commissariati distrettuali 1815 aprile 7 - 1859 ottobre 23
La sovrana patente del 7 aprile 1815, l’atto costitutivo del Regno Lombardo-Veneto, aveva ridefinito gerarchicamente la distribuzione del potere e l’amministrazione del territorio. Vincolo morale e politico del Regno era il viceré, con funzione di collegamento tra i due governi – quello milanese e quello veneto – divisi territorialmente dal fiume Mincio. Ciascun governo si divideva in province – delegazioni – che a loro volta erano divise in distretti (Milano ne contava sedici, ridotti a quattordici nel 1853); infine i distretti si dividevano in comuni.
Ogni distretto era affidato ad un cancelliere del censo – denominato dal 1819 commissario distrettuale – che, sotto gli ordini diretti delle regia delegazione della provincia, esercitava la “superiore ispezione sopra i comuni di seconda e terza classe, tutta l’ingerenza negli affari censuari e la sorveglianza generale sui comuni delle suddette classi per l’adempimento delle leggi politiche”. Le specifiche attribuzioni dei cancellieri furono emanate insieme con l’attivazione del nuovo regolamento per l’amministrazione comunale, il 12 aprile 1816 (art. 150-256): ai sensi di queste i commissari fungevano in pratica da segretari dei comuni ubicati nel loro distretto. Controllavano la gestione dei fondi dei comuni, redigevano i verbali delle riunioni dei convocati e dei consigli comunali, preparavano i bilanci preventivi e i conti consultivi da approvare; sorvegliavano e controllavano l’operato degli esattori comunali e la gestione dei fondi comuni.
Attraverso i commissari distrettuali, che presiedevano quindi all’amministrazione del distretto, si concretava così il rapporto tra stato e sudditi nelle sue manifestazioni quotidiane. L’ufficio del commissariato distrettuale, composto dal commissario distrettuale, da un aggiunto, da uno scrittore e da un cursore, aveva il compito di dare esecuzione ai decreti pubblici, sorvegliare l’ordine pubblico, la quiete e la sicurezza nel proprio distretto, mettere a disposizione delle delegazioni e delle congregazioni provinciali i dati che venivano richiesti, controllare che l’amministrazione delle imposte procedesse regolarmente così come quella dei comuni, diramare gli ordini della delegazione (Sandonà 1912). I commissari distrettuali fornivano quindi assistenza tecnico-giuridica ai comuni nella loro attività amministrativa e, per quanto fossero ufficiali del governo, erano sostanzialmente privi di poteri politici: pur partecipando infatti ai lavori dei convocati o dei consigli comunali “in qualità di assistenti del governo”, non avevano voto deliberativo né dovevano “immischiarsi nel determinare l’opinione dei votanti”; al contrario il loro compito era “soltanto vegliare al buon ordine, e far presenti le leggi e i regolamenti, oltre a stendere il protocollo delle sedute”. La loro funzione di controllo si estendeva comunque su tutta la vita del comune: dalle nomine degli impiegati alle aste per locazione, vendite o appalti di lavori, fino alle dispute tra comuni del distretto o di distretti limitrofi. Teoricamente l’istituzione garantiva dunque la assoluta correttezza e regolarità dell’attività comunale, lasciando ai comuni stessi la piena autonomia e salvaguardando contemporaneamente l’autorità politica – le delegazioni provinciali – dall’onere della vigilanza (Raponi 1967).
Ma l’attività quotidiana dei commissari distrettuali non rimase nell’esclusivo ambito definito dalle leggi, per le quali dovevano essere semplici organi di collegamento tra i comuni e le autorità politiche. Già dal 1821 i commissari distrettuali diventarono infatti praticamente uno strumento di polizia: da loro venne fatta dipendere la gendarmeria locale anche perché la fitta rete di commissariati dislocati nel territorio, uno ogni venticinquemila o trentamila abitanti, ben si prestava ad esercitare una stretta sorveglianza sulla popolazione. Non a caso “il governo austriaco non perse l’occasione per addomesticare prima i funzionari e gravare poi con la loro autorità sulle popolazioni” (Raponi 1967, p. 35).
L’attività e l’ingerenza nell’amministrazione dei comuni divenne così opprimente che nulla veniva deciso senza aver anticipatamente ascoltato il loro voto: in pratica i commissari distrettuali divennero i padroni dei comuni (Rotelli 1978). Il loro peso politico si manifestava inoltre a livello provinciale e centrale: il commissario distrettuale infatti poteva fare pressioni affinché “nelle terne per le nomine alla Congregazione centrale e provinciale venisse incluso il nome di qualche individuo accetto al governo” (Raponi 1967, p. 35) anche perché ad un candidato sarebbe bastato essere incluso nella terna di un solo comune per poter essere proposto dal governo al sovrano per la nomina.
Nonostante quindi il commissario distrettuale fosse un fondamentale organo per il funzionamento e l’equilibrio tra potere politico e istituzioni locali, nell’ultimo decennio della dominazione austriaca l’avversione verso tale funzionario era divenuta tale che “nel concetto delle popolazioni lombarde il commissario distrettuale più non rappresentava che un cieco strumento di polizia” (Atti della commissione Giulini 1962, p. 126; Raponi 1967, p. 36).
Il decreto 8 giugno 1859, che tracciava le linee fondamentali della amministrazione centrale e periferica temporanea della Lombardia dopo la conquista di Milano da parte delle truppe francopiemontesi, conservò i commissariati distrettuali nella loro attività amministrativa, ma sottrasse loro le funzioni di pubblica sicurezza, affidate ora ai questori provinciali, distrettuali e urbani, dipendenti dall’intendenza generale (Atti della commissione Giulini 1962; Meriggi 1987; Raponi 1967; Rotelli 1978; Sandonà 1912).
ultima modifica: 19/10/2003
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