consiglio comunale 1816 febbraio 12 - 1859 ottobre 23
Lungamente discusso dalla commissione aulica centrale di organizzazione, l’ordinamento comunale del periodo della restaurazione ripropose sostanzialmente, esteso a tutto il Regno Lombardo-Veneto, quello introdotto sotto il Regno di Maria Teresa con l’editto del 30 dicembre 1755.
La sovrana patente del 7 aprile 1815, definita l’atto costitutivo del Regno, stabiliva che l’organizzazione amministrativa dei comuni dovesse rimanere per il momento conservata nelle forme vigenti, mantenendo dunque la suddivisione dei comuni in tre classi, mentre i nomi e i confini di distretti e province così come i comuni “rispettivamente attinenti alle une o agli altri” sarebbero stati pubblicati successivamente. Inoltre la patente stabiliva che le città regie, dove era fissata la residenza della regia delegazione, e i comuni di prima classe sarebbero direttamente dipesi dal regio delegato e non dai cancellieri del censo.
La regolamentazione definitiva degli enti locali venne fissata dalla patente del 12 febbraio 1816 e ulteriormente perfezionata e resa operativa con la notificazione – cioè con le “istruzioni per l’attivazione del nuovo metodo d’amministrazione comunale colle attribuzioni delle rispettive autorità” – del 12 aprile 1816.
In base a questo regolamento l’organismo assembleare di autogoverno locale di Milano divenne quindi il consiglio comunale. Questo era stato attribuito inizialmente ai soli comuni maggiori; dal 1819 venne invece imposto per legge a tutti i comuni nel cui catasto fossero iscritti più di 300 estimati e dal 1835 venne reso di istituzione facoltativa anche in tutti i casi che il governo lo ritenesse opportuno (Meriggi 1987). L’organo esecutivo del comune era invece la Congregazione municipale, composta da sei assessori e presieduta dal podestà.
Il consiglio comunale era composto a Milano (ma anche a Venezia) da sessanta membri, divisi per due terzi da possidenti che avessero almeno 2.000 scudi di estimo (la stessa quantità richiesta per diventare membri della Congregazione provinciale), e per l’altro terzo da individui che avessero nel comune un rilevante stabilimento di industria o di commercio. Naturalmente era ulteriore condizione necessaria il diritto di cittadinanza nel Regno.
La prima nomina dei membri venne compiuta dai rispettivi governi (quello di Milano e quello di Venezia), a seguito delle indicazioni e delle proposte della regia delegazione. La sostituzione dei membri dopo la prima nomina spettò invece alle Congregazioni provinciali, “sopra dupla dei consigli medesimi”, salva l’approvazione della regia delegazione.
Il rinnovo del consiglio, determinato nei primi due anni da un’estrazione a sorte, avveniva “ogni triennio in quote eguali”; successivamente le sostituzioni avvenivano per anzianità di nomina. I membri del consiglio non erano immediatamente rieleggibili, ma potevano “essere rieletti dopo un anno di intervallo”. Il presidente veniva eletto dallo stesso consiglio e durava in carica un anno.
Il consiglio si radunava ordinariamente due volte all’anno, ma poteva essere convocato in via straordinaria dal regio delegato. Nella prima adunanza (da tenersi in gennaio o febbraio) il consiglio aveva il compito di esaminare l’amministrazione del comune dell’anno precedente e deliberare in base al rapporto che veniva esposto dai revisori dei conti. Inoltre il consiglio esaminava e deliberava sul ruolo degli individui soggetti alla tassa personale. Diversi erano i compiti attribuiti in occasione della seconda adunanza prevista, che si teneva in settembre o in ottobre. In questa occasione si eleggevano i membri delle congregazioni e delle deputazioni, si determinava il conto preventivo delle spese e delle imposte comunali per l’anno successivo e si nominavano i revisori dei conti dell’anno in corso. In generale comunque nelle due adunanze si potevano trattare “tutti gli affari che concernono il comune”. Al consiglio comunale veniva inoltre attribuita la facoltà di proporre i deputati delle congregazioni centrali e provinciali.
Le adunanze – che avvenivano “sempre in luogo di pubblica ragione, ma senza pubblicità di adunanza” e si convocavano in via ordinaria 15 giorni prima – si tenevano con l’assistenza delle congregazioni municipali che avevano diritto di voto e alla presenza del regio delegato (o di un suo sostituto) il quale, pur avendo “un posto distinto nel consiglio”, non aveva voto deliberativo. Il consiglio deliberava collegialmente e a scrutinio segreto: ogni consigliere aveva un voto, a prescindere dalla “quantità dei suoi beni o de’ suoi stabilimenti”.
Nonostante fosse attribuita la facoltà di trattare tutti gli affari concernenti il comune, la patente disponeva comunque che in caso i consiglieri rifiutassero di deliberare le “spese necessarie e le imposte corrispondenti a senso delle leggi e de’ veglianti regolamenti”, ad essi supplissero le congregazioni provinciali. Inoltre veniva impedito al consiglio di nominare alcun impiegato senza l’accettazione del governo, “né costituire procuratori sì generali come speciali nel comune senza averne in prevenzione fatto conoscere il bisogno all’autorità superiore”.
La tutela governativa e il controllo sull’organo erano infine specificamente previsti in caso il consiglio oltrepassasse le facoltà e le attribuzioni di competenza, “occupandosi di affari che non concernano l’amministrazione del comune”. In questi casi il regio delegato, previe le necessarie premonizioni, avrebbe dichiarato sciolta la seduta.
A differenza della composizione delle congregazioni, quindi, la normativa del Regno Lombardo-Veneto non prevedeva a livello comunale una distinzione tra i proprietari nobili e quelli non nobili, anche se, in pratica, i consigli insediatisi all’entrata a regime del nuovo ordinamento finirono sostanzialmente per autorinnovarsi con un procedimento simile a quello delle congregazioni. Indubbiamente nel consiglio erano rappresentati una certa varietà di rappresentanze e interessi, anche se il numero di maggior rilievo era destinato alla grande possidenza agraria – i cui consiglieri venivano scelti in un elenco dei primi cento estimati del comune – anche perché nel caso che il numero dei commercianti o degli industriali fosse risultato insufficiente si sarebbe supplito con altri estimati e non con commercianti di rango inferiore: “la rappresentanza municipale era adunque costituita dall’aristocrazia del denaro” (Atti della commissione Giulini 1962; Meriggi 1981 a; Meriggi 1983; Meriggi 1987; Raponi 1967; Rotelli 1978; Sandonà 1912).
ultima modifica: 19/10/2003
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