diocesi di Lodi sec. IV - [1989]
La prima comunità cristiana del lodigiano si sviluppò presumibilmente a partire dal IV secolo dopo Cristo nel municipium di Laus Pompeia, nella regio IX augusta (Transpadana). La prima notizia della possibile esistenza di una comunità cristiana laudense è ricavabile dall’episodio del martirio di Nabore, Felice e Vittore, soldati cristiani di stanza a Milano condannati a morte dall’imperatore Massimiano. L’esecuzione a Laus Pompeia aveva probabilmente un valore intimidatorio verso la locale comunità cristiana. Tuttavia, non è ancora possibile parlare a quest’epoca di chiesa lodigiana, poiché i corpi dei tre martiri furono traslati a Milano.
È sant’Ambrogio a darci il nome del primo vescovo di Lodi, Bassiano, che resse la diocesi dal 19 gennaio 374 all’8 febbraio del 409, dunque per 35 anni, morendo ormai novantenne. La data della nomina di Bassiano esclude che a fondare la diocesi laudense sia stato sant’Ambrogio, che fu ordinato vescovo quasi un anno dopo. Bassiano fu però prezioso alleato di Ambrogio, di cui fu amico, nella lotta contro l’eresia ariana.
Lo sviluppo della chiesa lodigiana nei secoli del tardo impero e delle invasioni barbariche fu continuo. Neanche i longobardi interruppero la serie dei vescovi e la loro attività. Nella città capoluogo e anche negli altri insediamenti sorsero numerose chiese battesimali. Nell’832 sorse il primo insediamento benedettino a Laus, nella canonica preesistente di San Pietro costruita fuori mura a Porta milanese. Un secolo prima erano comparsi i primi insediamenti monastici femminili. Con la dominazione franca, anche la chiesa laudense si feudalizzò: il vescovo Andrea, senza ricevere il titolo comitale, ottenne tali benefici e concessioni da diventare quasi un funzionario regio.
La crescente ricchezza del vescovado lodigiano, il fatto che controllasse un territorio fertile e produttivo e vie d’acqua di grande importanza scatenarono le mire di Milano e del suo vescovo e signore Ariberto d’Intimiano. Dopo aver comprato possedimenti nell’agro lodigiano, che poi cedette per testamento a chiese, monasteri e ospedali di Milano, ottenne da Corrado II il diritto di investire temporalmente il vescovo di Laus, che così venne a dipendere da lui non solo perché suffraganeo del metropolita di Milano, ma anche in qualità di feudatario. Ariberto impose subito la sua facoltà, nominando vescovo un Ambrogio e imponendolo manu militari ai lodigiani.
In questo periodo risaltò soprattutto la figura di Obizzo (1059-1083), riformatore e moralizzatore di una chiesa lodigiana gravemente colpita dalla simonia e dal concubinaggio. Per la verità, l’opera di Obizzo in questa direzione non fu particolarmente determinata né efficace, ma la posizione del vescovo era chiara e inequivoca e lealmente favorevole alla riforma ecclesiale avviata dall’ordine benedettino e dai laici più sensibili.
Intanto, si cominciava a definire l’organizzazione pievana della diocesi, e comparve anche nel Lodigiano il movimento patarinico.
All’inizio del secolo XII la figura di Arderico I da Vignate segnò la storia laudense. Il vescovo partecipò ai sinodi di Milano e Roma, in difesa dell’arcivescovo Grosolano, contro il pataro Liutprando. Ma questo troppo stretto legame con Milano provocò un’insurrezione che lo costrinse all’esilio. I milanesi risposero con l’assedio e la distruzione di Laus nel 1111. A questa distruzione ne seguì un’altra nell’aprile del 1158, nonostante la resistenza del nuovo vescovo Lanfranco e i suoi estremi tentativi di mediazione. La città fu rasa al suolo, i suoi abitanti deportati e persino gli edifici sacri distrutti. Quando Federico Barbarossa sul principio dell’estate si presentò ai limiti del Lodigiano, a Salerano al Lambro, il vescovo e i maggiorenti della città lo supplicarono di consentire loro una rifondazione in luogo più sicuro. Il 3 agosto 1158, sul monte Eghezzone, sulla riva destra dell’Adda, Federico investì i consoli della nuova città.
Furono trasferiti nella nuova Lodi la cattedrale, il vescovado e la curia, le chiese principali con gli stessi nomi di quelle di Laus: San Lorenzo, Santi Nabore e Felice. Il punto più alto di rivendicazione di continuità tra la vecchia e la nuova Lodi fu rappresentato dalla traslazione della salma di san Bassiano, dalla basilica di Laus alla nuova cattedrale, il 4 novembre 1163.
La vita religiosa della città nuova si arricchì: si insediarono gli umiliati, che costituirono forse il movimento di rinnovamento più interessante di quegli anni, arrivarono gli ospedalieri e all’inizio del XIII secolo i nuovi ordini dei francescani e dei domenicani. Il vescovo Alberico del Corno allontanava i feudatari laici, revocando ai Tresseni la carica di vicedomini, pretendendo che i collaboratori del vescovo fossero chierici. Il comune tentava invece di imporre tasse sui beni ecclesiastici, ricorrendo anche a mezzi sbrigativi, il che costò alla città due anni di interdetto.
La figura di maggior spicco religioso di questo periodo fu quella di san Gualtero, fondatore di un ospedale della Misericordia.
Ma lo scontro con le potenti famiglie indebolì il vescovado, che subì, agli inizi del secolo XIII una grave crisi. Solo con il vescovo Ottobello l’istituzione riprende un poco di prestigio. Ma i contrasti riesplosero, intrecciati ai conflitti tra guelfi e ghibellini e alla lotta contro Federico II. Nel 1228-1229 si tenne a Lodi un sinodo provinciale, che divenne occasione per rilanciare l’iniziativa moralizzatrice soprattutto nei confronti dei monasteri. Alle tensioni interne si aggiunsero i problemi di politica imperiale. I ghibellini conquistarono la città nel 1237, commettendo violenze soprattutto contro i religiosi.
Nell’instabilità istituzionale, apparirono anche i movimenti ereticali: pur nel quasi totale silenzio delle fonti, ci fu una presenza catara a Lodi.
Alla morte di Federico II, i ghibellini furono cacciati e Innocenzo IV restaurò la cattedra episcopale, nominando vescovo Bongiovanni Fissiraga. La restaurazione, oltre ad avviare il processo di canonizzazione di fra Pietro da Verona, consentì l’insediamento di francescani e domenicani. A Bongiovanni Fissiraga succedette il domenicano Raimondo Sommariva: con lui arrivano al vescovado gli ordini mendicanti e una delle famiglie più potenti della città.
I tentativi di moralizzazione del clero e di sua subordinazione alla gerarchia ecclesiastica non davano sempre frutti: una visita canonica all’ospedale di San Pietro in Senna fu respinta armata manu dal ministro dell’istituto fra Giacomo Bonone.
La chiesa lodigiana era sempre più indebitata e la soccorse Antonio Fissiraga, che edificò anche la chiesa di San Francesco e il convento di Santa Chiara Vecchia. Negli stessi anni gli umiliati edificarono il convento di San Giovanni alle Vigne. Si ampliava il divario tra ordini e curia, con quest’ultima sempre più stremata dai debiti e dalle difficoltà finanziarie.
Il XIV secolo non vide miglioramenti nella situazione ecclesiale: i conflitti sulle nomine vescovili non trovavano composizione, la moralità del clero non accennava a migliorare, la sicurezza dei conventi, degli insediamenti era compromessa. Giovanni XXII avocò a sé la nomina dei vescovi in tutte le diocesi suffraganee di Milano. Ma la politica dei Visconti cominciò a condizionare pesantemente la sfera ecclesiastica: i duchi milanesi infatti puntavano alla spoliazione dei beni delle diocesi per avocarli a sé. Intanto, il clero ritrovò una spinta alla solidarietà: furono emanati gli statuti del Consorzio del clero, istituzione che rimase attiva fino alle soppressioni giuseppine e che aveva la finalità di aiutare economicamente il clero e i poveri. L’atto fu probabilmente promosso dal vescovo Paolo Cadamosto, altro esponente di una grande famiglia lodigiana. Gli scontri con i Visconti sui diritti feudali che costoro usurpavano alla chiesa lodigiana continuavano e i vescovi cominciarono a rivolgersi ai guelfi locali Fissiraga e Vignati. Fu proprio un esponente di quest’ultima famiglia a proclamarsi per breve tempo, alla morte di Gian Galeazzo Visconti, signore di Lodi, nel primo decennio del XV secolo.
Alla diocesi lodigiana ascese Giacomo Arrigoni, che svolse un lavoro intenso per conto del papa in preparazione del concilio di Costanza. Anche il successivo concilio di Basilea vide tra i più attivi organizzatori un altro vescovo lodigiano, l’umanista Gerardo Landriani.
Il suo successore Antonio Bernieri riorganizzò il capitolo della cattedrale, che risultò così composto: un preposito, un arcidiacono, un primicerio e dodici canonici.
Intanto, Lodi seguiva il moto della grande politica senza più giocare alcun ruolo autonomo. Nel 1454 Francesco Sforza firmava la pace di Lodi con la Serenissima repubblica di Venezia e sanciva la cessione di Crema.
A Lodi il nuovo vescovo Carlo Pallavicino, umanista e mecenate piacentino (di Monticelli d’Ongina) avviava la stagione più splendente nella vita artistica e culturale della città. Concordò con lo Sforza la riunificazione degli ospedali del territorio con la fondazione dell’Ospedale del Santo Spirito o Ospedale maggiore, gestito con criteri d’avanguardia per la cura dei malati della città e del territorio. Edificò, assieme al comune, il tempio della Vergine Incoronata, in cui si concentrò l’attività delle migliori botteghe di pittura, scultura e decorazione della città e non solo. Arricchì la cattedra episcopale di preziosi arredi, codici miniati, suppellettili religiose, che costituirono il cosiddetto Tesoro di San Bassiano. Anche se fu un vescovo poco presente in diocesi, tuttavia intervenne in alcuni momenti critici della vita della comunità, ad esempio quando comprò grano che fece vendere al comune a prezzo ribassato, durante la carestia seguita al passaggio delle armate francesi di Carlo VIII nel 1495.
Nelle prime decadi del XVI secolo, nonostante lo scontro tra francesi e spagnoli, a Lodi proseguì una politica innovatrice: fu fondato ad esempio il Monte di pietà, per difendere i non abbienti dall’usura.
Il vescovo Gerolamo Sansone proseguì nella politica moralizzatrice, coadiuvato dall’intervento di Ottaviano Sforza. Si cercò di proibire ai preti di tenere concubine, si ordinò loro di vestire sempre l’abito talare. Il vescovo successivo, Giovanni Simonetta, istituì diverse confraternite, rafforzò il Monte di pietà, ma diede anche spazio all’Inquisizione. Nel 1551 fu arso vivo in piazza Galeazzo da Trezzo, eretico.
La seconda metà del XVI secolo fu dominata dalla figura di san Carlo Borromeo. La diocesi di Lodi subì forse più di ogni altra diocesi lombarda, a esclusione di Milano, il suo intervento: il Borromeo arrivò a destituire il vescovo in carica, Antonio Capisucco, per poter realizzare meglio le proprie direttive. Il successore di Capisucco Antonio Scarampo realizzò i capisaldi della riforma tridentina: indisse la visita pastorale che durò oltre quattro anni e subito dopo convocò il sinodo diocesano, che fu numerato come primo perché rispondente ai dettami del Concilio di Trento, che furono tradotti in 104 articoli di prescrizioni: dall’obbligo di residenza a quello di tenere i registri di battesimi, morti e matrimoni. Nel solco della riforma, fu istituito il seminario, iniziato nel 1571 e inaugurato nel 1575. Fu fondato l’orfanotrofio maschile affidato ai somaschi. Aumentarono le confraternite. Alla morte di Scarampo, lo stesso Borromeo recitò l’orazione funebre. Il vescovo successivo, Gerolamo Federici era addirittura colaboratore personale Carlo Borromeo a Milano. Realizzò subito la visita pastorale e partecipò a un sinodo provinciale.
Anche il vescovo Ludovico Taverna compì visite pastorali (tre) e tenne il secondo sinodo diocesano nel 1591, i cui decreti continuano l’applicazione integrale dei dettati del concilio. San Carlo era morto nel 1584, ma il suo indirizzo veniva applicato ancora con grande aderenza nella chiesa lodigiana. Intanto erano stati soppressi gli umiliati e il loro posto, nel convento di San Giovanni alle Vigne venne preso dai barnabiti, che istituirono una scuola, seguiti dai filippini, insediatisi nel convento omonimo.
Michelangelo Seghizzi, già componente del Sant’Uffizio, compì due visite pastorali e indisse il terzo sinodo diocesano, nel quale si decise di proibire ai preti di portare armi e di frequentare osterie, balli, giochi e commedie. Sotto il suo ministero il monaco Defendente Lodi compilò la prima cronotassi dei vescovi lodigiani. Il lavoro di Defendente si concludeva con una statistica generale della diocesi. La città aveva 13795 anime, 53 chiese, di cui 16 parrocchie e 2 collegiate, 26 oratori, 7 confraternite laiche, 31 scuole di Dottrina cristiana, 10 luoghi pii; in città vivevano 730 ecclesiastici, di cui 351 monache. La diocesi, con 91394 anime, era divisa in 10 vicariati foranei, 104 parrocchie, con 160 chiese, 140 oratori, 205 confraternite laiche, 127 scuole della Dottrina cristiana e 19 luoghi pii. I sacerdoti secolari erano 426, i regolari 216, le suore 385. Il totale del clero ammontava a 1257 unità.
Seghizzi inaugurò le chiese dei cappuccini di Sant’Angelo e di Casalpusterlengo, posò la prima pietra della nuova chiesa di San Giovanni alle Vigne e di quella della Beata Vergine delle Grazie a Lodi.
Quando calano i lanzichenecchi a Lodi era vescovo Clemente Gera, che dovette affrontare anche la peste dell’anno successivo. Nonostante le miserie e i lutti delle guerre, riuscì a celebrare il quarto sinodo diocesano, finalizzato al risanamento dei costumi anche ecclesiali. Il suo successore Pietro Vidoni fu costretto a interrompere la visita pastorale intrapresa nel 1646, per la carestia e la miseria, strascichi della guerra dei trent’anni. I chierici furono costretti a partecipare ai lavori di rafforzamento delle mura. Vidoni partì per la Polonia come legato papale. Il vicario generale Cosma Maiocchi Gusmeri indisse il quinto sinodo. Dopo due effimere presenze (Serafino Corio e Giovanni Battista Rabbia), l’ultimo vescovo del secolo fu Bartolomeo Menatti, personalità rilevante, in grado di reggere un lungo conflitto con il Collegio germanico e di vincerlo. Tenne nel 1691 il sesto sinodo diocesano e due visite pastorali. Dovette affrontare una grave rilassatezza dei costumi ecclesiastici, al punto da dover sopprimere il convento femminile di Santa Marta per episodi scandalosi.
La guerra di successione spagnola impedì che il vescovo Ortensio Visconti iniziasse la visita pastorale. Ma i suoi problemi erano soprattutto relativi al controllo di un clero riottoso e indisciplinato. In compenso ebbe buoni rapporti con il nuovo governo austriaco. Il suo successore Carlo Ambrogio Mezzabarba, pavese, continuò la stessa linea pastorale di Visconti. Represse l’indisciplina del clero e delle monache con mano ferma. Fu anche generoso di provvidenze verso il clero povero e collaborò con alcuni ordini, come i barnabiti. Nel 1729 organizzò una missione su larga scala, con grande successo. La sua visita pastorale fu interrotta dallo scoppio della guerra di successione polacca (1733). Fu un grande fautore del poderoso rinnovamento edilizio della città e iniziò il rifacimento del palazzo vescovile.
L’episcopato di Giuseppe Gallarati fu segnato dai contrasti con il clero, che sfociarono in insulti e in una campagna denigratoria nei suoi confronti. Al culmine del contrasto indisse una visita pastorale e convocò il settimo sinodo diocesano. Alla chiusura del sinodo il vescovo si trovò ad affrontare una vera e propria rivolta. Egli continuò l’opera di rinnovamento edilizio del Mezzabarba, restaurando il seminario e ristrutturando la cattedrale. L’inaugurazione del tempio rinnovato toccò però al suo successore, Salvatore Andreani, che compì una visita pastorale nel 1767. Colto e aggiornato, curò in modo particolare l’istruzione soprattutto dei chierici.
Gli Absburgo soppressero molti ordini religiosi: i canonici lateranensi, i carmelitani, i serviti, i terziari francescani, i gerolamini, le benedettine, le clarisse, le cappuccine, le savine. Il vescovo non assunse posizioni radicali nella protesta contro le soppressioni. Riuscì a convincere l’imperatrice a istituire l’ospedale Fissiraga, con l’eredità lasciata dal nobile Antonio.
Giannantonio Della Beretta trovò una diocesi nella quale l’insegnamento religioso era curato, la spiritualità promossa, ma l’opera di soppressione continuava. Furono eliminati i seminari di Lodi e Codogno e i chierici accorpati a Pavia. Anche la consuetudine funeraria fu rivoluzionata per far funzionare i cimiteri extra moenia di Riolo e San Fereolo.
Nel periodo cisalpino-napoleonico, la politica giusdizionalista fu portata alle estreme conseguenze: furono soppressi ordini religiosi e capitoli. Ma diversi preti e frati si avvicinano alle idee giacobine e collaborarono con il nuovo regime. Della Beretta partecipò ai comizi di Lione con il rappresentante del clero basso, don Luigi Altrocchi. La caduta di Napoleone consentì alla chiesa lodigiana di recuperare almeno in parte le posizioni. Risorse il seminario, furono ricostituiti alcuni ordini religiosi.
La tranquilla politica restaurativa favorì la missione di Alessandro Maria Pagani, il quale curò in particolare il reclutamento del clero. L’azione pastorale riprese l’educazione religiosa popolare, le missioni, l’attività delle confraternite, degli oratori. Il vescovo protesse il collegio femminile fondato nel 1830 dalla baronessa Cosway.
Il lungo episcopato di Gaetano Benaglio coprì il periodo della fine della Restaurazione e del Risorgimento. La sua pastorale fu tradizionale e i suoi interventi si mossero nel solco della consuetudine. Ma nel 1848 il clero si divise tra conservatori e progressisti. Alcuni sacerdoti furono addirittura protagonisti dei moti rivoluzionari su posizioni repubblicane, come l’abate Luigi Anelli e don Cesare Vignati. La successiva repressione austriaca fu pesante e mirata alla prevenzione, tentando di coinvolgere la Chiesa. Benaglio attuò una visita pastorale e indisse l’ottavo sinodo diocesano nel 1854. Partecipò alla proclamazione del dogma dell’Immacolata concezione. Cominciò anche a porsi problemi in relazione alla nascente classe operaia: sussidiò la società di mutuo soccorso e l’Alimentare cooperativa.
La politica del nuovo unitario italiano, dopo una prima illusoria conciliazione, si rivelò subito di contrasto con la Chiesa, anche a livello locale lodigiano. In occasione del funerale del Benaglio, morto quasi centenario nel 1868, si scatenarono tumulti repressi dalla polizia. La situazione di tensione tra Stato e Chiesa continuò più aspra dopo la presa di Porta Pia. In questo quadro, sembrava addirittura che la diocesi di Lodi dovesse essere soppressa. Invece, nel 1871, Pio IX nominò vescovo Domenico Maria Gelmini, lodigiano. Ma la situazione era confusa: il papa lo nominò per sfuggire all’exequatur regio. Si dovette aspettare Leone XIII per normalizzare la situazione. Le soppressioni e le spoliazioni e l’obbligo del servizio militare misero in crisi anche il seminario e le vocazioni. Gelmini modificò anche l’insegnamento, sostituendo il neotomismo all’indirizzo rosminiano, ma l’operazione non fu senza contrasti. Si organizzò la San Vincenzo de’ Paoli, arrivarono le canossiane per l’istruzione delle sordomute.
Nacque in questo periodo la stampa locale con “Il Lemene”, foglio di notizie in senso moderno. Si moltiplicarono i circoli giovanili, le associazioni cattoliche di mutuo soccorso.
L’episcopato di Giovanni Battista Rota, nominato dal 1889, si caratterizzò per l’appoggio alle associazioni. Nell’ottobre 1890 si svolse a Lodi l’ottavo congresso cattolico italiano, che anticipava i contenuti della Rerum Novarum.
Col nono sinodo diocesano il vescovo venne confortato nella sua linea di valorizzazione dell’associazionismo sociale e laicale. Nel 1898 si tenne a Lodi anche la settima adunanza regionale lombarda dei comitati cattolici. La repressione di Bava Beccaris dei moti di Milano fece sbandare non poco questa impostazione. Ma nacque un vero e proprio movimento sociale cattolico: dalla democrazia cristiana di don Murri alle leghe bianche ai segretariati del popolo. I cattolici partecipavano alle rivendicazioni sociali: nel 1910 tra Codogno e Casale un sacerdote, don Giovanni Quaini, guiderà uno sciopero contadino.
Il seminario risentì di questo nuovo clima: tentò di aprirsi a contatti con la società, si avvicinò sempre più a posizioni murriane, fino a provocare la reazione dalla gerarchia, con la sospensione di questo tipo di attività.
Intanto, monsignor Rota continuava le tradizionali attività: cinque visite pastorali, partecipazione all’ottavo sinodo provinciale, celebrazioni del centenario della morte di San Bassiano.
La guerra divise l’Italia: a Lodi don Quaini era a capo della corrente neutralista che si esprimeva sulle colonne del “Cittadino”, organo dell’Azione cattolica. Il giornale fu più volte sequestrato. Il vescovo Pietro Zanolini cercò di mantenere un atteggiamento equilibrato. Intanto si ampliavano le strutture diocesane e nel 1920 si celebrò un congresso eucaristico diocesano.
Il fascismo intanto incalzava. Il partito popolare fu messo a tacere. Al vescovo Ludovico Antomelli non restava che l’Azione cattolica, cui si dedicò con particolare cura.
Il suo successore, Pietro Calchi Novati fu attivissimo sul piano pastorale: fece cinque visite pastorali, celebrò tre sinodi diocesani e due congressi eucaristici , uno mariano e due missioni popolari. Assistette alla canonizzazione e beatificazione di Santa Francesca Saverio Cabrini. Curò in particolare il seminario e la gioventù, coadiuvato anche da don Luigi Savarè. Si occupò degli studenti attraverso il Circolo Pallavicino, in cui emerse il barnabita Giulio Granata, antifascista e democratico attivo.
Diversi giovani cattolici entrarono nella resistenza e nella lotta politica: nelle prime elezioni democratiche i cattolici lodigiani conquistarono la maggioranza dei consensi e con essi il potere amministrativo locale.
Monsignor Tarcisio Benedetti si trovò a guidare la diocesi nel secondo dopoguerra in un periodo di formidabili trasformazioni sociali. La chiesa lodigiana moltiplicava le sue strutture su tutto il territorio. Fu ripristinata la cattedrale nello stile romanico, l’oratorio di San Luigi fu trasformato nella moderna Casa della gioventù, in periferia sorse il nuovo Carmelo. Si istituirono manifestazioni devozionali di massa, come la peregrinatio Bassiani.
Monsignor Benedetti partecipò al Concilio Vaticano II, ma si scontrò gravemente con i giovani insegnanti del seminario, aprendo una gravissima crisi con ripercussioni anche sulle vocazioni.
Il rinnovamento conciliare non incise oltre la superficie e le pratiche devozionali rimasero tradizionali. Secondo i dettami conciliari furono istituiti il consiglio presbiterale e quello pastorale, organismi di solo valore consultivo. Tarcisio Benedetti morì nel 1972: Gli succedette Giulio Oggioni, proveniente dall’arcidiocesi di Milano. Nel 1977 fu nominato vescovo monsignor Paolo Magnani.
ultima modifica: 19/01/2005
[ Mauro Livraga ]
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