comune del ducato di Mantova sec. XIV - 1784
La descrizione del processo di organizzazione delle comunità mantovane risulta difficoltosa per la relativa esiguità delle fonti bibliografiche e per la dispersione di quelle archivistiche. La scarsità della documentazione disponibile su magistrature comunali, corporazioni, popolazione, e vita cittadina della capitale ducale e sulle stesse comunità rurali sono dovute a varie circostanze sfavorevoli. Si ricordano qui almeno la perdita dell’archivio del comune di Mantova, distrutto nel 1413 da un disastroso incendio, il grave episodio del sacco della città operato dalle armate imperiali nel 1630, e, da ultimo, le significative perdite causate all’archivio Gonzaga dagli opinabili interventi di scarto nel XIX secolo. A tali circostanze si deve aggiungere anche l’assenza di uno specifico apporto in sede locale degli studi eruditi settecenteschi, che altrove hanno prodotto insigni monumenti (Vaini 1986 b).
La definizione di un profilo istituzionale generale del comune rurale mantovano in epoca moderna si presenta quanto mai problematica. Gli stessi profili particolari riferiti alle singole comunità segnalano la presenza di un insieme di forme amministrative estremamente variegato. La disomogeneità che le forme di amministrazione assumevano a livello locale e periferico viene confermata anche dalla fonte più ampiamente utilizzata nella presente ricerca, costituita dalle risposte ai 47 quesiti diramati ai cancellieri delle comunità dalla regia giunta del censimento di Mantova, redatte tra il 1772 e il 1777. Si tratta, evidentemente, di una fonte molto tarda rispetto al periodo in esame, che sembra tuttavia confermare la relativa debolezza dell’amministrazione centrale dello stato gonzaghesco (Risposte ai 47 quesiti, 1772-1777).
Se le prime notizie circa la presenza di sindaci, consoli e altri uffici comunitativi si ricavano da atti pubblici del secolo XII, è dalla fine del secolo XIII e dal successivo che ci sono pervenuti i più antichi statuti per il territorio mantovano, come quelli di Cicognara (1275), Viadana (1351), Sermide (1353), seguiti nel secolo XV dagli statuti emanati da Alessandro Gonzaga, e perciò detti alessandrini, cui erano soggetti Castel Goffredo, Castiglione delle Stiviere, Medole, Solferino, Canneto, Redondesco con le loro giurisdizioni, e dagli statuti promulgati da Francesco e Gianfrancesco Gonzaga (1483), cui erano soggetti Rivarolo, Sabbioneta, Dosolo, Rodigo, Gazzuolo, Isola Dovarese. Per Mantova vi sono gli statuti bonacolsini degli anni dieci del XIV secolo seguiti da quelli gonzagheschi del 1404.
Gli statuti, che sono la fonte legislativa primaria su cui si basava l’amministrazione del comune di antico regime, erano il terreno di confronto tra la volontà e la capacità di governo del principe e la possibilità della comunità di conservare una propria identità, se non una propria autonomia (Tocci 1993; Tocci 1989). Gli statuti definivano in genere la struttura e l’organizzazione delle comunità, specificando i ruoli e le funzioni degli organi e degli uffici, oltre a dettare norme per la disciplina della vita giuridica e amministrativa.
Il perno della vita amministrativa comunale era costituito dall’assemblea dei capi famiglia del comune, denominata consiglio generale, vicinia, vicinia generale o arengo. In genere tale organo era formato da tutti i capi famiglia originari, o “terrieri” del comune, anche se talvolta il numero dei suoi membri era stabilito da norme locali (Acquanegra) ovvero erano di nomina signorile (Viadana e Sabbioneta). Dalle risposte ai 47 quesiti della regia giunta del censimento di Mantova, risulta che in alcuni comuni non vi fosse una vicinia, ma solo un consiglio, nominato dal magistrato camerale di Mantova (Commessaggio, Pomponesco, Rivarolo). Il periodo consueto per la convocazione ordinaria dell’assemblea era fissato nei primi giorni o negli ultimi dell’anno, anche se vi erano casi di adunanze che si tenevano abitualmente nei mesi di aprile, maggio o giugno (Castellucchio, Governolo, Bigarello, Roncoferraro). La convocazione era stabilita secondo il cerimoniale consueto, in genere “a sono di campana e in poi a voce di ministeriale” (Castel Goffredo).
La vicinia era presieduta da un rappresentante del signore (vicario, commissario, podestà o pretore, vicegerente o loro luogotenenti) e i verbali delle deliberazioni erano redatti in appositi registri a cura di un cancelliere comunale. La vicinia deliberava talvolta a maggioranza semplice, talvolta a maggioranza qualificata in merito agli aspetti più importanti della vita della comunità, sulla base in determinati casi di una “lista delle voci” predisposta dal cancelliere (Castiglione delle Stiviere, Medole). La vicinia esaminava il rendiconto degli amministratori in scadenza, definiva il carico delle imposte per il nuovo anno, nominava gli organi collegiali per “l’amministrazione diurna” della comunità, eleggeva i principali magistrati comunali; in diversi casi tuttavia la nomina di questi funzionari era di competenza del consiglio ristretto.
L’amministrazione ordinaria della vita della comunità era demandata ad altri organi collegiali e assembleari, variamente denominati come consiglio, consiglio particolare, consiglio speciale, consulta, consolato, consiglio grosso, consiglio del governo, consiglio di governo con l’aggiunta, reggenza, rappresentanza.
Questi consigli, presieduti da rappresentanti del signore nei comuni più importanti, si convocavano più volte durante l’anno (a esempio una o due volte al mese a Canneto, una volta alla settimana a Castiglione, Medole, Castel Goffredo) e si occupavano dell’amministrazione “diurna” della comunità e del controllo sulla legalità dei pubblici riparti. Nel caso in cui in un comune vi fossero più consigli (Guidizzolo, Medole, Castiglione delle Stiviere, Bozzolo) al consiglio ristretto erano demandati compiti ordinari, mentre quello allargato si occupava di affari straordinari, quali l’imposizione di tasse straordinarie, la costruzione di “fabbriche pubbliche” e di nuove strade, l’istituzione di nuovi “ufficiali”, la gestione di controversie. La nomina dei membri dei consigli ristretti, di competenza delle vicinie, seguiva le consuetudini più diverse, e attuava complesse procedure, finalizzate a consentire una rappresentanza di ogni singolo “colonnello” della comunità (Quistello, Gonzaga, Revere, Curtatone) e a garantire la continuità di governo, con la conferma di alcuni membri del consiglio in scadenza, “per essere informati degli affari comunitativi e così rendere intesi anche li novi”, ovvero “per instruire i nuovi, avvertendo però di non confirmare l’istesso più di una volta immediatamente” (Casalromano, Castiglione delle Stiviere).
Componevano i consigli ristretti i reggenti, i ragionati, i deputati, i consoli, gli uomini di governo, che erano scelti in base alla loro appartenenza ai diversi “ordini” costituiti in base all’estimo (Monzambano, Castiglione delle Stiviere, Medole), in altri casi alla loro condizione di “civili” o “rustici” (Bozzolo, Commessaggio) in altri casi ancora per “ceto, cioè di civili, mercanti, artisti e rustici” (Ostiglia).
La durata del mandato dei membri dei consigli era generalmente di un anno, anche se non mancavano casi in cui il mandato era pluriennale “quando non si possa far a meno per la scarzezza de’ soggetti”. Gli eletti si alternavano alla guida della comunità, secondo turni che variavano da comune a comune. I membri dei consigli dovevano dare esecuzione alle deliberazioni degli organi consigliari, invigilando “all’amministrazione quotidiana del comune e al quieto vivere”.
L’amministrazione contabile della comunità era di competenza del massaro, che doveva esigere le imposte sia comunali che regie, secondo quanto stabilito in “quinternelli” o “bollettoni”, redatti dal cancelliere o dai reggenti, e liquidare i mandati di pagamento emessi dai reggenti o deputati a saldo delle spese comunitative; la sua carica era spesso messa all’asta al miglior offerente, dietro presentazione di “idonea sigurtà” a garanzia del suo operato. In taluni casi il massaro doveva esibire mensilmente il “libro d’esazione” ai reggenti e deputati della comunità, mentre in genere era tenuto a presentare annualmente il “bilancio generale de’ conti”, dai quali si rilevava “lo stato attivo e passivo del scaduto anno”. Nei comuni più piccoli doveva aver cura anche dell’archivio comunitativo. Potevano affiancare il massaro dei “massari” con particolari funzioni, come la soprintendenza alla macina e l’amministrazione delle granaglie.
Il cancelliere della comunità aveva invece il compito di redarre gli atti comunitativi. Doveva infatti rogare le deliberazioni dei consigli, ai quali doveva assistere, predisponendo in alcuni casi la “lista delle voci”, da sottoporre alla discussione, stendere i “quinternelli” delle imposte, stilare le liste delle accuse fatte dai responsabili dell’ordine pubblico (campari ). Nei comuni più grandi aveva generalmente la cura dell’archivio della comunità.
Spesso nei comuni vi erano altri funzionari fra cui i dugalieri, che controllavano lo stato delle strade, corsi d’acqua, ponti e chiaviche; i campari, preposti alla sorveglianza delle campagne; gli estimatori. A rappresentare gli interessi legali della comunità nella stipula di atti notarili e nelle cause erano nominati dei procuratori, denominati talvolta sindaci. Vi erano poi i ministeriali che bandivano gli ordini e le gride, e altri deputati eletti sovente secondo necessità come i deputati alla sanità, i deputati alla speziaria, i deputati alle vettovaglie.
Circa i beni patrimoniali posseduti dalle comunità, presenti soprattutto nelle terre del “mantovano nuovo”, consistevano generalmente nell’osteria, nel mulino, in qualche fondo agricolo e in qualche diritto come quello sulla vendita del vino, che producevano una rendita quasi sempre esigua (Mori 1998).
Il controllo sulle attività delle comunità fino al 1750 era di competenza del senato di giustizia, che deteneva la funzione “tutoria” su di esse, dovendo ricevere la resa dei conti di massari e deputati, e sovrintendere alla formazione dell’estimo e dei preventivi di spesa. Dopo l’attuazione del nuovo piano di riforma dei tribunali e uffici della città e del ducato di Mantova (Piano tribunali città e Ducato di Mantova, 1750), il controllo venne attribuito al magistrato camerale, anche se tale funzione si riduceva essenzialmente alla sola convocazione delle “vicinie” annuali, e non alla verifica dei bilanci comunali. Una funzione di supervisione sulle comunità era ancora svolta dal supremo tribunale giudiziario, dal 1750 supremo consiglio di giustizia, centro dell’unica rete omogenea di cui la regia amministrazione disponeva, quella dei pretori forensi. Un altro elemento di raccordo fra autorità regia e amministrazioni locali era costituito dall’ufficio delle contribuzioni, il quale, avvalendosi dei pretori, teneva sotto pressione le comunità affinché provvedessero a versare i contributi assegnati alla cassa militare (Mori 1998). Questa organizzazione dell’amministrazione locale mantovana, che si mantenne inalterata fino agli anni settanta del XVIII secolo, era caratterizzata essenzialmente da due aspetti interconnessi: la varietà delle forme organizzative e degli assetti finanziari e l’assenza di meccanismi di controllo dall’esterno sulla contabilità e sulla gestione finanziaria comunitativa (Mori 1998).
La riforma giuseppina delle istituzioni locali attuata nel 1784 fu preannunciata da disposizioni particolari che mutavano profondamente l’assetto istituzionale e organizzativo di talune comunità (Castel Goffredo, Revere, Viadana, Goito), utilizzando le strutture esistenti e puntando in particolare sulla valorizzazione del ruolo delle preture. Nel 1774, a esempio, vennero emanate nuove norme relative alle competenze della vicinia di Castel Goffredo, che veniva uniformata all’uso del “mantovano vecchio”; nelle norme venivano stabilite nuove modalità per distribuire ai reggenti “le incombenze comunitative”, ed erano precisate le incombenze contabili del ragionato e del massaro. I risultati degli interventi parziali di riforma tardarono però a manifestarsi nonostante ulteriori provvedimenti. Nel 1784, infine, anche nel mantovano venne introdotta una radicale riforma delle amministrazioni locali seguendo il modello già collaudato nelle altre province della Lombardia austriaca (Mori 1998).
ultima modifica: 12/06/2006
[ Saverio Almini ]
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