazione principesca, comune a più parti del dominio, e legislazione statutaria, con gli elementi di particolarismo che tale legislazione comportava.
Osteno e Cima, sul lago di Lugano, e Calpuno, compreso nella pieve d’Incino, che vantava la totale esenzione dai carichi in quanto composto soltanto da terreni esenti di proprietà ecclesiastica, erano terre separate della provincia comasca. A queste aree di “giurisdizione speciale” si aggiungevano inoltre alcuni borghi o villaggi che si differenziavano per particolari privilegi o immunità gelosamente difesi nel corso dei secoli. Se nelle comunità dell’immediato entroterra comasco lo spessore economico e demografico delle comunità fu sempre assai esiguo e conseguentemente non permise mai l’affermazione di forti tradizioni di autonomia amministrativa, diverso fu il caso delle comunità di valle. Nelle zone montuose, infatti, le comunità erano organizzate fin da alta epoca in strutture politico-amministrative articolate, dotate di autonomia fiscale e di poteri giurisdizionali, potendo contare su un podestà o pretore di valle. Generalmente l’organizzazione della comunità di valle (comunità pievana) si basava sull’esistenza di statuti unici e di un consiglio generale costituito da rappresentanti di tutti i comuni che la componevano. Le sedute del consiglio si tenevano alla presenza del cancelliere di valle nel territorio del comune dove aveva sede il giusdicente. Per i rapporti con la città e gli organi centrali dello stato, la valle disponeva in genere anche di un proprio procuratore.
In ciascun comune della valle, il potere civile e politico era rappresentato dal console mentre quello amministrativo ed esecutivo dal sindaco; le questioni di competenza delle singole comunità venivano discusse e deliberate dal consiglio di comunità, alle cui sedute erano obbligati a intervenire tutti i capi di famiglia.
L’organizzazione amministrativa delle comunità che componevano il territorio e il contado comasco consolidatasi nel corso dei secoli secondo le tradizionali norme sancite dalle consuetudini e raccolte in alcuni casi negli statuti locali (Arosio, Castelmarte, Gravedona, Verna) , può essere ricostruita attraverso la documentazione raccolta in occasione delle operazioni censuarie iniziate nel secolo XVIII da Carlo VI e terminate in età teresiana. Particolarmente utili sotto questo aspetto risultano le “risposte ai 45 quesiti” fornite dai cancellieri delle comunità alla giunta del censimento, nelle quali l’organizzazione comunitaria appare strettamente intrecciata al sistema fiscale e trova la propria ragione d’essere nella compatibilità con il tortuoso e articolato sistema di ripartizione ed esazione delle imposte.
Alla metà del XVIII secolo, epoca di rilevazione dei 45 quesiti, caratteristica della vita locale era la spiccata autonomia. Comuni, spesso costituiti da agglomerati di poche case, e cascine si amministravano separatamente e pagavano separatamente la loro quota fiscale. Tra gli apparati amministrativi di ogni comunità, l’organo deliberativo era l’assemblea dei capi di casa, denominata anche consiglio generale o convocato, riunita in via ordinaria almeno una volta all’anno, solitamente in un giorno di festa, nella pubblica piazza o, se esistente, nella casa comunale, dopo il suono della campana e l’avviso fatto recapitare agli interessati dal console. Prerogativa dell’assemblea generale era l’approvazione dei bilanci, la ripartizione degli oneri, il rinnovo delle cariche comunitarie. Riunioni “straordinarie” erano invece indette per discutere problemi di particolare rilevanza o per far fronte a situazioni inaspettate e imprevedibili, provocate da calamità naturali, dalla guerra, dall’alloggiamento di eserciti, o ancora quando si trattava di approvare ulteriori aggravi finanziari o di prendere decisioni che incidevano sul patrimonio pubblico.
È verosimile ritenere anche nelle infime comunità, quelle cioè prive di una vera e propria vita amministrativa, si riunissero una volta all’anno i “capi di casa” insieme agli ufficiali comunali per l’approvazione dei “riparti” relativi a spese e taglie.
Al consiglio particolare o consiglio ristretto in seno alle comunità erano demandate sia funzioni deliberative sia tutte le competenze di carattere esecutivo.
Per l’ordinaria gestione della vita quotidiana di ogni singola comunità prestavano servizio i consoli. Nominati “a pubblico incanto” o secondo un ruolino di turni, i consoli ricevevano una modestissima remunerazione per svolgere compiti di polizia locale, presenziare agli arresti, notificare le confische di beni, sporgere le denunce per i reati che venivano commessi nei territori del comune. Tali denunce dovevano essere presentate al “maior magistratus” cui la comunità era giurisdizionalmente subordinata e di fronte al quale il console era tenuto, di norma ogni anno, a prestare giuramento. Presso la “banca criminale” del giudice (podestà) il console prometteva di impegnarsi a svolgere le proprie mansioni con diligenza e scrupolosa applicazione delle norme e degli statuti. Nell’occasione la comunità corrispondeva al giusdicente una modesta somma (Superti Furga 1995).
Molte terre e borghi nominavano anche dei sindaci ai quali erano demandate per lo più funzioni di carattere esecutivo o di controllo amministrativo.
Cancelliere ed esattore, a volte camparo e fante, erano le cariche che completavano l’apparato comunale.
Generalmente al cancelliere spettava il compito di tenere in ordine i libri dei riparti delle imposte, i libri del bilancio comunale e tutte le pubbliche scritture. Spesso il cancelliere operava in più comunità e riceveva da ognuna uno stipendio proporzionato alle incombenze e alla mole di lavoro che doveva svolgere.
In caso di necessità la difesa degli interessi della comunità era demandata a procuratori speciali, scelti tra gli esponenti più rappresentativi della realtà locale.
Unica persona legalmente riconosciuta per la riscossione delle imposte era infine l’esattore, nominato generalmente ogni triennio. Nel momento stesso della nomina, che solitamente avveniva per asta pubblica, esattore e comunità fissavano, oralmente o per iscritto, “i patti di convenzione” che stabilivano la scadenza dei pagamenti, l’interesse sulle somme, l’onorario. L’esattore aveva l’obbligo di pagare, entro la data prefissata e senza possibilità di dilazione, le imposte dovute usando del capitale proprio; in seguito doveva provvedere alla riscossione sulla base dei riparti che gli venivano consegnati dalla comunità presso cui prestava servizio. Doveva innanzitutto esigere dai singoli contribuenti la quota corrispondente ai carichi regi e provinciali; in secondo luogo, provvedere alla esazione dei tributi per le spese locali. Per le somme che non riusciva a riscuotere l’esattore aveva la facoltà di “retrodare, ossia di imporre di nuovo la prima esazione sopra i paganti e contribuenti” (Risposte ai 45 quesiti, 1751).
ultima modifica: 12/06/2006
[ Saverio Almini ]
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