governo provvisorio centrale di Lombardia 1848 aprile 8 - 1848 agosto 2
L’8 aprile 1848 il governo provvisorio di Milano decise, in accordo con i membri dei governi insurrezionali delle altre città lombarde, di costituirsi in governo provvisorio centrale di Lombardia aggregandosi un membro per ogni provincia. Il nuovo governo fu composto dal presidente Gabrio Casati e, in qualità di membri, da Vitaliano Borromeo, Giuseppe Durini, Pompeo Litta, Gaetano Strigelli, Antonio Beretta, Cesare Giulini, i quali già facevano parte del governo provvisorio milanese o erano stati nominati collaboratori del Municipio. In rappresentanza delle province lombarde entrarono Anselmo Guerrieri per Mantova (già membro del governo ma ora rappresentante della città ancora in parte occupata dagli austriaci), Girolamo Turroni per Pavia, Pietro Moroni per Bergamo, Francesco Rezzonico per Como, Azzo Carbonera per la Valtellina, l’abate Luigi Anelli per Lodi e Crema, Annibale Grasselli per Cremona. Il 12 aprile a questi si aggiunse Antonio Dossi in rappresentanza di Brescia, che inizialmente aveva opposto qualche resistenza alla creazione di un governo unico. Segretari del governo furono Emilio Broglio, Giulio Carcano e Achille Mauri. Dal governo milanese uscirono quindi Alessandro Porro e Marco Greppi, ma le figure moderate rimasero in assoluta maggioranza poiché solo l’Anelli era di tendenza decisamente repubblicana.
Pur essendo composto sostanzialmente da esponenti moderati filoalbertisti il governo lombardo dovette resistere alle pressioni piemontesi per l’annessione immediata della Lombardia al Piemonte, anche se in realtà ne stava preparando il terreno combattendo una dura battaglia politica contro la corrente repubblicana (Mazzini era giunto a Milano il 7 aprile). Il primo atto del nuovo governo – dopo aver respinto la proposta del ministro Franzini per l’immediata elezione di un’assemblea che decidesse le sorti della Lombardia e quella di Cattaneo per l’elezione di una assemblea preparatoria eletta dai rappresentanti dei diversi comuni che indicasse le norme per l’elezione di una assemblea costituente – fu infatti di nominare lo stesso 8 aprile una commissione speciale che si occupasse di “studiare e proporre un progetto di legge per la convocazione delle assemblee primarie” (Raccolta 1848, p. 204) cioè che elaborasse la legge elettorale per l’elezione dell’Assemblea che avrebbe deciso definitivamente la sorte della regione. Il lavoro della commissione, presieduta da Alessandro Porro, si rivelò però ben presto inutile. Con il pretesto del protrarsi della guerra infatti all’inizio di maggio il governo, dopo alcune sedute cariche di tensione, decretò un plebiscito per la fusione con il Regno di Sardegna. Con questa decisione il governo veniva meno all’impegno che era stato preso durante l’insurrezione milanese, cioè di rimandare la questione “a causa vinta” ed abbandonava anche l’idea di far decidere le sorti della Lombardia da una assemblea lombarda (Candeloro 1960). I repubblicani e i democratici presero immediatamente posizione contro tale decisione, pubblicando un manifesto il 13 maggio, firmato tra gli altri da Mazzini, Cernuschi, Tenca e Visconti Venosta in cui si accusava il governo di aver mancato ai suoi impegni e di aver rotto la concordia stabilita nei giorni dell’insurrezione. Comunque l’8 giugno furono resi noti i risultati del plebiscito: la stragrande maggioranza degli elettori aveva votato per l’annessione.
Contemporaneamente alla lotta politica il governo dovette cercare di rimediare agli errori di politica finanziaria del primo mese con nuove imposte e prestiti. Il 28 luglio fu “imposto alla Lombardia un prestito forzoso di 14 milioni di lire correnti con l’interesse del 5 % da prelevarsi proporzionalmente sulle famiglie più agiate e facoltose” (Raccolta 1848, p. 477) e il 25 giugno fu finalmente abolita la tassa personale. Né altri provvedimenti e decreti riuscirono a consolidare il consenso popolare nei suoi confronti: il 9 aprile un decreto decise la soppressione della Compagnia di Gesù e il sequestro dei beni mobili e immobili di sua proprietà; si annunciò la destinazione ad uso civile e la demolizione di parte del castello di Milano; venne promulgata la legge sull’organizzazione della difesa della Patria, relativa cioè all’organizzazione della guardia nazionale (11 aprile); venne attivata la legge penale per il costituendo esercito (14 maggio).
Il 7 luglio furono nominati dei commissari governativi in ognuna provincia (per Milano Giunio Bazzoni) il cui scopo era quello di “procacciare la rapida ed uniforme esecuzione di tutti i provvedimenti decretati per imprimere la maggior possibile energia all’andamento delle cose di guerra, per accrescere i mezzi finanziari e per rafforzare nelle popolazioni il sentimento della necessità di riunire tutti gli sforzi alla suprema difesa e liberazione della Patria” (Raccolta 1848).
Mentre la guerra procedeva il governo doveva affrontare la questione dell’annessione, che il plebiscito aveva risolto solo in parte poiché la formula votata prevedeva il voto di immediata fusione “delle Province Lombarde con gli Stati Sardi, sempreché sulla base del suffragio universale sia convocata negli anzidetti paesi […] una Assemblea Costituente, la quale discuta e stabilisca le basi e le forme di una nuova monarchia costituzionale con la dinastia Savoia […]” (Candeloro 1960, p. 193). Il 7 giugno il governo decise infine che una speciale commissione, composta da Giuseppe Durini, Andrea Lissoni, Gaetano Strigelli ed Emilio Broglio, si sarebbe recata a Torino per affrontare definitivamente la questione portando come condizione primaria la formazione di una consulta lombarda – trasformazione nominale dello stesso governo lombardo – cui sottoporre per l’approvazione i trattati internazionali concernenti la Lombardia stipulati eventualmente dal re Carlo Alberto. Le trattative, non facili considerando lo stato d’animo che si era creato a Torino sia per l’andamento della guerra sia per il timore di uno spostamento della capitale del nuovo regno a Milano, si conclusero il 15 giugno con la stipulazione di una convenzione che venne presentata dal ministro dell’interno piemontese Ricci come progetto di legge per l’annessione. Questa, dichiarando la Lombardia – così come le province di Rovigo, Treviso, Vicenza e Padova – parte integrante dello Stato prevedeva inoltre che sarebbero rimaste in vigore le leggi e i regolamenti vigenti in Lombardia, la libertà di stampa, di associazione e la guardia nazionale; che il potere esecutivo sarebbe stato esercitato dal Re per mezzo di un ministero responsabile verso la nazione rappresentata dal Parlamento; che il governo del re non avrebbe potuto concludere trattati politici o di commercio senza essersi preventivamente concertato con una consulta straordinaria, trasformazione nominale del governo di Lombardia, e infine che si sarebbe promulgata una legge elettorale per la costituente e che questa sarebbe stata convocata entro un mese dall’accettazione della fusione. Il 28 giugno la Camera subalpina votò solo il primo articolo del progetto di legge e lo approvò con 127 voti favorevoli e 7 contrari. Questo recitava: “L’immediata unione della Lombardia e delle province di Padova, Vicenza, Treviso e Rovigo, quale fu votata da quelle popolazioni, è accettata. La Lombardia e dette province formano con gli Stati Sardi e con gli altri già uniti un sol regno. Col mezzo del suffragio universale sarà convocata una comune Assemblea Costituente, la quale discuta e stabilisca le basi e la forma di una nuova Monarchia costituzionale colla Dinastia di Savoia, secondo l’ordine di successione stabilito dalla legge salica, in conformità dal voto emesso dai veneti e dal popolo lombardo sulla legge 12 maggio 1848 del governo provvisorio di Lombardia. La formula del voto sovra espresso contiene l’unico mandato della Costituente e determina i limiti del suo potere”.
La fusione era così compiuta, ma la questione della sopravvivenza del governo di Lombardia (seppur con un nome differente) e sul regime transitorio venne decisa dal parlamento subalpino solo tra il 28 giugno e il 19 luglio.
Dopo il plebiscito il potere era ormai saldamente in mano ai “casatiani”, cioè all’aristocrazia moderata, e i ceti popolari, così come gli esponenti democratici e repubblicani, uscirono del tutto di scena. Inoltre dalla seconda metà di luglio il Casati, recatosi a Torino, era stato nominato presidente del consiglio, ricevendo così, sostenne Cattaneo, “il premio della cessione di Milano”. Le allarmanti notizie sull’andamento della guerra – dopo la battaglia di Vicenza del 10 giugno gli austriaci avevano sostanzialmente ripreso tutto il Veneto con l’eccezione di Venezia – e le pressioni di Mazzini e Cattaneo portarono il governo a costituire a Milano un comitato di pubblica difesa (27 luglio). Poco dopo, il 1 agosto, il governo di Torino nominava commissari regi per la Lombardia Angelo Olivieri di Vernier, Massimo Cordero di Montezemolo e Gaetano Strigelli – il cosiddetto consiglio amministrativo generale – cosicché il governo provvisorio lombardo si trasformò come previsto in consulta straordinaria della Lombardia (2 agosto).
Questi ultimi atti del governo si svolsero in realtà in un clima paradossale di farsa grottesca poiché gli avvenimenti bellici li resero praticamente inutili: il 26 luglio infatti l’esercito piemontese fu sconfitto a Custoza e il 29 luglio gli austriaci varcarono l’Oglio. Il 5 agosto Carlo Alberto firmò la resa: i piemontesi si ritiravano al di là del Ticino, mentre la città in tumulto restava senza direzione politica (Avetta 1938; Candeloro 1960; Cattaneo 1849; Curato 1950; Curato 1960; Marchetti 1948 a; Marchetti 1948 b; Meriggi 1987; Raccolta 1848).
ultima modifica: 19/01/2005
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