Deposizione di Cristo
Campi, Antonio (attribuito)
Descrizione
Identificazione: Deposizione di Cristo nel sepolcro
Autore: Campi, Antonio (attribuito) (1524-1587), esecutore
Cronologia: ca. 1565 - ca. 1570
Tipologia: pertinenze decorative
Materia e tecnica: intonaco / pittura a fresco
Descrizione: Dipinto murale diviso in due riquadri staccati l'uno dall'altro, di forma rettangolare stretta e alta. Nel primo, sulla sinistra, sono raffigurate le Pie Donne intorno a Maria, sullo sfondo di una ricca architettura classicheggiante, con sculture dipinte e un soffitto a cassettoni. Nel secondo, sulla destra, è raffigurato il corpo di Gesù abbandonato tra le braccia di Giuseppe d'Arimatea, Nicodemo e San Giovanni, appoggiato su una pietra che funge da sepolcro; sullo sfondo la medesima architettura del primo riquadro, esattamente speculare a livello prospettico. Sotto entrambe le porzioni di affresco è presente una scritta latina in lettere capitali.
Notizie storico-critiche: Il dipinto murale è collocato ai due lati dell'altar maggiore della chiesa di S. Vittore, sulla parete che funge da tramezzo tra la parte pubblica e quella claustrale del complesso: le due parti che lo compongono sono posizionate sopra le finestrelle che servivano da comunicazione con la chiesa interna e per il passaggio dell'ostia alle monache benedettine del convento, durante la distribuzione dell'Eucaristia.
Gli affreschi, di datazione controversa, sono stati variamente interpretati dalla critica come opera di uno o più dei fratelli Campi, numerosa famiglia cremonese di pittori attivi dal 1510 fino al 1591: il padre Galeazzo e i tre figli Giulio, Antonio e Vincenzo, a cui viene annesso anche Bernardino (sebbene non fosse nemmeno parente), rappresentano il paradigma, consacrato dall'esempio dei Carracci, di quel processo di trasmissione di tecniche e modelli artistici da un esponente all'altro della stessa famiglia. Per tutto il Cinquecento a Cremona era prosperata una scuola artistica locale che aveva trovato grande fortuna anche presso l'eclettico ambiente artistico del capoluogo lombardo e la città era diventata un vero e proprio crocevia tra le esperienze della tradizione padano-veneta e il nuovo manierismo arricchito di citazioni raffaellesche del territorio emiliano. I tratti sofisticati ma allo stesso tempo aggraziati dei Campi vennero percepiti come il naturale superamento, in chiave manieristica, dello stile luinesco, al punto che il pittore e trattatista Giovanni Paolo Lomazzo registrò nei suoi scritti dell'epoca il malcontento degli artisti milanesi nei confronti dell'invasione degli "arroganti" pittori cremonesi. Malgrado tali reazioni però, la scuola dei Campi si andò via via affermando e soprattutto i due figli maggiori, a partire dal 1560, eseguirono a Milano una serie di opere di grande rilevanza, fra le altre, nelle chiese di S. Maria presso S. Celso (Antonio), in S. Maria della Passione (Giulio) e in S. Paolo Converso (entrambi). E' su questi altari che Giulio suggerisce un'immagine di devozione classicamente addolcita, mentre Antonio sperimenta un nuovo modello più drammatico, caratterizzato da nudi ambienti, luci artificiali e da una esasperata evidenza delle anatomie. I due affreschi qui schedati costituiscono un'interessante testimonianza di questo doppio registro linguistico, che oscilla ancora tra preziosismi ed eleganze parmigianinesche, e il drammatico naturalismo sottolineato dallo scavo anatomico del corpo di Cristo e dallo stravolgimento del volto delle figure che lo circondano.
L'opera venne inizialmente attribuita a Giulio Campi e datata intorno al 1555; negli anni Settanta però la critica spostò la paternità dell'opera su Antonio Campi modificando la data di esecuzione tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta del Cinquecento, anche in relazione allo studio di alcuni disegni preparatori dell'opera (Bora, 1985 e 1996). Due di questi, a matita nera su carta ingiallita quadrettata, oggi conservati alla Biblioteca Ambrosiana di Milano (cod. F 281 inf. n. 39 e cod. F 268 inf. n. 12), mostrano con minime varianti nella posizione delle teste, sia il gruppo della Vergine con le Pie Donne, sia la figura di Cristo, rappresentato però in controparte rispetto all'affresco. Questo differente orientamento, confermato anche da un altro studio a penna oggi conservato alla Galleria Nazionale di Praga (inv. K 57570), farebbe pensare che Antonio in un primo momento avesse ideato la composizione al contrario: tale inversione comportò poi nel dipinto murale anche una leggera modifica, rispetto ai disegni, della posa delle gambe e del braccio destro di Cristo, pur mantenendone inalterata l'indagine anatomica e lo studio chiaroscurale favorito dall'uso di una luce fortemente angolata. Ulteriore prova di questa analisi minuziosa delle anatomie e degli effetti luministici viene data anche da un altro studio per il Cristo deposto, realizzato a matita nera su carta quadrettata e sempre conservato a Praga (inv. n. K31384), che si ritiene una copia dal modello eseguito per l'affresco. In questo disegno Cristo è orientato nella giusta direzione, ma è stato copiato da un cartone preparatorio e non direttamente dal vero poichè manca del perizoma e presenta le gambe più divaricate rispetto al dipinto vero e proprio eseguito in S. Vittore. Il primo studio a penna in cui compare questa nuova posizione del corpo di Cristo, è conservato oggi al Museo Regionale di Teplice (inv. CA 531) e mostra inoltre per la prima volta Gesù sorretto da Giuseppe d'Arimatea e San Giovanni, e non da Maria come invece era raffigurato in uno degli schizzi di Praga.
Si segnala infine che di recente, gli studiosi Giovanni Agosti, Jacopo Stoppa e Marzo Tanzi (Tosi, 2014) hanno mantenuto l'autografia dell'opera su Antonio, ma spostandone nuovamente la datazione indietro di dieci anni, intorno al 1557, a stretto contatto con il lavoro in cappella di Aurelio Luini, il più piccolo tra i figli del famoso Bernardino.
Link risorsa: https://lombardiabeniculturali.it/opere-arte/schede/3o210-01232/
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