congregazione centrale 1815 aprile 7 - 1859 giugno 16
La sovrana patente emanata il 7 aprile 1815, considerata l’atto istitutivo del Regno Lombardo-Veneto, aveva previsto la formazione di speciali collegi permanenti composti da “varie classi di individui nazionali” per “conoscere nelle vie regolari con esattezza i desiderj, e i bisogni degli abitanti del nostro Regno Lombardo-Veneto, e per mettere a profitto della pubblica amministrazione i lumi e consigli che i loro Rappresentanti potessero somministrare a vantaggio della patria” (art. 12). A tale scopo la patente annunciava l’istituzione di una Congregazione centrale per il territorio milanese con sede a Milano, una per il territorio veneto con sede a Venezia e l’istituzione di congregazioni provinciali con sede nel capoluogo di residenza delle regie delegazioni.
Le congregazioni furono quindi costituite con la patente del 24 aprile 1815, che ne regolò le norme di composizione, di nomina e di funzionamento. La Congregazione centrale, che si riuniva a Milano ed era presieduta dal governatore – dopo il 1850 dal luogotenente – era composta da membri scelti per un terzo da deputati nobili (uno per provincia), per un altro terzo da deputati non nobili (anch’essi uno per provincia), e per l’ultimo terzo da deputati eletti in rappresentanza delle città regie. L’eleggibilità in questo organismo si basava sul censo: oltre ad avere la cittadinanza lombardo-veneta, il domicilio nella provincia rappresentata o nella monarchia e un’età non inferiore ai 30 anni, per poter essere eletto era richiesto al deputato un estimo di almeno 4.000 scudi censuari. Questa disponibilità convenzionale, che presupponeva evidentemente un rilevante reddito imponibile, doveva consistere in beni immobili per i rappresentanti delle province, mentre per i rappresentanti delle città regie poteva consistere tanto in beni immobili che in fabbriche o negozi (quindi attività commerciali). L’incompatibilità alla nomina di membro si estendeva sugli impiegati dello stato, sugli ecclesiastici e sulle “persone dichiarate prodighe o riconosciute dal foro competente incapaci di amministrare le proprie sostanze, i non professanti la religione cattolica – apostolica – romana o perlomeno una religione cristiana, chi aveva subito una inquisizione criminale e non fosse stato dichiarato innocente” (patente 24 aprile 1915; Sandonà 1912, p. 111). I rappresentanti delle città regie erano soggetti ad incompatibilità se avessero mancato di credito pubblicamente. Inoltre non erano eleggibili gli impiegati comunali e i loro ascendenti e discendenti di qualsiasi grado, gli affini fino al secondo grado e i collaterali entro il quarto.
I deputati della Congregazione centrale duravano in carica sei anni ed erano rieleggibili. Dopo la prima tornata di nomina in occasione dell’istituzione di questi organi nel 1816, che l’imperatore avocò completamente a sé, il meccanismo di rinnovo delle congregazioni centrali prevedeva la sostituzione con un’estrazione a sorte ogni tre anni della metà dei membri espressi dalle province; quelli delle città regie restavano invece in carica l’intero sessennio. Ogni sei anni quindi l’intero corpo dei deputati decadeva automaticamente dalla carica e venivano bandite le elezioni: ogni comune proponeva un candidato nobile e uno non nobile (il numero dei candidati poteva dunque anche essere di alcune centinaia); da questo elenco la Congregazione provinciale ricavava alcune terne di candidati nobili e di candidati non nobili – tante terne quanti erano i deputati da eleggersi – e le trasmetteva alla Congregazione centrale che faceva l’elezione. Il governatore, successivamente, confermava l’elezione anche se la decisione ultima e la nomina spettava all’imperatore, cui le proposte della Congregazione centrale giungevano accompagnate da una relazione sul candidato compilata dal governatore stesso e da una relazione (più importante, naturalmente) del direttore della polizia. Nelle città regie invece i consigli comunali proponevano direttamente una terna alla Congregazione centrale. Di norma, comunque, la nomina imperiale del “primo in terna” era una questione meramente formale (Meriggi 1987).
Costituzionalmente la Congregazione centrale doveva dunque essere uno degli organismi rappresentativi della società lombarda dotata esclusivamente di carattere consultivo (Sandonà 1912). Il loro scopo era quello di far conoscere le istanze e i bisogni del paese, scopo che era stato ribadito nella patente del 24 aprile 1815, per cui la Congregazione centrale era incaricata “sommessamente [di] rappresentarci i bisogni, i desideri e le preghiere della Nazione in tutti i rami della pubblica amministrazione, riserbandoci all’incontro di consultarla quando lo riterremo opportuno”. Non a caso l’istituzione delle congregazioni fu considerata dai deputati italiani a Vienna come un successo, “che consentiva di offrire nuova linfa istituzionale alle tradizioni oligarchiche penalizzate in età napoleonica” (Meriggi 1987, p. 44). I notabili lombardi infatti si erano battuti per ottenere nell’ambito del nuovo Regno una rappresentanza “nazionale” e non avevano chiesto una forma di rappresentanza parlamentare intesa come strumento politico-legislativo, bensì uno strumento di contenimento dell’iniziativa governativa che potesse, in via consultiva, ottenere modifiche e adattamenti delle leggi e soprattutto gestirne la concreta applicazione in ambito locale, specialmente per ciò che rifletteva l’amministrazione delle spese non ancora fissate da leggi precedenti ma già ordinate dal governo.
Sicuramente le congregazioni, almeno nei primi anni, ebbero grande influenza sull’operato dell’amministrazione lombardo-veneta, fungendo da autorità di vigilanza sugli enti locali (comuni e enti di beneficenza e assistenza) e collaborando nelle opere di censimento. Il loro parere era del resto obbligatorio per il governo sugli oggetti riguardanti i comuni, la beneficenza, le imposte e la coscrizione.
Il meccanismo di nomina fece comunque della Congregazione centrale l’espressione politica della grande proprietà fondiaria perlopiù nobile e dell’alta borghesia agraria, le quali non disdegnarono affatto di farne parte, forse anche perché l’appannaggio annuo riconosciuto al deputato centrale era di 6.000 lire. Conseguentemente il limitato peso politico e la scarsa propensione a porre all’ordine del giorno istanze “nazionali” e “risorgimentali” (intese in senso antiaustriaco e “italiano”) che caratterizzò l’operato e l’attività della Congregazione centrale deve dunque essere attribuito non tanto all’impossibilità formale data dal carattere consultivo e non legislativo della Congregazione centrale stessa, ma piuttosto alla sua composizione sociale, nobile e altoborghese. Si spiega così il carattere rigidamente conservatore e le posizioni spesso “più a destra del governo austriaco, cercando di frenarne gli spunti di riforma, chiedendo misure d’ordine nei confronti delle classi subalterne e misure di privilegio per le aristocrazie, battendosi soprattutto per contenere i costi tributari che l’appartenenza del Lombardo-Veneto all’Impero comportava” (Meriggi 1987, p. 57).
Il ruolo di contenimento del potere esecutivo non fu dunque un ruolo di concorrenza legislativa bensì di difesa della propria specificità regionale “che poteva identificarsi in autonomia “nazionale” solo nella misura in cui gli interessi delle aristocrazie terriere (nobili e non) coincidessero, improbabilmente, con quelle dell’intero paese” (Meriggi 1987, p. 57). L’arrendevolezza manifesta della Congregazione centrale al governo era dovuta non solo suo dal carattere consultivo – il suo parere non era in ogni caso vincolante – ma anche dal fatto che il governatore, e successivamente il luogotenente generale, presiedendo alle sedute, aveva in realtà facoltà e discrezione nel sottoporre all’assemblea gli affari che più riteneva opportuni, evitando quindi nella pratica di consultarla anche in casi in cui suo il parere veniva riconosciuto obbligatorio dalla legge. Gli organi politici austriaci avevano inoltre un certo potere di scelta nelle nomine, attraverso le pressioni che i commissari distrettuali attuavano nei confronti dei comuni di loro competenza per far votare persone ben accette al governo.
In seguito all’insurrezione e alla successiva guerra del 1848 la convocazione delle congregazioni centrali rimase sospesa fino al 1856 (ordinanza imperiale 15 luglio 1855). La ricostituzione della Congregazione centrale fu comunque un fatto quasi formale, con lo scopo da parte austriaca di ufficializzare di fronte al consesso europeo la concessione “liberale” di una effettiva rappresentanza degli interessi delle popolazioni italiane. In effetti la Congregazione centrale divenne nell’ultimo lustro del dominio austriaco un’assemblea addomesticata e composta da rappresentanti di mediocre levatura (Atti della commissione Giulini 1962) così da giustificare l’opinione, dopo il 1848, che l’aver fatto parte delle congregazioni fosse una prova di spirito di sudditanza nei confronti dell’Austria e scarso “amor patrio” (Atti della commissione Giulini 1962; Meriggi 1981 a; Meriggi 1983; Meriggi 1987; Raponi 1967; Rotelli 1978; Sandonà 1912).
ultima modifica: 19/01/2005
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