Argo

Suardi, Bartolomeo

Argo

Descrizione

Autore: Suardi, Bartolomeo (1456-1530), esecutore

Cronologia: post 1489 - ante 1491

Tipologia: pertinenze decorative

Materia e tecnica: intonaco / pittura

Misure: 400 cm x 560 cm (intero)

Descrizione: L'opera raffigura un'imponente struttura architettonica riccamente decorata, all'interno della quale si colloca una gigantesca figura umana, che regge tra le mani un alto bastone e appoggia mollemente la mano destra sul parapetto. L'uomo, identificato come Argo, indossa un'insolita veste che gli copre i fianchi e si incrocia sul suo petto; un ampio mantello di pelle animale gli ricade sulle spalle e ai piedi porta eleganti calzari dai risvolti in pelle di felino. Il volto, completamente cancellato da un capitello, doveva essere incorniciato da un turbante costituito da un ammasso di occhi, di cui ancora sono visibili le ciglia (Argo era considerato il "guardiano dai cento occhi"). Ai lati della struttura, arricchiti da due pavoni, sono dipinti due medaglioni monocromi che simulano rilievi in porfido raffiguranti, a sinistra, il dio Mercurio che suona il flauto per far addormentare Argo, e a destra, Mercurio che decapita Argo con una spada ricurva. Nella fascia sottostante, al centro, è infine dipinto un terzo e più grande medaglione istoriato di colore giallo, forse per simulare l'effetto dell'oro, raffigurante una scena di "pesatura morale".
Al di sotto del medaglione campeggia una scritta latina in azzurro circondata da due eleganti targhe a testa di cavallo ornate con nastri.

Notizie storico-critiche: Il dipinto fu scoperto nel 1894 all'interno della "Sala del Tesoro" dallo studioso tedesco Paul Müller-Walde nell'ambito di una serie di recuperi all'interno del Castello Sforzesco, l'anno precedente diventato proprietà del Comune. Il discialbo, realizzato con la collaborazione del pittore-restauratore Oreste Silvestri riportò alla luce buona parte del dipinto, eccezion fatta per la testa del personaggio, distrutta dall'inserimento di un peduccio che regge la volta costruita negli ultimi anni del Quattrocento in seguito ad una modifica dell'originale copertura della sala.
Fin dalla sua scoperta esso è stato al centro di discussioni interpretative e critiche riguardanti paternità, datazione e iconografia. Il grandioso personaggio maschile appare infatti in stretta relazione con citazioni classiche tratte dalle creazioni dello scultore Prassitele (es. "Apollo Sauroctono") e nello stesso tempo è stato ritenuto in passato persino opera di Leonardo Da Vinci, per la presenza nel "Codice Atlantico" di uno schizzo a penna che può ritenersi un progetto per la figura. Successivamente venne attribuito dalla critica a Bramante, per via della vicinanza con gli affreschi eseguiti dall'architetto nella casa milanese di Gasparo Visconti, noti come "Uomini d'arme di Casa Panigarola", cui certo è avvicinabile la monumentalità e la forza della figura qui dipinta. Infine l'opera è stata assegnata al più giovane Bartolomeo Suardi, detto il Bramantino, probabilmente introdotto a corte tramite la mediazione del maestro, che qui fornisce una delle sue prove più alte sia per complessità dei contenuti che per referenze figurative.
Incerta è tutt'oggi la cronologia del dipinto. In una lettera scritta nel 1493 da Beatrice d'Este, duchessa di Milano, alla sorella Isabella, in cui la dama descrive le pitture presenti nel Castello, non si fa menzione all'Argo, così come nessuna descrizione del dipinto compare nei resoconti delle visite di omaggio fatte in occasione della nascita del primogenito di Ludovico il Moro, Ercole Massimiliano, avvenuta quello stesso anno nelle sale della Rocchetta. A tale data tuttavia la decorazione della stanza doveva apparire ultimata. Se infatti l'Argo venne rappresentato in occasione del trasferimento del tesoro sforzesco in tale area del Castello dalla Corte Ducale, allora il dipinto dovrebbe cronologicamente collocarsi tra il 1489 e il 1491, per poi essere in parte distrutto dal rifacimento della copertura del salone prima del 1499, durante il governo di Ludovico il Moro. I peducci che decapitano la figura infatti, presentano stemmi sforzeschi abbinati a quelli estensi, e dunque furono sicuramente realizzati durante gli anni di dominio del Moro, che ancora dopo la morte della moglie (1497) usava impiegare nell'araldica riferimenti alla famiglia della defunta moglie. All'epoca di Ludovico il Moro risalgono anche alcune ridipinture, eseguite a secco sopra l'originale affresco. Tra questi i due pavoni, la scritta (ormai scomparsa) sotto i medaglioni laterali - forse aggiunti per rendere più comprensibile l'enigmatico soggetto del dipinto - e il caduceo posto tra le mani di Argo. Questo strumento, di norma attributo iconografico del dio Mercurio, fu infatti una delle più importanti imprese di Beatrice d'Este, poi adottata anche dal marito e utilizzata infine dal loro erede.
Ignoto rimane il committente del dipinto. Trattandosi della Sala del Tesoro verrebbe da escludere una richiesta non riferibile ad un esponente della famiglia Sforza, tuttavia sull'affresco originale non sono presenti riferimenti araldici a nessun duca in particolare e dunque la critica ha suggerito di identificare il committente come un qualche colto cortigiano, che per qualche motivo non poté o non volle inserire espliciti indizi del proprio casato. Il candidato più probabile in questo senso potrebbe essere Giacomo Alfieri, custode del Tesoro che abitava nelle stanze attigue già dal 1491, quando il duca era ancora il giovane Gian Galeazzo Sforza.

Collocazione

Milano (MI), Raccolte Artistiche del Castello Sforzesco

Credits

Compilazione: Uva, Cristina (2015)

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