repubblica ambrosiana 1447 - 1450
Alla fine del XIV secolo, nonostante i ripetuti tentativi del duca Gian Galeazzo di limitare i poteri politici della nobiltà per favorire i suoi “partigiani”, il ceto nobiliare ancora dominava il Consiglio generale milanese, pur non essendo lo stato nobiliare requisito necessario e indispensabile per esservi ammessi come membri.
Il contrasto tra l’antica nobiltà e la signoria viscontea non si esaurì con la morte di Gian Galeazzo bensì si palesò ancor più esplicitamente all’indomani della morte del duca Filippo Maria, avvenuta nel 1447.
Nella notte tra il 13 e il 14 agosto di quell’anno – notte in cui appunto morì il duca – alcuni nobili milanesi – Antonio Trivulzio, Teodoro Bossi, Giorgio di Lampugnano, Innocenzo Cotta – operarono per il rivolgimento del potere in Milano: convocato presso la corte ducale il Consiglio generale, dopo aver nominato XXIV capitani e difensori delle libertà, tutti di estrazione nobiliare, essi diedero vita alla Repubblica Ambrosiana.
La nascita del nuovo governo venne salutata con favore da un’assemblea cui aveva partecipato non l’intero popolo milanese bensì alti funzionari di governo, ufficiali del comune, giureconsulti, membri dei collegi dei notai e dei fisici, abati delle più importanti corporazioni, banchieri, mercanti. Erano questi esponenti di quei gruppi sociali che, durante la signoria viscontea, avevano tenuto vive in Milano le antiche tradizioni municipali e la speranza di poter ristabilire l’autonomia comunale e l’organizzazione dell’antico comune aristocratico.
La Repubblica Ambrosiana nacque così senza difficoltà e senza contrasti la mattina del 14 agosto 1447, dopo poche ore dalla morte del duca: “nessun sentimento di odio contro il principe scomparso, non desiderio di distruggere il passato: erano giuristi e politici che riaffermavano i diritti della tradizione ambrosiana” (Cognasso 1955 b, p. 388).
Il governo provvisorio dei XXIV capitani e difensori delle libertà, che rappresentava il ceto più alto della popolazione, nello stesso giorno in cui venne istituito, si accinse immediatamente a confermare il podestà in carica, simbolo del legame tra il vecchio e il nuovo, e ad eliminare gli ufficiali e funzionari legati al mondo visconteo. Si procedette infatti alla rimozione e nomina di un nuovo vicario di provvisione, di un nuovo luogotenente, di nuovi membri del consiglio dei dodici, affiancati da quattro nuovi ufficiali definiti “aggiunti”. Il Consiglio di provvisione così formato, a sua volta dispose che gli anziani delle parrocchie che facevano capo a ciascuna delle sei porte della città, procedessero alla elezione di cinquanta capifamiglia; questi sarebbero entrati a far parte del Consiglio dei Novecento, di nuovo, come in passato, assemblea legislativa del comune milanese.
Il 17 agosto 1447 il Consiglio dei Novecento, sotto la presidenza del podestà, e i XXIV capitani e difensori delle libertà, confermati solennemente dal Consiglio medesimo, iniziarono la loro attività giurando davanti al popolo milanese di amministrare, governare e proteggere la città.
Nei giorni seguenti si dispose che i XXIV capitani e difensori dovessero essere affiancati da un’altra commissione di “Gubernatores er consiliarii”, composta da 24 membri, quattro per ciascuna delle sei porte cittadine; si nominarono infine il capitano di giustizia, sei maestri delle entrate ordinarie e straordinarie ed un funzionario addetto all’ufficio di arruolamento e coordinamento dei militi.
Ma la fervida opera riorganizzatrice del governo ambrosiano e soprattutto l’ideale di difesa delle libertà di cui la repubblica Ambrosiana si ergeva a difensore, contribuirono a provocare numerosi tumulti non solo all’interno della stessa Milano ma soprattutto tra le altre città che avevano composto il dominio visconteo.
Gli organizzatori della nuova repubblica si trovano ben presto di fronte a gravi difficoltà: nell’entusiasmo del primo momento essi non avevano infatti previsto che ricostruire l’organizzazione comunale significava distruggere il “particolare” organismo che i Visconti avevano costruito nell’arco dei secoli XIV-XV e che Gian Galeazzo aveva “immortalato” – o meglio creduto di “immortalare” – con l’investitura imperiale del Ducato del 1395.
La notizia della morte del duca e gli eventi che si erano verificati nella capitale del Dominio riscossero larga eco nelle città che lo componevano: Vigevano si proclamò libera, Pavia si diede un governo provvisorio, Lodi si levò in tumulto, Parma e Piacenza si proclamarono libero comune, e così anche Tortona, Alessandria e Como, soltanto Novara rimase fedele a Milano.
Ovunque regnava il disordine nonostante i tentativi dei XXIV capitani e difensori delle libertà di cercare, attraverso anche una politica di compromesso, di recuperare le città perdute.
Ma a questo punto determinante fu la decisione di intervento del condottiero Francesco Sforza, marito di Bianca Maria, figlia illegittima del defunto duca Filippo Maria.
Garantitosi diplomaticamente l’appoggio o la neutralità dei maggiori potentati italiani, lo Sforza – in origine alleato e condottiero al servizio della Repubblica Ambrosiana – intraprese una lenta e faticosa opera di riconquista che, nell’arco di tre anni, gli consentì di ricomporre il vecchio dominio visconteo e di farsi riconoscere dalla popolazione, nel 1450, duca.
Non volendo entrare in Milano con la forza delle armi, egli strinse la città d’assedio perseguendo l’intento di farla capitolare per esaurimento e fame. Infliggere una pesante sconfitta militare alla città, capitale del dominio, avrebbe comportato la perdita della “dedizione” popolare; e ancora “la conquista violenta non gli avrebbe creato nessun diritto in quel tempo in cui era viva l’esigenza (formalistica finché si vuole, ma imposta dalla stessa larghezza di consensi che essa riscuoteva) dell’investitura imperiale” (Catalano 1956). Nel febbraio del 1450 la città esausta ed affamata non era più in grado di resistere all’assedio: Francesco Sforza da tempo aveva infatti concentrato le proprie forze in un intensa ed attenta opera di sequestro delle vettovaglie che dalla vicina repubblica veneta le venivano furtivamente inviate in aiuto.
Così, il 25 febbraio, la convocazione del Consiglio dei Novecento, ridotto ai pochi fedeli che ancora sostenevano il governo della repubblica, da parte dei capitani e difensori delle libertà decretò definitivamente la fine del triennio repubblicano: la riunione fu occasione per un tumulto di piazza organizzato da una sorta di comitato rivoluzionario che culminò nella notte con l’uccisione di alcuni dei capitani della Repubblica. L’indomani mattina il comitato rivoluzionario consegnava allo Sforza la città.
Era la fine dell’esperienza “Ambrosiana” (Catalano 1956; Cognasso 1955 a; Cognasso 1955 b).
ultima modifica: 03/01/2006
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