comune di Milano 1535 - 1749
Nel 1535 lo stato di Milano, entrando a far parte dei domini dell’imperatore Carlo V, pur perdendo ogni autonomia in materia di politica estera, mantenne la propria individualità giuridica e l’autonomia amministrativa dell’antico dominio dei duchi. E anche dopo la divisione dei territori dominati da Carlo V tra il fratello Ferdinando d’Asburgo – a cui venne attribuita “l’eredità germanica” e gli stati ereditari – ed il figlio Filippo – a cui fu invece affidata la monarchia spagnola con gli annessi territori italiani, le Fiandre e le “Americhe” – lo stato milanese conservò i propri peculiari ordinamenti, le proprie tradizioni amministrative, il proprio sistema monetario.
La promulgazione, nel 1541, delle Novae Constitutiones Mediolanensis dominii – la cui compilazione da parte di giuristi lombardi era stata ordinata a suo tempo dal duca Francesco II Sforza e portata a termine solo in seguito alle pressanti sollecitazioni di Carlo V – manifestava la volontà dell’imperatore di voler agire come “duca di Milano”, successore degli Sforza e fedele custode delle tradizioni locali. Ancora, la preoccupazione di garantire continuità con il passato si palesava anche nella decisione di confermare gli offici che al momento della morte del duca Francesco II Sforza esercitavano funzioni statali, provinciali, locali, lasciando così intatta l’ossatura amministrativa che gestiva lo stato, le sue province e le sue città. Troppo importante il Milanese e troppo inquieto il panorama europeo per rischiare sollevazioni anche in questa regione.
Lo stato era suddiviso in nove province (Milano, Pavia, Lodi, Como, Cremona, Novara, Tortona, Alessandria, Vigevano) che recavano chiara l’impronta della passata esperienza comunale e viscontea-sforzesca. Particolare riguardo fu riservato alla città di Milano che, come capitale dello stato, capoluogo della provincia del Ducato e antica città comunale, assommava funzioni amministrative e giurisdizionali in ambito statale, provinciale e comunale.
A Milano, dalla prima metà del Cinquecento sino al momento dell’affermazione della “Lombardia austriaca”, accanto a magistrature che rappresentavano la corona di Spagna e gli interessi spagnoli (governatore, gran cancelliere, castellano, Consiglio segreto), e a magistrature di tradizione ducale – quali il Senato, il Consiglio segreto, i Magistrati delle entrate, il Capitano di giustizia, il Magistrato di sanità – che sovrintendevano a tutto lo stato, sopravvivevano istituzioni di origine municipale. Istituzioni queste ultime subordinate a quelle centrali ma pur sempre prestigiose per l’autorità esercitata in passato, per le funzioni pubbliche conservate, per le personalità che ne erano titolari (Bendiscioli 1957 a). Istituzioni che, rispecchiando la tradizionale affermazione egemonica della città sulla “campagna” – “tradizione” che traeva le sue origini già dal tardo periodo comunale e che venne conservata sia nel periodo signorile sia durante il principato visconteo-sforzesco – quasi sempre estendevano la loro giurisdizione ben oltre l’ambito cittadino.
Per l’intera età spagnola e per i primi decenni di dominazione austriaca la vita milanese continuò quindi ad essere governata dal Tribunale di provvisione, capo dell’amministrazione civica e giudice nelle cause cittadine in materia tributaria o di polizia. Composto da dodici membri e presieduto dal vicario, il Tribunale era coadiuvato da un folto corpo di altri ufficiali da esso direttamente dipendenti, quali i giudici delle vettovaglie, dei dazi, della legna, i tesorieri, i governatori degli statuti, le cui competenze vennero dettagliatamente descritte dalle Nuove Costituzioni cinquecentesche.
L’area di competenza del Tribunale e dei principali offici ad esso subordinati, come si è già accennato, continuò ad estendersi ben oltre le mura cittadine e i Corpi Santi, sovente sino all’intero territorio della provincia del Ducato, testimoniando appunto quanto radicata fosse ancora, a metà Cinquecento, l’antica egemonia cittadina, “con la sua tendenza a subordinare la campagna alla città nello stabilire i prezzo delle derrate, nel disporre l’ammasso obbligatorio di biade e grani in città, nella politica fiscale che distingueva i beni cittadini da quelli rurali” (Bendiscioli 1957 a; Chabod 1971.; Sella 1987; Vigo 1979).
Ma il Tribunale collaborava “strettamente” non solo con gli offici da esso direttamente dipendenti bensì anche con il Consiglio dei sessanta decurioni, evoluzione del vecchio Consiglio comunale, al quale era oramai attribuita la “sola” funzione di creare un elenco di nomi da sottoporre – insieme a quelli designati dal Collegio dei giurisperiti – al governatore affinché scegliesse i dodici di provvisione.
Il Consiglio generale milanese consisteva in un “corpo di ottimati” patrizi, nominati a vita per rappresentare la città. Secondo le Nuove Costituzioni esso si doveva radunare alla fine di ogni anno sia per l’elezione dei due giurisperiti collegiati, tra i quali il governatore avrebbe scelto il luogotenente del principe, destinato a divenire, l’anno successivo, vicario di provvisione; sia per estrarre diciotto nomi – tre per porta – tra i sessanta suoi componenti, dai quali il governatore avrebbe scelto dieci membri del Tribunale di provvisione, da integrare con i due eletti dal Collegio dei giurisperiti; sia per eleggere i tre giudici delle vettovaglie, dei dazi, della legna.
Altra carica di origine comunale, monopolizzata dal ceto patrizio milanese, era quella di podestà, il quale come magistrato civile di prima istanza per Milano e i sobborghi compresi entro le 15 miglia circostanti la città, andò estendendo la propria giurisdizione anche ad ambiti statali.
A partire dal 1599, per far fronte alle impellenti esigenze finanziarie della città e dello stato, un nuovo organo “straordinario” di istituzione spagnola incominciò a partecipare attivamente alla gestione degli affari comunali, e non solo: la Congregazione del patrimonio – nota anche come Conservatori del patrimonio – formata da sei decurioni, due dottori collegiati oltre che dal vicario e dal suo luogotenente, come rappresentanti del governo.
E proprio attraverso questi offici, monopolizzati dal ceto patrizio, Milano continuò dal Cinque-Sei-Settecento ad esprimere sentimenti di “municipalità”, di coscienza particolaristica, di difesa di fronte ai tentativi innovativi progettati da Madrid (Chabod 1971).
Palese era infatti la tendenza del governo centrale ad espandere il proprio controllo: le funzioni e la facoltà di ingerenza riconosciute al governatore, la creazione di nuovi uffici, con competenze anche comunali, strettamente dipendenti dai magistrati delle entrate, e ancora l’istituzione di nuovi uffici in relazione alla situazione interna ed internazionale, quale appunto la Congregazione del patrimonio, la milizia urbana, ne sono testimonianza.
E questa tendenza del governo centrale ad interferire in modo crescente nel “particolarismo municipale” si palesò definitivamente con le riforme teresiane che portarono alla ristrutturazione dell’organizzazione amministrativa di Milano e del suo Contado.
ultima modifica: 19/01/2005
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