comune di Milano 1329 - 1447
La necessità di far fronte agli aspri contrasti insorti tra i diversi gruppi sociali organizzati in associazioni contrapposte – la società della “Motta”, composta in prevalenza da mercanti, dalla nobiltà minore, dai proprietari fondiari che si opponeva allo strapotere della nobiltà maggiore; la “Credenza di Sant’Ambrogio”, costituita dagli esponenti dei diversi settori produttivi e artigianali, contrapposti alla “Motta” e alla grande nobiltà – che a partire dalla metà del XII secolo caratterizzarono la vita milanese, spinse il comune podestarile verso una forma più accentrata di governo che fosse in grado di garantire ai ceti attivi della città la stabilità necessaria per poter condurre una politica di espansione economica e territoriale.
Aveva quindi inizio quel processo di lotta per l’affermazione della signoria che vide l’alternarsi delle famiglie Della Torre e Visconti, e che si annunciò con la provvisoria preponderanza di Martino della Torre nel 1259 e dell’arcivescovo Ottone Visconte poi, nel 1277.
Per decenni la fazione guelfa popolare dei Torriani, saldamente supportata dai ceti produttivi, si contrappose a quella ghibellina nobiliare dei Visconti, fino a quando, nel 1311, questi ultimi riuscirono a prevalere con Matteo Visconti ed a consolidare poi definitivamente, nel 1329, il loro potere con Azzone Visconti, dominus generalis dal 1330. Il Consiglio generale di Milano lo stesso anno, per volontà di Azzone, gli riconosceva e conferiva il potere: in questa fase di affermazione dell’istituto signorile era necessario che il potere fosse legittimato dall’organo cittadino più rappresentativo.
Gli statuti cittadini pubblicati nello stesso anno attribuivano ai Visconti l’autorità esecutiva, il diritto di stipulare trattati e “di impegnare il Comune ed i suoi beni per i personali affari” (Cognasso 1955, p. 455). Era il primo passo verso l’ereditarietà della Signoria.
Morto Azzone furono riconosciuti signori i due zii Giovanni e Luchino; nel 1349 l’arcivescovo Giovanni, essendo rimasto solo, pretese – come aveva fatto precedentemente Azzone – che il Consiglio generale lo riconoscesse signore per evitare l’obiezione di nullità del decreto che invece riconosceva signori i due fratelli collegialmente. Nello stesso anno fu proclamato il principio della ereditarietà dell’Ufficio di “Signore” – esclusi i figli illegittimi – che venne poi ribadito nel 1354 a favore dei tre nipoti dell’arcivescovo: Matteo, Galeazzo, Bernabò. Questi però, temendo che i figli illegittimi di Luchino potessero rivendicare diritti, pretesero, lo stesso anno, di essere riconosciuti e legittimati dal Consiglio generale. E ancora il figlio di Galeazzo, Gian Galeazzo, successo al padre nel 1378, “volle dal Consiglio quell’atto che pareva ancora necessario per dare legittimità al suo governo e nuovamente volle essere riconosciuto nel maggio del 1385 dopo aver sbalzato dal potere lo zio Bernabò” (Cognasso 1055, p. 455).
L’organo comunale più rappresentativo continuava ad intervenire nei passaggi da una signoria all’altra e ad essere “usato” dai successivi signori come unica autorità “legittimatrice di potere”. Gli effettivi poteri “legislativi” e le attribuzioni al Consiglio riconosciute durante il periodo comunale, andarono però via via concentrandosi sempre più nelle mani del signore. Con l’affermazione di Gian Galeazzo, artefice di una “esasperata” politica di accentramento del potere, la politica di accaparramento delle funzioni demandate al Consiglio venne ulteriormente accentuata: il Consiglio, persa la sua funzione di organo “legittimante” venne infatti convocato per la sola ratificazione di delibere dal signore proposte.
All’assestarsi della signoria nelle mani di Azzone Visconti seguì la concretizzazione di una politica volta all’affermazione egemonica della città ambrosiana su quella costellazione di città, borghi, territori che sin dall’età comunale si era trovata a gravitare, più o meno coattamente, nell’orbita milanese. Ed i Visconti vennero eletti “signori” anche di molte altre città lombarde. A coronamento di questa spiccata vocazione egemonica, i Visconti andarono quindi creando una sorta di “stato territoriale” in cui Milano assunse istituzionalmente il ruolo di capitale. La vita delle singole città continuava con apparente autonomia ma nelle mani del comune signore si verificava una unione personale che portava ad una comune guida politica. E proprio per questo “le vicende politiche cittadine da allora in poi finirono per restare sullo sfondo, rispetto a quelle della signoria viscontea. Si veniva spegnendo inoltre la vivacità degli scontri sociali che aveva caratterizzato tutta l’età comunale: le istituzioni repubblicane erano svuotate o abolite e, al ricambio di ceti e di famiglie che aveva contrassegnato i secoli precedenti, si sostituiva il predominio di un ceto patrizio più compatto e chiuso” (Chittolini Enciclopedia Europea, p. 567).
Ma la fase di maggiore splendore della storia della regione lombarda coincise con la ricostruzione dell’unità del dominio – ripetutamente frazionato dalla consuetudine viscontea di suddividere il dominio fra i vari membri della famiglia – nelle mani di Gian Galeazzo, il quale dopo aver ereditato, nel 1378, la parte del padre Galeazzo, nel 1385 eliminò spregiudicatamente lo zio Bernabò. Una nuova serie di guerre gli consentì di conquistare città in Piemonte – Asti – in Veneto – Verona, Vicenza, Padova – nell’Italia centrale – Perugia, Assisi, Siena.
Nel 1395 Gian Galeazzo ricevette inoltre dall’imperatore l’investitura ducale, ottenendo quindi una dignità che “non solo poneva su basi giuridiche più salde il suo potere, ma gli conferiva anche una particolare autorità fra i potentati italiani” (Chittolini Enciclopedia Europea, p. 582).
Era l’inizio del principato: l’imperatore riconosceva al signore un titolo di tipo feudale ed ufficializzava che l’autorità del “duca” non era più soggetta agli umori popolari bensì, per volontà imperiale, di pieno diritto ed ereditaria.
Per controllare il proprio “stato” il princeps creò quindi cariche ed uffici che esercitavano il potere su tutta la regione e su tutte le città. Ogni città a sua volta conservò o creò propri uffici per l’amministrazione cittadina e del suo contado.
In questi decenni, tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo, andarono infatti definendosi le magistrature di governo centrale e periferico – la Cancelleria, organo esecutivo della volontà ducale; i maestri delle entrate ordinarie e straordinarie, a cui venne affidata l’amministrazione finanziaria; i referendari, i tesorieri – attraverso cui il dominio si sarebbe retto per molti secoli. E al contempo vennero definiti competenze e poteri delle magistrature “municipali” – quali il Tribunale di provvisione, gli offici delle vettovaglie, dei dazi, delle strade – le quali per il particolare ruolo ricoperto da Milano – oramai “capitale” del dominio visconteo – andarono estendendo la propria giurisdizione ben oltre le mura cittadine. Secondo quanto codificato negli Statuta iurisdictionum del 1396 all’officio del Tribunale era riconosciuta la capacità di prendere qualsiasi provvedimento riguardante il comune e la città, tanto nel settore amministrativo quanto in quello giudiziario. Strettamente dipendente dal duca, il Tribunale divenne quindi lo strumento attraverso cui spogliare il Consiglio di gran parte dell’autorità che gli era stata attribuita in età comunale: in tal modo la vita comunale non sarebbe più – o quasi – stata vincolata alla convocazione del Consiglio.
Ma lo sviluppo dell’officio di provvisione portò anche alla diminuzione di autorità del podestà: da vero e unico capo del comune, rappresentante del potere esecutivo egli aveva in seguito “condiviso” la propria autorità con il capitano del popolo, per divenire nell’età della signoria, semplice capo del potere giudiziario.
Questa politica di affermazione del potere signorile e di definizione delle magistrature preposte al governo centrale e periferico venne interrotta nel 1447, con la morte del figlio di Gian Galeazzo, Filippo Maria, il quale, succeduto nel titolo ducale al fratello Giovanni Maria nel 1412, dopo quasi vent’anni di lotte intestine, era riuscito a ricostruire l’unità del dominio nelle sue dimensioni lombarde. La sua morte, senza eredi, fece nuovamente precipitare l’assetto interno e fece riemergere il robusto particolarismo che sottostava alle strutture centralizzate dello stato (Chittolini Enciclopedia Europea; Chittolini 1993; Cognasso 1955; Santoro 1929).
ultima modifica: 19/01/2005
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