giudice al maleficio 1428 - 1797
La competenza del giudice al maleficio e del podestà si estendeva su qualunque “delictis ex quibus poena sanguinis”. In tali casi, podestà e giudice potevano “inquirere et per officium procedere praecedentibus tamen indiciis legitimis prius de illis data copia parti requirenti”.
D’ufficio, tuttavia, non si poteva procedere nei casi di percosse del marito sulla moglie, anche nel caso di morte di questa o di “debilitatio membri”.
Esclusi i casi di flagranza, l’accusato-denunciato-querelato non poteva essere sottoposto a rito inquisitorio. Il giudice, inoltre, non poteva procedere col rito inquisitorio se non aveva prima proceduto alla citazione del sospetto reo. Questo, avvisato, sarebbe dovuto comparire entro venti giorni continui. Passato tale termine, il giudice avrebbe dovuto dare dieci giorni al reo, o al suo legale, per presentare documentazione a sua difesa. Passato anche tale termine, il giudice doveva emettere la propria sentenza. Era ammessa la tortura (tormentis), nei seguenti casi: eresia, bestemmia, sodomia, omicidio, adulterio, stupro, avvelenamento, “privati carceris”, “falsitatis”, “scachi seu robarie”, furto, incendio, rapimento di donne, “redemptionis seu tributationis”.
Le sentenze criminali non potevano essere appellate, né in Bergamo né a Venezia.
Quando il giudice al maleficio lasciava il suo ufficio doveva portare con sé i registri delle condanne e chiuderli in una cassa nella sua camera.
ultima modifica: 19/01/2005
[ Fabio Luini, Cooperativa Archimedia - Bergamo ]
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