viceré e cancelleria vicereale 1815 aprile 7 - 1849 maggio 2
Il quinto articolo della patente del 7 aprile 1815, l’atto costitutivo del Regno Lombardo-Veneto, recitava: “È Nostro Sovrano volere di farci rappresentare da un Vice-Re nel nuovo nostro Regno”. In seguito al rifiuto dell’Arciduca Antonio d’Asburgo, che era stato nominato il 7 marzo 1816 (patente 7 marzo 1816), la carica di viceré del Regno venne ricoperta da un altro fratello minore dell’imperatore Francesco I, l’Arciduca Ranieri, che, nominato il 3 gennaio 1818, rimase in carica fino alle rivoluzioni del 1848 (patente 3 gennaio 1818).
L’assunzione da parte della Lombardia e del Veneto della dignità di viceregno corrispondeva da un parte al riconoscimento della peculiarità delle province riconquistate – che avrebbero potuto essere altrimenti considerate alla stregua delle province ereditarie dell’Impero – e dall’altra rispondeva anche alla funzione di dare o almeno cercare di dare agli italiani la sensazione di godere di una certa autonomia nel contesto dell’Impero stesso.
La carica di viceré del Regno Lombardo-Veneto, vincolo morale e politico dei domini italiani direttamente soggetti all’Austria, ebbe quindi poteri e funzioni costituzionalmente abbastanza imprecisati ma, grazie anche all’attività di amministratore di Ranieri, non fu esclusivamente quella di rappresentante formale dell’autorità imperiale nel territorio, nonostante il nuovo Regno dipendesse sostanzialmente dai dicasteri aulici viennesi che amministravano anche le altre province dell’Impero.
Per lo svolgimento delle sue competenze al viceré erano affiancati i membri della Cancelleria vicereale, un nucleo di funzionari scelti i più importanti dei quali avevano il rango di consiglieri di governo.
I poteri e le funzioni riservate al viceré, che rimasero sempre costituzionalmente alquanto vaghi, si possono dedurre da una lettera riservata di Ranieri del 22 giugno 1818 contenente le istruzioni ai membri della cancelleria. Questa specificava che i governi conservavano le loro attribuzioni ma dovevano rassegnare al viceré i rapporti che intendevano indirizzare ai dicasteri aulici.
Ranieri si riservava di decidere personalmente in merito a diverse questioni politiche: sugli assegni di pensione, sui fondi comunali e sulla fissazione delle misure in cui erano da corrispondersi; “sulle remunerazioni fino all’importo di 200 fiorini da accordarsi egualmente dai fondi comunali per distinti servizi prestati in caso di incendio, d’innondazioni e di altri pericoli, come pure in differenti altri incontri per utili invenzioni”. Gli altri casi in cui il viceré aveva facoltà di decisione erano le concessioni di rimunerazioni e gratificazioni anche di maggior importo, “qualora già da più anni fossero continuamente accordate ed i medesimi motivi della concessione sussistessero tuttora”; le riparazioni dei locali di ragione comunale già esistenti e necessari ad uso pubblico, “come pure le rifabbriche dei locali di tale natura che o per incendio o per qualche altra causa hanno sofferto”; la costruzione di nuovi edifici, “qualora la loro utilità o la loro necessità fosse dimostrata e qualora le spese occorrenti non oltrepassino la somma di diecimila fiorini”; la vendita di beni e di case di ragione comunale; la “collazione di benefizi in cura d’anime, quando le proposizioni del diocesano non sono soggette a delle eccezioni”; la nomina dei podestà delle città regie, ad eccezione di Milano e di Venezia.
Sulle questioni di carattere legislativo, nei casi in cui si dovevano consultare i differenti dicasteri aulici, “e così anche ogni qualvolta si tratta di stabilire delle prescrizioni normali e sistemali, di cambiare i regolamenti politici attualmente sussistenti o di farne qualche eccezione”, il viceré non avrebbe potuto emanare direttamente una disposizione, bensì avrebbe dovuto inoltrare a Vienna i rapporti dei governi accompagnati dal suo visto oppure dalle sue osservazioni.
Il viceré aveva anche una funzione di collegamento tra i governi milanese e veneto ed i ministeri aulici viennesi, ai quali inviava i rapporti periodici e i protocolli dei governi stessi. Contemporaneamente anche le istituzioni austriache corrispondevano con i due governi attraverso il viceré, che avrebbe loro comunicato le risoluzioni dell’imperatore e i decreti dei dicasteri aulici.
La funzione di collegamento e di corrispondenza con i ministeri viennesi veniva ribadita in caso di discrepanze tra i due governi milanese e veneto su questioni di comune interesse per tutto il Regno: dopo aver cercato “di combinarla, concretando quanto risultasse il più adeguato e conforme allo scopo”, il viceré si riservava la decisione finale o, se l’argomento non fosse compreso nei limiti delle sue attribuzioni, avrebbe inoltrato la questione con la sua relazione al ministero di competenza, che sarebbe stato comunque interpellato in merito.
Il viceré rassegnava inoltre all’imperatore, dopo un suo esame, le proposte per la nobilitazione o per innalzamento ad un grado maggiore di nobiltà, così come le proposte per le concessioni della dignità di consigliere intimo, di ciamberlano e quelle per il conferimento di ordini.
Attribuzione di particolare importanza e delicatezza erano le nomine per gli impieghi politici: Ranieri si riservava quelle ai posti di segretario governiale, di vicedelegato e di aggiunto alle delegazioni regie (per queste ultimi due incarichi però solo in caso non “insorgesse qualche rimarco contro le proposizioni del governo”), le accettazioni di dimissioni o di “cambio di posto fra gl’impiegati subalterni qualora lo domandassero per valevoli motivi” e il permesso di recarsi nel luogo di residenza della corte. Dal 1818 fu riservata al viceré anche la nomina dei commissari distrettuali.
Le facoltà e le attribuzioni riservate al viceré in materia camerale erano “le medesime della camera aulica”, ad eccezione però “degli oggetti in cui si tratta di norme legislative o della loro interpretazione”; alle vertenze fra i privati, “in cui la camera aulica pronuncia in qualità di istanza o la cui decisione si riferisce a questioni di diritto”; alla “dimissione dall’impiego di impiegati effettivi di tutte le categorie, i quali hanno prestato giuramento”; alle spese che non erano state contemplate nei preventivi annui e mensili e che non avevano ottenuto la sanzione del ministero di finanza; alle disposizioni finanziarie che per legge non potevano essere prese senza una preliminare disposizione dei dicasteri aulici e qualunque disposizione relativa alle casse principali, alle loro filiali e alle casse di finanza che erano “diramazioni della cassa centrale di stato riservata ad esclusiva disposizione del ministero di finanza” e dell’imperatore. Infine, erano naturalmente esclusi dalle attribuzioni del viceré tutti gli affari che si riferivano al debito dello stato, al credito pubblico e alle relative istituzioni.
Anche sugli oggetti di carattere militare le funzioni vicereali si riducevano sostanzialmente alla rappresentanza: si contemplava la visita alle truppe e agli “stabilimenti che si riferiscono all’amministrazione militare e giudiziaria, onde persuadermi se le concernenti autorità compiscano i loro doveri, se osservino le sovrane prescrizioni di S.M. e se gli stabilimenti prefati si trovino nel voluto perfetto stato”. In caso contrario il viceré aveva il compito di avvertire le autorità di competenza per i relativi provvedimenti (Sandonà 1912).
Più che politico il ruolo affidato al viceré fu dunque fondamentalmente un ruolo di primo funzionario del Regno. Ad esso infatti, come risulta dall’indirizzo alla sua cancelleria, non era attribuito il potere di emanare leggi o prendere decisioni che sconfinassero dalle attribuzioni delle strutture amministrative periferiche nell’ambito dell’Impero. Non per questo la carica vicereale deve essere considerata esclusivamente formale: lo stesso Ranieri riuscì ad imporsi su diverse questioni riguardanti il Regno, come ad esempio la concessione del porto-franco a Venezia, avvenuta nel 1829 (Meriggi 1987).
Non si trattava di una figura di vertice e sintesi dell’organizzazione statuale del Regno, ma di una figura di amministrazione: la struttura militare e quella di polizia erano estranee al suo controllo, e anche i governatori di Milano e di Venezia tenevano in realtà contatti autonomi con le autorità viennesi nonostante alla cancelleria spettasse di dare il proprio parere sulle proposte formulate da questi e anche di formularne di propria iniziativa. Nel caso specifico le proposte del governo – cioè del senato politico e del senato di finanza e poi del Magistrato camerale – passavano direttamente nella cancelleria del viceré, che apponeva il suo visto e le inoltrava a Vienna. A questo punto l’iter prevedeva l’esame e il giudizio del dicastero aulico di competenza (gli affari politici alla cancelleria aulica riunita; gli affari camerali alla camera aulica generale; gli affari di polizia al dicastero di polizia e censura). Per le decisioni riservate all’imperatore le relazioni dei dicasteri aulici contenevano la descrizione del fatto concreto e le proposte di decisione. Per le proposte legislative gli atti venivano ulteriormente inoltrati al Consiglio di stato.
Dal maggio 1848, dopo le rivoluzioni scoppiate nel Lombardo-Veneto, furono emanate le nuove disposizioni per l’organizzazione dell’amministrazione del Regno. Al posto della carica vicereale venne istituita una commissione imperiale plenipotenziaria per le province lombardo-venete, presieduta dal maresciallo Montecuccoli, che ebbe poteri civili e militari. Questa rimase in carica dal 2 maggio 1848 al 1 novembre 1849, fino cioè all’entrata in vigore del governatorato generale civile e militare del lombardo-veneto (proclama 25 ottobre 1849). La carica di governatore fu affidata a Radetzky e successivamente al congedo di questo, avvenuto nel gennaio 1857, all’arciduca Ferdinando Massimiliano, fratello di Francesco Giuseppe (Mazhol-Wallnig 1981; Meriggi 1981a; Meriggi 1983; Meriggi 1987; Raponi 1967; Sandonà 1912; Spellanzon 1960 a).
ultima modifica: 19/01/2005
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