consiglio dei novecento sec. XIV - sec. XVI
A partire dagli ultimi decenni del secolo XII la Credenza, o Consiglio di credenza, organo formato da esponenti dei tre ordini cittadini – capitanei, valvassores, cives – che coadiuvava il governo consolare nella gestione degli affari del comune, incominciò ad assumere il nome di “Consilium comunis” e, quando adunata al completo, “Magnum Consilium comunis”.
Con l’affermarsi dei Torriani e dei Visconti che, pur rispettando le antiche forme repubblicane, andarono promuovendo una politica di accentramento dei poteri, il Grande Consiglio si vide gradatamente espropriato di gran parte delle competenze ad esso demandate nel periodo podestarile: esso continuò ad essere convocato con una certa frequenza, ma più per ratificare deliberazioni amministrative già prese che per deliberare di propria iniziativa.
Il numero dei suoi componenti, dopo le variazioni che si registrarono nel corso dei secoli XIII e XIV – 800 nella seconda metà del XIII secolo, 1200 nel 1317, come risulta da un istrumento di procura fatto dal consiglio medesimo, “in Palatio novo comunis Mediolani convocato et congregato Concilio mille ducentorum virorum conciliarorum comunis Meidolani” (Giulini 1854) – andò stabilizzandosi intorno a 900 membri, 150 per ciascuna delle sei porte della città.
Nel 1330 il podestà di Milano intimava infatti ai 900 cittadini, “qui sunt de Generali Consilio comunis Mediolani”, di radunarsi nel palazzo civico per conferire il potere ad Azzone Visconti e per confermare e pubblicare alcuni statuti – si trattava della promulgazione degli statuti a noi noti come Statuti di Milano, dei Mercanti e del mercanti di lana (statuta iurisdictionum).
Dalla grida emerge come ancora nel 1330 il Consiglio generale – denominato anche consiglio dei “900” – fosse investito, almeno formalmente, di una forte autorità. Nonostante l’oramai consolidato dominio dei Visconti, Azzone volle infatti che l’effettivo potere gli venisse conferito dal Consiglio: in questa fase di affermazione dell’istituto signorile era necessario che il potere fosse legittimato dall’organo cittadino più rappresentativo.
E ancora avendo il Comune fatto compilare da una commissione di giurisperiti nuovi statuti, era necessaria la conferma del Consiglio affinché essi avessero valore di legge. In seguito questa formalità non fu più necessaria e bastò l’approvazione del duca per conferire valore a qualunque statuto.
Quanto alla nomina dei membri del Consiglio durante il primo periodo signorile non si dispone di alcuna notizia certa. Tuttavia sulla base di alcuni elenchi posteriori al 1330 in cui i 900, oltre ad essere ripartiti in 150 per ciascuna delle sei porte della città sono divisi per parrocchia, è possibile supporre che l’elezione venisse fatta dai capi famiglia delle singole parrocchie cittadine.
I responsabili della nomina dei consiglieri ed i requisiti necessari al fine di essere nominati vennero precisati negli statuti del 1396 approvati da Gian Galeazzo Visconti, il cui testo tuttavia, secondo la maggioranza degli storici, è possibile corrisponda sostanzialmente a quello degli statuti del 1330, riformati nel 1351.
Ribadendo che i “900” dovessero essere ripartiti equamente tra le sei porte cittadine, gli statuti del 1396 attribuivano la nomina dei consiglieri, previa approvazione del duca, all’ufficio di provvisione. Si precisava inoltre che i candidati dovessero avere più di 20 anni, e dovessero essere scelti tra i migliori, più ricchi e più attivi cittadini sottoposti alla giurisdizione del comune di Milano (statuta iurisdictionum, cap. XIV).
Alla fine del XIV secolo l’appartenenza al ceto nobiliare non rappresentava ancora un requisito necessario al fine di poter essere eletto consigliere: l’obbligo di esibizione della prova di nobiltà come uno dei requisiti fondamentali per “candidarsi” a consigliere incominciò ad essere introdotto durante il breve periodo del dominio francese e venne più rigidamente applicato con la dominazione spagnola.
I criteri di nomina ed il numero dei membri componenti il consiglio furono più volte rivisti e temporaneamente modificati nel corso del Quattrocento. Da “I registri dell’Ufficio di Provvisione e dell’Ufficio dei Sindaci sotto la dominazione viscontea” emerge che una riforma circa il numero dei consiglieri venne prospettata già nel 1408 da Giovanni Maria Visconti: con decreto del 19 gennaio egli prevedeva il passaggio da 900 a 72 persone, 12 per porta, arrogandosi anche il diritto di nomina, e fissava la durata della carica in sei mesi (Santoro 1929).
Tale riforma tuttavia venne ritrattata in toto dal suo successore: il Consiglio venne sostanzialmente trasformato solo nel corso della dominazione spagnola. Sino al momento della sua soppressione, nel 1796, esso risultò infatti composto da 60 decurioni – da qui la denominazione Consiglio dei sessanta decurioni – dieci per ciascuna delle sei porte della città.
Mentre per il periodo comunale non si ha notizia di notai strettamente dipendenti dal Consiglio, nel corso del XIII secolo comparve la figura del “notarius Camere palatii comunis Mediolani”: notaio speciale a cui veniva demandata la sottoscrizione di tutte le delibere consiliari.
Tuttavia con l’affermarsi della signoria dei Visconti e le sempre più rare adunanze del Consiglio, le funzioni da lui svolte vennero via via supplite da uno dei notai alle dipendenze dell’Ufficio di provvisione: gli “Statuta iurisdictionum” della fine del Trecento, non prevedevano l’esistenza di alcun notaio specificatamente destinato alla sottoscrizione di atti e delibere consiliari ma stabilivano solamente che i notai “qui steterint ad scribendum conscilia et reformationes Consilii maioris” dovessero consegnare entro tre giorni “consilia et reformationes consiliorum” ai sei della Camera affinché venissero registrati ed, entro lo stesso termine, dovessero presentarli ai notai degli statuti affinché venissero copiati nei volumi statutari loro affidati (Cognasso 1955; Garin 1956; Santoro 1929; Santoro 1956; Santoro 1968).
ultima modifica: 19/01/2005
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