Ville tra architettura e paesaggio
Questo itinerario intende proporre più che un percorso vero e proprio, una lettura del paesaggio per meglio comprendere il ruolo delle ville e dei parchi nel contesto del lago di Como. Non è destinato al viaggiatore frettoloso, quanto piuttosto a chi ama cogliere con più calma l’essenza dei luoghi, che spesso sta nascosta dietro a ciò che normalmente si vede. Il modo consigliato è quello di farsi accompagnare da queste righe durante una navigazione in battello, che può fornire un punto di vista privilegiato sul paesaggio lacustre.
L’inizio di questo viaggio è d’obbligo con _I promessi Sposi_ di Alessandro Manzoni e la celeberrima descrizione del Lario:
bq. Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, ed un’ampia costiera dall’altra parte… Per un buon pezzo, la costa sale con un pendio lento e continuo; poi si rompe in poggi e in valloncelli, in erte ed ispianate, secondo l’ossatura de’ due monti e il lavoro dell’acque. Il lembo estremo, tagliato dalle foci de’ torrenti, è quasi tutto ghiaia e ciottoloni; il resto, campi e vigne, sparse di terre, di ville, di casali; in qualche parte boschi, che si prolungano su per la montagna…
Grazie a una straordinaria tecnica narrativa, Manzoni delinea un paesaggio in cui il maestoso scenario naturale tende a declinarsi nelle forme che l’uomo con il lavoro di secoli gli ha dato: piccoli poderi, coltivazioni e pascoli diventano così il contraltare alla grandiosità della natura. Da una parte il lago di Como, le sue boscose ed erte rive; dall’altra il paesaggio quale esito di natura e storia. Le attività dell’uomo - in questo caso quelle agricole - sottraendo alla montagna tutto il terreno disponibile attraverso il tipico sistema dei terrazzamenti, avevano via via plasmato il territorio; lungo i versanti scoscesi, fasce di diverse dimensioni, sostenute da muri a secco come enormi gradini asimmetrici, salivano verso le vette, nell’alternanza delle diverse coltivazioni: gelso, innanzi tutto, indispensabile alla redditizia catena della produzione della seta, e poi ulivo, vite e, nelle zone particolarmente favorite da un clima già di per sé clemente, anche gli agrumi.
Gli scorci del lago - i colori, gli odori e i sapori - suggerivano così un’atmosfera tipicamente mediterranea, un’atmosfera che il viaggiatore proveniente dal nord avrebbe poi ritrovato lungo tutta la penisola, fino alla Sicilia, ma che qui, nel contrasto tra le montagne innevate e i paesaggi subalpini, assumeva un fascino irresistibile. Le tonalità sorde del Settentrione lasciavano improvvisamente spazio all’esplosione di colori caldi, profumi dolci e temperature miti del Mezzogiorno, celebrati lungo i secoli da decine e decine di viaggiatori in lettere, diari, impressioni di viaggio e taccuini di disegni: _Questa è la zona più piacevole di tutta la Lombardia_ - annotava accanto ai suoi schizzi nel 1819 il pittore Johann Jacob Wetzel - _il clima è così mite che anche durante l’inverno non c’è bisogno di riparare gli aranci; vi si trovano le piante caratteristiche dei paesi più caldi d'Italia_.
Anche gli abitanti di Lombardia si erano sempre dimostrati sensibili alla _mediterraneità_ del lago di Como, quel particolare spicchio di riviera così vicino alle loro città, prediletto per edificare, fin dal XVI secolo, preziose dimore. Raffinate ville erano sorte lungo le rive o sulle colline in punti panoramici di straordinaria bellezza e con esse grandi parchi e giardini, spesso costituiti dall’unione di aree a carattere essenzialmente agricolo e di zone dedicate al puro ornamento; qui quelle stesse essenze mediterranee sovente tendevano ad assumere un ruolo estetico-decorativo nelle profumatissime spalliere di agrumi, nelle alte siepi di alloro e mirto e nelle interminabili file di cipressi.
Ma quale è la storia di una tale percezione del paesaggio? Il fascino del luogo era stato per la prima volta descritto dai due Plinii e sulla loro traccia, ancora nell’VIII secolo lo storico dei Longobardi, _Paolo Diacono_, lo decantava così, ricreando la percezione dei colori e degli odori
bq. I melograni rosseggiano da ambo le sponde per i lieti giardini. / Le fronde di mirto profumano sempre con le loro bacche (…) / Il cedro tutto vince con il suo profumo.
Dopo il Medioevo, il lago rinasce ancora sulle pagine dei due Plinii rilette dagli umanisti. Ecco sorgere le prime ville: una complessa operazione, in cui l’espressa volontà di progettare e costruire un luogo si intrecciava con un progetto ideale che vedeva uomo e natura al centro del creato. A partire dal XVI secolo si affermarono visioni innovative in cui le forme dell’architettura degli insediamenti sono generate da due impulsi: quello insediativo-agricolo che riguarda le comunità e quello che potremmo definire residenziale-estetico, espressione del singolo, cioè le ville.
Il primo si espresse soprattutto nei paesi adagiati sulla riva o a mezza costa, nelle costruzioni di maggenghi o “monti”, ma anche nei terrazzamenti dei pendii, nella estensione degli orti, nel mantenimento dei boschi: è il lavoro della comunità, degli abitanti tradizionali del lago.
La vita collettiva definiva le forme del paese: strade strette, vicoli erti, cortili e spazi comuni, affacci e viste verso il lago che si accostavano, si incrociavano, si sovrapponevano; costruzioni in pietra, tetti tradizionalmente in _piode_, aperture di finestre e porte non grandi, androni ombrosi, vani piccoli. Tutto questo è ancora oggi percepibile a chi allontana lo sguardo dalle rive – che hanno subito trasformazioni più consistenti e nel dopoguerra interventi di adeguamento alle mutate economie – per dirigerlo verso le località montane rimaste come ferme nel tempo, nei loro antichi nuclei.
Nel tessuto edilizio emergono le chiese e le cappelle, spazi in cui si esprime l’identità collettiva: i campanili, costante secolare del paesaggio lombardo, cadenzano ancora oggi la sponda e si ergono a segnare un paese, sia sulla riva che sulla montagna. Anche le ville diventano una cadenza ritmica della riva; seppur inizialmente estranee ai canoni del paesaggio locale per dimensioni e scelte estetiche; tuttavia rapidamente tendono a sublimare in spazi circoscritti e limitati le migliori caratteristiche del contesto.
Interessante è riuscire a comprendere il legame tra il paesaggio, le ville e la produzione agricola, che per molto tempo è stato l’elemento determinante della configurazione naturalistica di queste rive. Come si diceva il territorio lariano, con il suo clima mite e sereno si è sempre rivelato grande alleato dell’agricoltura seppur con il limite di una scarsa produttività dovuta alla ristrettezza delle aree coltivabili; gli insediamenti nascono con questa vocazione; anche le ville conservano in buona parte questa prerogativa e cioè di non essere solo luoghi di delizia ma grandi proprietà in cui l’agricoltura contribuisce al mantenimento di chi ci vive.
L’economia agricola si basava appunto su una integrazione fra ridotte superfici coltivabili ad arativi, castagneti e frutti del sottobosco, prati da sfalcio e pascoli. Importantissimo era anche il bosco: bosco controllato nei suoi cicli di crescita, diradato e sfrondato, riserva economica a lunga scadenza, raggiungibile da mulattiere, percorsi da sottili sentieri: regole e norme collettive per la gestione del bosco erano sacre come e più di quelle religiose.
Attorno agli insediamenti a mezza costa, confortevoli e solenni erano gli spazi del castagneto. Del bosco primitivo, complesso di essenze, erano stati selezionati solo i castagni, opportunamente innestati per migliorare la produzione, altrimenti selvatica. La selva di castagno, dopo la raccolta, per antiche convenzioni, veniva lasciata libera all’accesso comune, indipendentemente dalle singole proprietà: dopo il primo giorno di novembre poteva essere liberamente raccolto tutto ciò che era rimasto o avanzato per terra e sugli alberi.
Il risultato di queste ripetute operazioni era uno spazio confortevole, facilmente percorribile, finanche abitabile, dove la raccolta dei frutti poteva avvenire con grande facilità. Dal rapporto diretto con il bosco l’uomo passa al giardino; giardino come meta della ricerca della felicità. _Paradeisos_ è il termine greco che indica il giardino. La stessa parola è venuta a significare il Paradiso nella cultura giudaico – cristiana, nella tradizione mediorientale e nei paesi mediterranei.
Fare un giardino significa quindi recintare un luogo dividerlo da una realtà ostile, creare una piccola porzione di realtà più bella in quanto costruita dall’uomo secondo la propria migliore idea di natura. Quanto di più bello esiste in natura viene dunque ricercato, assimilato, capito, fatto proprio, compreso e desiderato. Il giardino diventa l’espressione di come l’uomo vorrebbe fosse la realtà: ecco dunque il Paradiso.
Ecco così che alcune delle ville presenti sulle sponde del Lario conservano ancora tracce di questa doppia natura, tra la dimensione umana del duro lavoro agricolo e la ricerca di questa bellezza quasi soprannaturale: "Villa Carlotta":/architetture/schede/CO160-00021/ a Tremezzo, "Villa Mylius-Vigoni":/architetture/schede/CO250-00262/ a Menaggio e "Villa Melzi":/architetture/schede/CO180-00312/ a Bellagio.
Le profonde trasformazioni del paesaggio rurale lariano nel corso dell’Ottocento non fanno venire meno questo binomio.
Le strutture sono ingrandite e nasce il giardino romantico. Tutto questo avviene attraverso l’aumento delle superfici coltivate, a danno dell’incolto e del bosco, e grazie alla proliferazione di colture arboree poliennali: vite, olivo e gelso, con lo sviluppo di filiere produttive sempre più specializzate ed orientate al mercato. Il forte carattere imprenditoriale, che i nuovi proprietari borghesi delle ville immettono nel sistema rurale lariano, si traduce in miglioramenti fondiari, accorpamenti di terreni, evidenziando come le attività agricole siano, ancora, l’elemento economico portante del modello sul quale ogni singola villa ha iniziato a reggersi.
All’inizio del Novecento, l’equilibrio comincia ad incrinarsi: lo dimostrano "villa Pisani Dossi":/architetture/schede/CO180-00123/ e "La Gaeta":/architetture/schede/1q030-00029/, una sul monte l’altra sulle acque, ma entrambe remote da quel che le circonda; grandi ma non grandiose, austere nel loro isolamento. Crolla il legame con l’agricoltura; scompaiono i gelseti ed anche i vigneti spostati in zone dotate di maggior produttività. Tuttavia il modello culturale che vede le ville lariane come parte integrante importantissima del paesaggio lacustre ha rallentato, in parte, il cambiamento che ha invece investito in maniera massiccia tutta la limitrofa zona pianeggiante.
Così l’assetto attuale del paesaggio nel suo complesso è profondamente mutato, dominato dall’evoluzione del concetto di tempo libero, trasformatosi rapidamente nell’espressione turistica di massa: le ville non costituiscono più quelle entità unitarie e fondamentali che, ripetendosi, scandiscono il ritmo del paesaggio con continuità, ma degli episodi ormai staccati ed indipendenti uno dall’altro.