680. Il Sole

Dal 1° gennaio 1868 (a. IV, n. 1) §Il Sole nuovo§. Dal 24 ottobre 1939 (a. LXXV, n. 252) §Il Sole§.

Sottotitolo Giornale commerciale e politico poi Giornale economico-finanziario-commerciale (anche Giornale delle riforme economiche e finanziarie), poi Giornale (quotidiano) commerciale-agricolo-industriale poi Giornale commerciale-agricolo-industriale-finanziario poi Giornale (Quotidiano politico…) del commercio, dell'industria, della finanza e dell'agricoltura poi Giornale dell'industria, del commercio, della finanza e dell'agricoltura.
Luogo Milano.
Durata 1° agosto 1865 (a. I, n. 1) - 30 dicembre 1945 (a. LXXXI, n. 166). Dall'8 luglio 1905 assorbe la società editrice de «Il Commercio». Nel 1965 si fonde con «24 ore» e dall'8 novembre di quell'anno (a. 101, n. 262) esce come «Il Sole 24 ore».
Periodicità Quotidiano.
Direttore Vittore Prestini poi Giuseppe Guerzoni poi Giuseppe Mussi poi Antonio Billia e Cesare Parenzo poi Pietro Bragiola Bellini poi Achille Bersellini poi Mario Bersellini.
Gerente Alessandro Lardera poi Umberto Giacomini poi i direttori.
Editore Il Sole - F.lli Pennocchio e C. poi Pietro Bragiola e soci poi Pietro B. Bellini e C. poi S.A. La Stampa commerciale poi S.A. La Stampa commerciale editrice de «Il Sole».
Stampatore Milano, Tip. F. Vallardi poi Tip. Bellini poi Tip. La Stampa commerciale.
Pagine Da 2 a 8.
Formato [Microfilm].

«Il Sole» nacque da un’idea del commerciante di seta Gaetano Semenza. Questi, nato a Sant’Angelo Lodigiano nel 1825, era un patriota amico di Mazzini che da tempo risiedeva a Londra, dove aveva ottenuto un certo successo economico occupandosi sia del commercio delle sete sia, all’inizio degli anni sessanta, del finanziamento delle linee ferroviarie sarde. Il Semenza interessò al suo progetto di quotidiano politico-economico l’editore milanese Francesco Vallardi e già alla fine del 1863 ne ottenne il sostegno. Secondo Piero Bairati, autore di un’esaustiva storia del quotidiano, la prima società editrice del giornale di cui si abbia notizia (nonostante che il «Sole» iniziasse le pubblicazioni il 1° agosto 1865) fu costituita il 20 dicembre di quell’anno, con la denominazione di «Il Sole. Fratelli Pennocchio e Comp.». Di essa facevano parte il Semenza, Francesco Vallardi (che per diversi anni provvederà alla stampa del giornale), i setaioli fratelli Pennocchio (uno di essi, Antonio, era cognato del Semenza) e Vittorio Ferri, i cotonieri Eugenio Cantoni ed Ercole Lualdi, nonché Pietro Brambilla e Filippo Weill Schott. Nel marzo 1871 fu creata una nuova società, l’accomandita "Pietro Bragiola e Soci", con Pietro Bragiola Bellini (direttore dal 1867), Gaetano Semenza, Eugenio Cantoni e Vittorio Ferri, che due anni dopo rileverà la quota di Semenza.

Fu appunto il Bellini che, a partire dagli anni ottanta e rastrellando via via le quote degli altri comproprietari (come nel 1888 e nel 1891, quando rilevò alla loro morte le quote di E. Cantoni e V. Ferri), creò quel sistema di dinastie di direttori-proprietari che caratterizzò il giornale sino al 1949. Così nel 1896 il Bellini divenne praticamente proprietario unico della nuova impresa editrice "Pietro Bragiola Bellini e C." L’8 luglio 1905, dopo l’assorbimento del quotidiano concorrente «Il Commercio», fu costituita la società anonima "La Stampa commerciale ", in cui Achille Bersellini, che aveva sposato l’unica figlia del Bellini ed era diventato il nuovo direttore, deteneva la maggioranza delle azioni, su un capitale complessivo di 750.000 lire. Altri azionisti erano G.B. Pirelli, l’on. Angelo Lucchini, Ernesto De Angeli, Gaspare Gussoni, Giovanni Tempini, Federico Selve della Banca Commerciale, Costanzo Cantoni, Tommaso Bertarelli della Banca d’Italia, gli eredi Sormani (già proprietari del "Commercio"), Cesare e Carlo Vanzetti, Giovanni Silvestri, Guido Sacchi, Giulio Borgomaneri, Achille Reina. A questi esponenti del mondo dell’industria, soprattutto tessile e meccanica, si aggiunsero nel 1909 Giacomo Feltrinelli, Angelo Dubini, Cesare Goldmann, Ludovico Mazzotti Biancinelli e Luigi Della Torre (procuratore della Banca Zaccaria Pisa).

Nel 1928 l’anonima si trasformò in "S.A. La Stampa commerciale editrice de «Il Sole»", in cui Achille Bersellini e il figlio Mario erano azionisti di maggioranza, mentre il resto delle azioni apparteneva a Ferruccio Bolchini (del Credito italiano), Cesare Goldmann e Guido Sacchi. I Bersellini, come si è già accennato, persero il controllo della società solo nel 1949, allorché dovettero cedere il capitale all’Istituto nazionale fiduciario del gruppo INA. In seguito, come è noto, la proprietà del giornale passò alla Confindustria, ma è interessante notare come per circa settant’anni il quotidiano economico comunemente considerato il portavoce più autorevole della borghesia imprenditoriale italiana, non ne dipendesse direttamente sul piano economico.

Per quanto riguarda la direzione del giornale, la situazione rimase alquanto instabile e, diremmo, confusionaria per i due primi anni di pubblicazione. Secondo il Bairati, il deputato democratico Giuseppe Guerzoni tenne la direzione del «Sole» dall’inizio fino al dicembre 1865 (ma un comunicato apparso il 10 agosto di quell’anno annunciava: "La Società degli azionisti del giornale «Il Sole» ha convenuto col Sig. Vittore Prestini, attuale direttore, di dare al giornale una direzione collettiva e di togliere alla stessa qualunque carattere personale"), quando subentrò l’ex-deputato della Sinistra e in seguito prefetto di Udine e di Gorizia Giuseppe Mussi. Nel novembre 1866 Mussi si dimise e la direzione passò a due redattori, democratici, del giornale: Antonio Billia (poi deputato della sinistra) e il futuro senatore zanardelliano Cesare Parenzo. Pochi mesi dopo, nell’aprile 1867, divenne direttore il Bragiola Bellini, che mantenne tale incarico sino alla morte, avvenuta nel 1902.

Era questi un patriota vicentino (era nato ad Isola Vicentina nel 1835) che nel 1853 si era rifugiato a Londra, dove aveva conosciuto Mazzini e aveva lavorato come tipografo presso la stamperia che pubblicava il periodico «Pensiero e azione». Ritornato nel 1860 in Italia, curò l’amministrazione del giornale mazziniano «L’Unità italiana» e, alla cessazione di questo, passò nel 1865 alle dipendenze del «Sole». Assuntane poi la direzione, risollevò le incerte sorti del giornale, dotandolo inoltre di una propria stamperia e di un’apposita agenzia pubblicitaria.

Gli successe nel 1902 il genero Achille Bersellini. Nato a Parma nel 1862, autodidatta, era stato assunto nel 1880 al «Sole» come impiegato amministrativo della tipografia. Passato alla redazione, ne divenne redattore capo, affiancando a tale incarico la stesura di alcuni fortunati manuali commerciali, nonché la cura di utili annuari informativi della serie del «Capitalista». La pubblicazione di opere di carattere tecnico-commerciale (va ricordato però che il Bersellini nutrì forti interessi anche le arti figurative, ciò che lo spinse tra l’altro a formarsi una pregevole collezione di quadri di pittori ottocenteschi) divenne così un’attività "collaterale" della società editrice del quotidiano, che nel 1924 aprì a Milano una libreria specializzata (La Stampa commerciale).

Nel 1926 Achille Bersellini affidò la direzione al figlio Mario, che la tenne fino al 1955, salvo il periodo 1943-45, quando quest’ultimo era impegnato nella sua attività antifascista (in quegli anni il giornale fu firmato da Enrico Papa, redattore da oltre quarant’anni, e poi dal vecchio Achille, che peraltro morì proprio nel 1945). Mario Bersellini era laureato in ingegneria agraria all’Università belga di Gembloux e all’agricoltura rivolse interessi anche di natura imprenditoriale (fu proprietario di aziende agricole nel Bresciano). Dal 1924 al 1941 scrisse opere sulla Tripolitania, la Francia, l’Inghilterra e l’Algeria; nel 1945, a guerra terminata, pubblicò un libro, Fra la guerra e la pace, "rievocazione a caldo del ventennio e degli eventi bellici" (Bairati) e un opuscolo di proposte economiche e politiche, La ricostruzione dell’Italia.

La gestione del quotidiano da parte dei Bersellini, così come del resto quella del Bragiola Bellini, non si allontanò tuttavia da una impostazione sostanzialmente artigianale basata sul massimo contenimento dei costi (ottenuto attraverso l’utilizzazione di pochi giornalisti, il ricorso massiccio a collaboratori esterni mal pagati o non pagati, l’uso sistematico delle notizie di agenzia) e su uno stile di lavoro ripetitivo e abitudinario, nel rispetto scrupoloso di una consolidata tradizione. E non è un caso che la struttura delle quattro - otto pagine del giornale rimanesse praticamente invariata dal 1865 in poi: notizie e commenti politici e di ordine generale, notizie e commenti economici, dati di mercato italiani ed esteri, oltre alla pubblicità e agli annunci economici. Pur ammettendo che la natura specifica del quotidiano non permettesse ardite innovazioni o voli di fantasia, rimane la sensazione che, anche rimanendo in ambito economico e specialistico, fosse possibile allargare il campo informativo e culturale.

La tiratura del quotidiano tra il 1866 e il 1867 non superava le 2.000 copie giornaliere. Solo dopo l’assorbimento del «Commercio», all’inizio del Novecento, quando evidentemente furono acquisiti i lettori del cessato giornale, si raggiunsero le 9.000 copie. Alla fine degli anni venti la tiratura era salita a circa 30.000 copie e tale si mantenne anche in seguito, se nel febbraio 1943 si parlava di 28.000 copie e nel dopoguerra il «Sole», che era quasi assente dalle edicole, contava circa 30.000 abbonati. A fronte di questa limitata tiratura, per quanto si può dedurre da questi dati sparsi e incerti, è però ragionevole credere che la diffusione reale del giornale, cioè i suoi lettori effettivi, fosse assai maggiore e del numero di copie vendute e di quelle stampate. Proprio perché il giornale si rivolgeva principalmente a imprese e operatori economici, il suo raggio di diffusione copriva fasce più ampie di lettori di coloro che acquistavano materialmente il giornale.

Non si può affrontare il problema della "linea" economica sostenuta dal «Sole», delle sue proposte, delle sue reazioni a singole questioni economiche e a singoli avvenimenti economici, nonché della sua impostazione di fondo, senza premettere che con ogni probabilità la stragrande maggioranza del pubblico del giornale, che non aveva né tempo né forse cultura per dedicarsi alla lettura di articoli di alta economia o anche di economia applicata (tra l’altro talvolta non particolarmente brillanti per snellezza giornalistica e perspicuità), cercava soprattutto nel «Sole» le necessarie informazioni di uso quotidiano: l’andamento della Borsa valori e dei mercati delle merci, i risultati delle società, le tendenze e le prospettive economiche generali e dei singoli settori produttivi.

Che una delle funzioni principali assolte dal «Sole» fosse quella di fornire agli operatori una base informativa e documentaria all’azione imprenditoriale fu del resto ben compreso dai responsabili del giornale fin dai suoi primi anni di vita e non a caso il quotidiano divenne via via "organo ufficiale" della Camera di commercio di Milano, delle Banche popolari consociate, dell’Associazione fra gli industriali cotonieri e Borsa cotoni, dell’Associazione dell’industria e del commercio delle sete in Italia, della Società internazionale dei tessili, persino dell’Associazione generale italiana di M.S. fra i viaggiatori di commercio e, più tardi, della Confederazione nazionale fascista dei commercianti. Inoltre Achille Bersellini diede impulso alla pubblicazione regolare di strumenti informativi di indubbio rilievo, quali ad esempio la rubrica, a partire dal 1903, "Società commerciali e industriali" (che dava notizie sulla formazione delle nuove società, sulle variazioni di capitale, sui bilanci e sulle relazioni dei consigli di amministrazione, ecc.) e, dal 1905, la riproduzione del testo integrale della relazione annuale del direttore generale della Banca d’Italia (è interessante notare che fin dal 3 agosto 1865 il «Sole» si proponeva di fornire una spiegazione "famigliare" del bilancio settimanale elaborato dalla Banca d’Inghilterra, a testimonianza del forte interesse "educativo" e divulgativo, sul piano economico, che animava il giornale).

Tutta questa messe ingente di informazioni, per non parlare del puntuale resoconto delle leggi - approvate dal Parlamento, o soltanto discusse o proposte - che in qualche modo coinvolgevano gli affari, rende il quotidiano milanese una delle fonti a stampa di tipo "indiretto" più importanti per lo studio della storia economica italiana postunitaria, con il vantaggio che la costante attenzione rivolta dal giornale alla situazione internazionale rende possibile un raffronto appunto quotidiano con le vicende estere in un’economia che stava sempre più diventando integrata a livello mondiale. Nel caso poi di articoli che assumevano la forma di rassegna dell’attività industriale di un determinato settore o di una certa zona, abbiamo a disposizione una fonte preziosa di notizie, talora più affidabili di quelle ricavabili da inchieste e statistiche governative. Infine i numerosi interventi, apparsi soprattutto dagli inizi del Novecento in poi, di grandi imprenditori o esponenti economici (da Alessandro Rossi a Ettore Ponti, da Camillo Olivetti a Ettore Conti, da Giovanni Agnelli a Alberto Pirelli, da Pio Perrone a G.E. Falck, da Benigno Crespi a Bonaldo Stringher; né si può dimenticare, per l’immediato secondo dopoguerra, il vicepresidente della Confindustria Danilo De Micheli), consentono di cogliere direttamente gli atteggiamenti generali e le posizioni su questioni concrete della parte più significativa della borghesia imprenditrice italiana.

È certo però che il «Sole» sin da principio nutriva ambizioni ben maggiori di quella di proporsi come anodino bollettino commerciale o di tribuna degli industriali. Il problema era che nei primi tempi gli stessi promotori avevano le idee piuttosto confuse a proposito della linea economica che doveva ispirare il giornale, a cominciare proprio da Gaetano Semenza, il quale, a giudicare almeno da una sua opera di quel periodo (L’Italia ricca e potente, London, 1866), non possedeva né un’esatta cognizione dello stato dell’industria nazionale né una visione lucida degli ostacoli che si sovrapponevano allo sviluppo economico del nostro paese. Non vi è allora da meravigliarsi che nell’articolo programmatico apparso nel primo numero (Il nuovo giornale, 1° agosto 1865) ci si limitasse a dichiarare: "Libertà delle banche. Abolizione delle dogane e dei dazi murati; libera coltivazione del tabacco, ecco i principi che arditamente e specialmente iscriviamo nelle nostre bandiere". Tali principi, piuttosto che "arditi" , erano insieme troppo limitati e generici e soprattutto di significato ambiguo per gli industriali finanziatori, tanto più che l’anno seguente il «Sole» respinse apertamente le aspirazioni protezionistiche che serpeggiavano tra gli imprenditori, ricordando loro che essi disponevano di "mano d’opera a miglior mercato degli altri fabbricanti d’Europa" (L’abolizione delle dogane, 20 ottobre 1866). Quanto prese di posizione di tal genere fossero gradite a un Cantoni o a un Lualdi (già quest’ultimo fieramente protezionista), è immaginabile. Se ne stupiva invece Giuseppe Mussi, che, scrivendo a Semenza il 12 dicembre [1865], osservava: "Bisogna convincersi che [a] questi signori Brambilla, Lualdi e Cantoni [...] non importi niente affatto della esistenza del «Sole» [... mossi come sono più] dal desiderio di avere un giornale che non li molesti nelle loro grandi speculazioni, di quel che averne uno che li difenda. La loro affezione al «Sole» è quindi negativa. Vogliono aiutarlo per non averlo nemico, ma se domani morisse ne sarebbero lieti". In realtà costoro temevano, tra l’altro, il liberismo velleitario e oratorio di cui il «Sole» si faceva portavoce ed è significativo che nel novembre 1866 si costituisse un "ispettorato di direzione" - composto appunto da Cantoni, Lualdi e Ferri - allo scopo evidentemente di controllare le esuberanze economiche, e come vedremo pure politiche, del quotidiano.

È interessante notare che i finanziatori non erano soddisfatti neppure del modo in cui il giornale svolgeva la sua funzione prettamente informativa di carattere commerciale, come appare da una lettera inviata dal Cantoni al Semenza il 21 gennaio 1866. Infatti il grande industriale cotoniero rilevava l’approssimazione con cui erano redatti i dispacci provenienti da Londra e Liverpool a proposito della situazione dei cotoni, un’approssimazione che tra l’altro aveva effetti deleteri sugli operatori. Bisognava invece distinguere le varie qualità della merce: "In tal modo il pubblico conoscendo le quantità vendute ed i prezzi d’ogni giorno viene ad essere informato perfettamente e cessa il bisogno di aggiungere la quasi consueta parola calma o debole, che intimidisce, senza fondati motivi, soprattutto il minuto commercio". Solo così, sottolineava il Cantoni, “il «Sole», servendo sempre più gl’interessi industriali del paese, si farà maggiormente accetto ed utile alla classe commerciale, in mezzo alla quale dovrebbe cercarsi i suoi migliori patrocinatori”. Era una concezione editoriale abbastanza diversa da quella sostenuta dal Semenza, che ad esempio, forse per ampliare la base dei lettori, insisteva sull’importanza di riservare largo spazio alle notizie teatrali (cfr. la sua lettera del 26 dicembre 1865 a G. Mussi).

Certo è che solo nel 1875 il «Sole» cominciò a sostenere una linea di prudente protezionismo doganale per le industrie (cfr. l’articolo Anche l’Italia ha il diritto di essere industriale, 26 novembre 1875) e sebbene più avanti le rivendicazioni protezionistiche divenissero più decise, i rapporti tra la direzione e i finanziatori non cessarono di essere contrastati. Riferisce infatti il Bairati che nei primi mesi del 1882 si verificarono attriti tra il Ferri e il Bragiola Bellini, l’uno più portato ad allacciare legami diretti con il mondo serico, l’altro portatore di una visione più ampia, attriti che condussero lo stesso Ferri, alleato con E. Cantoni, a tentare di estromettere il Bellini dalla direzione; nel contempo l’alfiere del protezionismo, Alessandro Rossi, premeva inutilmente per far inserire il fidato collaboratore Egisto Rossi all’interno della redazione del giornale. È anche vero che il «Sole» non poteva non tenere conto che in genere i setaioli erano filoliberisti, e ciò potrebbe spiegare l’esitazione con cui si intraprese la battaglia protezionistica; d’altra parte neppure l’indubbio orientamento industrialista del giornale si mantenne graniticamente compatto se ancora l’8 febbraio 1896 l’anziano Gabriele Rosa poteva sostenere in un suo articolo che l’Italia "è e deve essere eminentemente agricola. Per la natura del suolo, pel clima e per la storia sua!" (L’agricoltura in Italia).

La chiave per comprendere la difficoltà che si incontra a individuare una linea coerente di politica economica nelle pagine del «Sole» sta forse in un articolo del 26-27 dicembre 1887 (La situazione doganale) che, a prescindere dalla particolare questione trattata (le varie scelte protezionistiche), è illuminante sull’atteggiamento tipico del giornale: “«Il Sole», che riflette le varie correnti dei grandi interessi economici del paese, è premuto in vario senso dagli amici suoi; una parte di essi domanda l’autonomia delle tariffe doganali, senza troppo curarsi delle esportazioni e della loro tutela; un’altra parte di queste segnatamente si cura, inclinando al libero scambio. Il nostro giornale, che non è una chiesuola ristretta, e non si chiude nei dogmi angusti, accetta ospitalmente le opinioni degli uni e degli altri, ma ne professa una e propria, conciliante e temperata,. Noi crediamo che si sia battuta sinora dal Governo [...] la buona via, adoprandosi nello stesso tempo a tutelare le esportazioni, la marina mercantile e la pesca all’estero, e a meglio difendere il lavoro nazionale, senza inciampare negli eccessi del regime protettivo”.

In realtà il «Sole» non riuscì a svolgere di continuo quella funzione "conciliante", moderatrice e mediatrice che si attribuiva, e perciò ad assumere una "propria" autonoma posizione ispirata all’esigenza di convogliare in una sintesi razionale ed operativamente efficace il dibattito che rispecchiava i vari orientamenti e i vari interessi dei suoi lettori, ossia la borghesia che potremmo definire genericamente "d’affari". Spesso il giornale non fece che riportare, o a notevole distanza di tempo o persino contemporaneamente, le opinioni le più diverse e le più contrastanti, a tal punto che, nel corso dei suoi primi ottantatre anni di vita, è possibile cogliere su alcuni argomenti fortissime oscillazioni di pensiero.

Abbiamo così ad esempio nel 1893, in occasione dell’approvazione della legge sul riordinamento bancario, l’abbandono clamoroso del principio dell’assoluta "libertà" delle banche che aveva costituito sin dal 1865 uno dei pilastri dell’impostazione economica del «Sole». E se nel 1884 ci si mostrava favorevoli all’idea dell’esercizio statale delle ferrovie (Le convenzioni ferroviarie, 9-10 giugno 1884), al principio del Novecento l’opposizione nei confronti della nazionalizzazione si fece fermissima. E se la propensione per uno Stato cauto nelle spese e poco gravato di debiti fu una delle costanti del giornale, si diede nondimeno spazio ad A.B. Amati che il 27 gennaio 1910, allarmato del fatto che l’Italia non era militarmente "temuta" , invitava il governo a prendere ad esempio la Germania e ad aumentare convenientemente il debito pubblico In attesa del programma finanziario del ministero Sonnino).

Quando poi qualche collaboratore del giornale si arrischiava ad esprimere concetti un poco anomali o comunque in certa misura sgraditi a taluni ambienti economici, subito ci si preoccupava di aprire il contraddittorio e togliere l’impressione che fosse in qualche modo coinvolta la linea "ufficiale" del «Sole». Così nel 1921, di fronte alle perplessità avanzate a proposito di un salvataggio indiscriminato dell’industria siderurgica (Le ferrovie all’industria privata e il salvataggio della siderurgia italiana, 23 novembre 1921), insorgeva irritato lo stesso Giorgio Enrico Falck (Il preteso salvataggio della siderurgia italiana, 26 novembre 1921). Nei primi mesi del 1946 apparvero tre interessanti articoli (uno di Luigi Mazzonis, l’altro non firmato e il terzo di Mario Landi; 16 gennaio, 2 febbraio, 14 marzo): nel primo si valutava positivamente l’esperienza della statunitense Tennessee Valley Authority (il che poteva pericolosamente aprire la strada ad un’atteggiamento più conciliante nei confronti di un’eventuale nazionalizzazione dell’industria elettrica, che era sempre stata respinta dal giornale sin dall’inizio del secolo e ribadita durante la prima guerra mondiale in Le forze idroelettriche e i problemi del dopoguerra. Nostra intervista con l’ingegnere Ettore Conti, 8 dicembre 1917), mentre nel secondo articolo si sostenevano la possibilità e la convenienza economiche di un regime di alti salari; nel terzo infine si accettava esplicitamente il principio della nominatività dei titoli azionari. A tutti e tre questi interventi seguirono naturalmente numerose immediate e risentite repliche.

Durante il fascismo, come è facile immaginare, la pressione del regime aveva reso ancora più vistosa la pratica degli arretramenti o delle "correzioni di linea", in obbedienza alla volontà dell’autorità politica. Il caso più rilevante è costituito dalla questione della rivalutazione della lira del 1926-27, allorché il giornale passò precipitosamente da una posizione incline alla semplice stabilizzazione, o al massimo a una prudente e graduale rivalutazione, a un entusiastico sostegno delle drastiche scelte mussoliniane, nonostante qualche successiva sommessa valutazione critica, subito repressa, ad opera di Egisto Ginella. Oscillazioni simili si verificarono in merito alla politica economica seguita dal presidente americano Franklin D. Roosevelt, di volta in volta giudicata oggettivamente ispirata al dirigismo fascista oppure irrimediabilmente viziata dal tarlo democratico, a seconda del vento che spirava ai vertici del regime. Ma l’aspetto maggiormente paradossale fu, dopo lo scoppio della guerra, la partecipazione del «Sole», nonostante qualche isolata voce a timida difesa, a una violenta e confusa campagna "anticapitalistica", che porterà Mauro Mazzucchelli a vagheggiare una futura Europa hitleriana irrobustita dal "socialismo popolare sul fondamento dell’iniziativa privata" (Come è vista l’Europa futura, 30 luglio 1940; ma già in precedenza circolavano negli ambienti nazifascisti idee "anticapitalistiche", che Egisto Ginella il 5 novembre 1933, in La fine del capitalismo, aveva cercato di rintuzzare).

Va senza dubbio sottolineato che, in generale, la mutevolezza nel tempo o anche l’apparente contraddittorietà di alcune posizioni del «Sole» possono essere spiegate, oltre che dalla già ricordata necessità di far convivere quell’arco variegato di tendenze culturali-economiche esistente tra i ceti dirigenti del paese (elemento che si riflette nella schiera dei collaboratori, tra i quali figurano Luigi Luzzatti e Gaetano Cantoni, Manfredo Camperio e Gino Borgatta, Arrigo Serpieri e Federico Flora, Maffeo Pantaleoni e Riccardo Della Volta, Mario Alberti e Libero Lenti), sia dalla natura stessa del periodico (quotidiano, e quindi per definizione legato a un’interpretazione prevalentemente "giornaliera" dei fatti economici) sia dalla particolare visione dell’economia propria dell’operatore economico, a cui il foglio milanese si rivolgeva e che, coscientemente o meno, il «Sole» assumeva a lente interpretativa della realtà. Ci riferiamo al sostanziale rifiuto del dottrinarismo economico - come è esplicitamente ammesso nel succitato brano del 1884 - e all’adesione invece a un canone di giudizio fondato sull’interesse, non necessariamente strategico ossia a lungo termine, degli imprenditori. Ciò che insomma contava non era tanto la teoria economica liberale in sé, scientificamente e organicamente strutturata, quanto le aspettative (e ovviamente i risultati) di profitto delle imprese, e forse più precisamente di quelle imprese che in un momento storicamente dato "pesavano" all’interno del tessuto economico. Una visione pertanto prevalentemente strumentale, utilitaristica, e di conseguenza fortemente selettiva, della teoria e delle sue pratiche applicazioni: si tendeva a privilegiare l’aspetto della "convenienza" più o meno immediata piuttosto che quello della coerenza logica dell’analisi economica. sentita in fondo come una sovrastruttura estranea e artificiosa rispetto al concreto, complesso e diuturno fluire dell’attività produttiva e commerciale.

Tutto ciò non significa che nella lunga storia del giornale non siano rintracciabili dei "punti fermi", atteggiamenti e interpretazioni ricorrenti che non conobbero modificazioni o subirono soltanto qualche lieve mutamento di sfumatura a seconda dei tempi e delle situazioni. Ricordiamo la polemica antiumanistica e anticlassicistica, dalla quale discendeva la rivendicazione dell’importanza della diffusione delle scuole tecniche e professionali (così il «Sole» scriveva fin dal 12 ottobre 1866: "Quelli che oggi occorrono al nostro paese, non sono di certo né i poeti, né i filosofi, né i latinisti, né i grecisti; gli sono necessari bensì uomini dediti alle industrie, ai commerci, al lavoro...Nei ginnasi come negli istituti tecnici si abolisca la cosiddetta istruzione classica, si diffonda l’insegnamento delle lingue e delle letterature moderne, della storia delle nazioni che ci circondano, storia politica, commerciale e industriale..."); il continuo sostegno alle iniziative di aggregazione degli imprenditori attraverso le associazioni industriali di categoria o territoriali; l’incoraggiamento alla costituzione di società anonime, quale forma più avanzata di organizzazione del capitale e di gestione delle imprese; la difesa ad oltranza del ruolo insostituibile della Borsa valori, non solo come strumento propulsivo e insieme regolatore della raccolta dei capitali e in generale del mercato finanziario, ma anche nei suoi aspetti più spregiudicati, rischiosi e speculativi (e non a caso il «Sole» cominciò a togliere il suo appoggio al ministro De Stefani, fino ad allora assai apprezzato, quando quest’ultimo, nel febbraio 1926, volle porre dei limiti alla negoziazione dei titoli a termine).

L’avversione poi alle crescenti spese statali, intese sostanzialmente come sperpero e premio a parassiti e burocrati, non era che l’altra faccia della medaglia della tenace opposizione all’opprimente "fiscalismo" dello Stato, che intralciava e depauperava i produttori di ricchezza. Da qui nasceva la netta contrarietà (a parte i primissimi anni) al principio della progressività dell’imposta, all’orientamento verso la tassazione diretta anziché verso quella indiretta, all’imposta patrimoniale (definita il gennaio 1923 "ossequio al dilagante bolscevismo"; M.D., La patrimoniale. Lettera aperta alle LL. EE. gli onorevoli De Stefani e Rocco), alla nominatività dei titoli azionari (su questo punto cfr., fra i tanti, Vito Bellini, La nominatività azionaria è ingiusta e nociva, 13 ottobre 1948). Da qui nasceva anche l’appoggio alla protesta fiscale se non all’aperta evasione, come si verificò nel 1922, quando il quotidiano fornì il suo sostegno al Fascio nazionale dei contribuenti, che propugnava, tra l’altro, la disobbedienza fiscale.

L’idea di Stato accolta dal giornale era dunque quella classica del liberalismo. Ammesso che "allorché lo Stato, quasi invitato dagli sforzi delle private iniziative, cerca di assicurarne e di fecondarne gli effetti con tutti quei mezzi dei quali può disporre e pei quali la sua azione diventa complementare, esso è nella sfera naturale e obbligatoria del suo compito" (La sezione del lavoro, 5 febbraio 1896), da respingere senza appello era "la tendenza, ad un tempo di socialisti e di molti puri conservatori,...per lo Stato Provvidenza", per "lo Stato rimorchiatore ed aleggiante quando avremo la navigazione interna" o "commerciante nei docks, affittacamere ed albergatore nelle Terme d’Italia, industriale nei cantieri commerciale, e banchiere in una futura Banca di Stato" (M.M., Per i grandi servizi pubblici dello Stato; 26 ottobre 1905). Ciò che bisognava tutelare, come fu sottolineato il !6 gennaio 1947 in opposizione al programma economico vincolista di Alcide De Gasperi, era "la massima libertà d’azione per i produttori". Solo il 9 giugno 1918 (Le industrie e le banche) si esortavano "i gruppi industriali resi benemeriti per la guerra, dalla guerra fatti potenti" a prendere coscienza della "pubblica funzione" che avevano assunto e ad adeguare quindi a tale funzione "il contegno" e "il modo di agire", elaborando così dei concetti che rappresentavano, secondo P. Bairati, "quanto di più equilibrato il quotidiano economico milanese ha saputo esprimere sul piano della cultura industriale di questi anni" (va peraltro ricordato che il «Sole» sin dal 21 novembre 1915 aveva rivendicato la piena legittimità, sebbene entro certi limiti abbastanza generosi, dei sovraprofitti di guerra; Gustavo Deslex, Gli extra-profitti e l’industria nazionale).

Tali enunciazioni teoriche passavano tuttavia, come abbiamo già evidenziato, attraverso il filtro degli interessi reali e spesso variabili dei "produttori". È vero così che ad esempio il «Sole» si oppose nel 1883 alla politica di sovvenzioni alle linee di navigazione - la cui inefficienza era del resto dannosa ai "produttori" - o che combatté nel 1911 contro il progettato monopolio dell’Istituto nazionale delle assicurazioni, ma è certo che mal si conciliava con il liberalismo classico il fatto che il giornale, soprattutto a partire dagli anni ottanta, si facesse portavoce del protezionismo più spinto, compreso quello goduto dalle "bestie nere" dei liberisti ortodossi, cioè gli zuccherieri e i siderurgici, gli alfieri, per dirla con Giretti, del "succhionismo". D’altra parte se la politica del pur inviso Giolitti conteneva qualcosa di buono, questo si riduceva, agli occhi del giornale, al mantenimento del sistema protezionistico.

Un’unica e singolare eccezione all’adesione ai principi protezionistici si riscontra a proposito dell’agricoltura: se Vittorio Ferri il 5 dicembre 1884 parlava di "cosa vana" in merito a un’eventuale protezione agraria (La crisi agraria), ancora nel 1909 si osservava che con il dazio sul grano "non solamente si deprimono i consumi di una derrata tanto importante nell’alimentazione delle nostre popolazioni, ma si rallenta il cammino ascensionale e l’evoluzione industriale della nostra agricoltura" (A. Ciuffolini, La protezione dell’industria agricola, 1° marzo 1909). Evidentemente in questo caso o il «Sole» riteneva di non dovere rivestire un particolare ruolo di rappresentanza della classe degli agrari oppure ne rappresentava le frange più dinamiche economicamente e più moderne, in grado quindi di fare a meno, totalmente o parzialmente, della pesante impalcatura protezionistica (che in effetti, come ha sottolineato la recente storiografia, finiva per tutelare maggiormente l’agricoltura più arretrata).

La sempre vigile preoccupazione per i conti dello Stato non distolse inoltre il giornale dall’invocare nel 1907 il salvataggio della Società Bancaria Italiana, nel 1922 quello della Banca Italiana di Sconto e, negli anni trenta, dall’accogliere con favore tutte le operazioni che condussero alla fondazione dell’Iri, che ad onta di certe valutazioni contrarie (cfr. il saggio di S. Bartolozzi Batignani), ebbe senza dubbio un carattere di salvataggio, e di salvataggio assai oneroso, portando oltre tutto alla creazione di quella industria e banca "di Stato" che tanto ripugnava alla sensibilità liberale del «Sole». E nel 1948 non ci si esimeva, richiamandosi ad esempi dell’epoca fascista, di richiedere allo Stato una cospicua garanzia sui crediti derivanti dall’esportazione (Mario Bellardi, Esportare è indispensabile, 22 febbraio 1948). D’altro canto tutto questo insieme di contraddizioni con la "teoria" manifestate dal quotidiano non faceva altro che rispecchiare la linea di comportamento della borghesia industriale italiana, e a dire il vero non solo italiana, che ricorreva alle parole d’ordine del liberalismo economico classico solo quando e nella misura in cui ciò tornava utile.

Quale organo di stampa impegnato nel promuovere e sostenere il processo di industrializzazione, il «Sole» non poteva non confrontarsi con il problema della formazione e del comportamento della classe sociale che di tale processo era il prodotto: gli operai. Il giornale, soprattutto fino a che fu direttore Bragiola Bellini, non mancò di riservare attenzione, simpatia, e sensibilità verso le condizioni di vita e il percorso di maturazione sociale di questo ceto tipicamente di "produttori", sostenendone l’associazionismo (ed anche il cooperativismo, di cui ovviamente fu banditore e propagandista Luigi Luzzatti), deplorando il peso fiscale indiretto che gravava sugli operai e rincarava "oltre il dovere il vitto del povero" (tassa sul macinato, dazi sui grani e altri generi di prima necessità, dazio di consumo, alto prezzo del sale, ecc.; La Commissione degli scioperi, 28 febbraio 1878) e giungendo perfino a sostenere la legittimità da parte degli operai della celebrazione del 1° maggio, la cui proibizione era segno di inammissibile autoritarismo, oltre che essere controproducente (La dimostrazione operaia del 1° maggio, 25 aprile 1890). Nel 1901 poi ci si augurava che i socialisti stessero per "entrare decisamente in una fase più evoluta e pacifica dei rapporti tra capitale e lavoro, in quella fase che può chiamarsi della organizzazione commerciale del lavoro, che si muove sui cardini del contratto di lavoro collettivo" (Y., L’organizzazione commerciale del lavoro, 16 gennaio 1901), con l’importante accettazione quindi del principio della contrattazione collettiva.

Nella pratica però, quando i governi liberali cercarono effettivamente di prendere provvedimenti a tutela delle classi lavoratrici, il giornale si schierò su una posizione molto critica o di netto dissenso. Così nel 1879, in occasione del progetto di legge Cairoli sul lavoro minorile nelle fabbriche, si osservò che "se una legge di tutela venisse improvvisamente ad interdire in tutto o in parte il lavoro a queste foltissime falangi di braccia, grave detrimento ne risentirebbe la produzione nazionale" (V., Il lavoro dei fanciulli nelle fabbriche, 25 settembre 1879) e undici anni dopo Rodolfo Parravicini ribadì che "in un paese come il nostro, dove in alcune provincie le fanciulle a dodici anni sono già da marito e i fanciulli sono puberi...non ci può essere un limite preventivamente fissato per acquistare la capacità di lavoro" (Le tirannie della libertà, 6 aprile 1890). E analogamente nel 1890 e nel 1896 ci si opporrà, allineandosi sulle tesi difese ad oltranza da Alessandro Rossi, al principio dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, per la cui soluzione erano sufficienti la buona volontà e il senso di responsabilità degli imprenditori nonché l’istituzione di casse di assicurazione private.

Con il nuovo secolo e il moltiplicarsi delle agitazioni operaie la posizione del giornale si irrigidì ulteriormente. Se, come è immaginabile, gli scioperi circoscritti a una fabbrica o a un settore risultavano sgraditi, quelli generali erano visti come intollerabile "violenza" e aperta violazione della "libertà", dell’ "ordine" e delle "leggi" (17-21 settembre 1904). All’aspirazione dei lavoratori per migliori condizioni di vita e quindi per più alti salari, si contrapponeva l’inesorabile necessità del basso costo del lavoro, che "ha la sua ragione d’essere nella proverbiale sobrietà dei nostri operai" e che qualora non fosse rispettata condurrebbe le imprese alla rovina: "I nostri opifici più promettenti, creati dall’intelligenza e dalla perseveranza di tanti lavoratori, vedrebbero reietti i loro prodotti, sarebbero costretti all’inazione. Migliaia e migliaia di operai fino a ieri troppo fidenti nella possibilità di avere realizzati i loro crescenti desideri, rimarrebbero senza lavoro (Le agitazioni operaie e l’avvenire delle nostre industrie, 20 maggio 1907).

Si affermava dunque quella visione restrittiva del mercato interno, secondo la quale il ruolo della classe operaia in quanto consumatrice di prodotti industriali veniva nettamente svalutato, che fu portata avanti nel corso della prima guerra mondiale (quando, secondo P. Bairati, si propose una sorta di "modello autarchico basato sulla massima espansione delle esportazioni..., sul contenimento delle importazioni, sulla compressione dei consumi e sul controllo della domanda interna") e venne ripresa nell’immediato dopoguerra. Allora anzi il «Sole» ritenne indispensabile frenare l’onda espansiva del movimento operaio e revocare le sue più recenti conquiste: "Se fosse possibile - si scriveva in Note sulla crisi italiana del 13 luglio 1919 - abolire di colpo il diritto di sciopero...; se fosse possibile lavorare dodici ore, come i giapponesi; restituire i soldati alle officine e ai campi, toglieremmo ogni incertezza sulla continuità della produzione". E qualche mese più tardi si invitava a "correggere, senza indugio, uno degli errori imposti dalle agitazioni operaie dell’indomani della guerra: la codificazione della giornata di otto ore" (L’inno alla produzione, 16 ottobre 1919), limitazione d’orario che tra l’altro aumentava abnormemente il tempo libero degli operai, da essi malamente utilizzato.

L’anno seguente non solo l’occupazione delle fabbriche fu giudicata un’ "aperta ribellione alle leggi, al diritto, alla libertà, all’attuale regime sociale" (Una situazione insostenibile, 5 settembre 1920), ma venne rifiutata come assurda e irrealizzabile anche l’idea di una qualche cogestione delle imprese attraverso l’inserimento di rappresentanti operai all’interno dei consigli di amministrazione, un’idea che pure aveva riscosso un certo consenso tra alcuni economisti liberali, come Attilio Cabiati. Ormai lo scontro sociale era ai suoi massimi livelli e il «Sole», abbandonando l’equilibrio che gli è stato tradizionalmente e in parte a ragione riconosciuto, si schierò senza incertezze nello scontro di classe. Secondo il giornale "le classi cosiddette proletarie" erano costituite da privilegiati dediti all’alcol e alla gozzoviglia, mentre "le altre classi variamente produttrici di ricchezza e di servigi, stentano in una crescente inopia, schiacciate dalla riduzione dei redditi, dalla svalutazione delle loro funzioni, dal fardello crescente delle gravezze fiscali e del caroviveri" (M.D., Grano, pane e mercedi. La questione politica e la questione economico-finanziaria, 21 agosto 1920).

Abbiamo qui il tema, più volte riproposto anche in avvenire, delle crescenti ristrettezze economiche soprattutto della piccola e media borghesia e dall’altra parte dell’ingiustificato benessere di cui avrebbero goduto i lavoratori manuali. Il che significava da un lato sottolineare l’esigenza di conservare strenuamente le differenziazioni di classe e dall’altro insistere su una linea strategica di sviluppo economico fondata, come si è già detto, sul sottoconsumo popolare e la modestia del mercato interno. Erano concetti che vennero ripresi con ancor più nitida schiettezza nel proseguimento dell’articolo del 21 agosto, apparso il giorno successivo, a proposito della ventilata istituzione di un doppio regime dei prezzi del pane che avrebbe favorito i proletari a spese della borghesia, che già pagava le "provvidenze sociali", un sistema quest’ultimo che distoglieva la famiglia operaia "da ogni previdenza" e la spingeva allo "scialacquo". Era noto del resto che "l’esperienza fatta qua e là in Italia circa i due prezzi del pane, in corrispondenza però a due diverse qualità, hanno dimostrato che non già i borghesi, ma il proletariato acquista il pane più caro..., e mangia polleria e selvaggina quotidianamente, disdegnando le altri carni come consumi inferiori".

È singolare che questa condanna del consumismo delle classi inferiori, che tradivano la loro "proverbiale sobrietà" a favore di modelli di consumo che erano propri - e tali dovevano rimanere - delle classi superiori, assumesse più tardi nel «Sole» quasi un valore universale, tanto che dopo il crollo della Borsa di New York e l’inizio della "grande crisi" Alberto De Stefani individuò nella deprecabile mania consumistica degli americani (che acquistavano senza posa, a rate, "ogni sorta di oggetti di prima necessità e di lusso, mobili e vestiti, grammofoni e automobili") una delle cause di fondo dello sconquasso economico subito dalla potenza d’oltre Atlantico (Altre lezioni della crisi americana, 27 novembre 1929). Con ciò non solo dimostrando una notevole ristrettezza di idee, ma anche una totale incomprensione del modello di sviluppo realizzato dagli Stati Uniti, che proprio su un sistema di salari relativamente alti e sullo sfruttamento efficace di un ampio mercato interno di massa aveva costruito i suoi successi.

La politica restauratrice del fascismo giunse pertanto opportuna a ristabilire ordine, pace sociale e distinzione di ruoli tra "la mente che guida ed illumina e il braccio che eseguisce" (Collaborazione ed organizzazione industriale. A proposito d’una recente festa del lavoro, 14 luglio 1923), eliminando in particolare quell’accenno di rigidità salariale verso il basso che aveva cominciato a fare la sua comparsa nel primo dopoguerra. La richiesta di riduzione dei livelli salariali non era più, almeno ufficialmente, motivo di conflitto tra le parti e la circostanza fu prontamente utilizzata dagli industriali sia immediatamente dopo l’avvento al potere del fascismo sia in seguito alla brusca rivalutazione della lira e conseguente deflazione (cfr. Verso la meta, 7 maggio 1927). È interessante peraltro notare che il «Sole», pur strettamente fedele al regime, non esitò a esprimere perplessità di fronte a quei provvedimenti fascisti che, per quanto dettati da demagogia e chiaramente privi di obbiettivi conflittuali, aspiravano in qualche modo a scalfire l’autorità assoluta e le decisioni inappellabili dell’ imprenditore. Così l’estensione dell’obbligatorietà della competenza della Magistratura del lavoro al settore agricolo non fu accolta con favore, ammettendosene la necessità solo nel caso di "vero interesse pubblico", di "pericolo di un danno grave e imminente" (R.T., Sindacati e contratti collettivi di lavoro, 2 dicembre 1925). Anche la proposta dell’introduzione dei "fiduciari di fabbrica" fu giudicata con sospetto, in quanto poteva introdurre "nell’animo degli operai delle ragioni di distrazione, di sospensione e di minorata continuità d’applicazione" (Egisto Ginella, Problemi sindacali - I fiduciari di fabbrica, 20 agosto 1929).

Dopo la Liberazione il giornale continuò coerentemente, per quanto riguarda la manodopera, a proporre la sua linea di rigoroso contenimento del costo del lavoro e di rifiuto non solo di un maggiore potere, in funzione antagonistica, delle classi lavoratrici ma anche di qualunque ipotesi che potremmo definire "consociativista", che tendeva cioè ad inserire gli operai all’interno dei valori, dei criteri di gestione dell’impresa, in cambio di una compartecipazione al processo decisionale dell’azienda. A questo proposito, il «Sole» dovette presto confrontarsi con lo scottante problema dei cosiddetti consigli di gestione, al quale, in nome dell’efficienza dell’impresa, diede più o meno la stessa risposta che aveva fornito nel 1920: "Se l’opera della direzione di una impresa - si scriveva il 19 dicembre 1945 in un articolo non firmato dal titolo Consigli di gestione? - deve essere contrattata da un rappresentante dei lavoratori, perché non deve esserlo anche da un rappresentante dei consumatori o degli utenti? e da una rappresentanza dei creditori e da quelle dei fornitori di materie prime? e, nel caso di istituti di credito, da rappresentanze dei depositanti?". Per gli operai non era "piuttosto preferibile non aveva alcuna responsabilità nella gestione dell’impresa ed essere così in grado di pretenderne quelle condizioni di lavoro che meglio gradiscono e che ritengono comunque più opportune, anche se troppo gravose per l’impresa stessa?".

Benché questi argomenti non mancassero di robusto realismo, è certo che il quotidiano si guardava bene dall’ammettere le rivendicazioni operaie che si sarebbero rivelate "troppo gravose" per le imprese. Contrario già nel 1945 alla scala mobile e agli automatismi salariali, nel 1946 difese il sistema definito dai sindacati delle "gabbie salariali", che differenziava il livello del salario a seconda dell’entità del costo della vita nelle varie aree del paese, un sistema che di fatto consentiva un notevole risparmio nel costo globale nazionale del lavoro e riduceva la quota del reddito nazionale attribuibile ai lavoratori dipendenti. Quando poi apparve il già citato articolo a favore di meno meschine retribuzioni, il vicepresidente della Confindustria Danilo De Micheli si incaricò, in un articolo del 25-26 marzo 1946 (Il richiesto allineamento dei salari), di bocciare l’idea di elevare i salari con la giustificazione, da allora sino ad oggi rimasta immutata nelle dichiarazioni di parte imprenditoriale, che ciò avrebbe generato spinte inflazionistiche e causato aumenti non sopportabili dei costi di produzione.

Sin qui rimaniamo comunque sul terreno del freddo ragionamento economico, quello più proprio ad un giornale come il «Sole». Eppure lo stesso De Micheli nel 1947 toccò altre corde che non fossero quelle dei conti delle imprese e dell’economia nazionale. Prendendo a pretesto le sofferenze di una famiglia italiana profuga dalla Libia, egli ebbe modo di riflettere sull’ "odierna tragedia della nostra Patria": "Innocenti creature d’Italia scacciate da terre italiane...chiedono e supplicano il pane e il lavoro ed assistono dolorosamente stupefatte alla distruzione del pane e del lavoro ad opera di chi non apprezza l’inestimabile privilegio di avere quotidianamente assicurato sia l’un bene che l’altro. Nei giorni in cui più acerbo è stato il dolore di ognuno di noi per il forzato distacco dai più sacri lembi della patria...si è osato prospettare azioni di massa e prove rivoluzionarie, onde dividere ancora più i fratelli dai fratelli...Si ascolti finalmente il comandamento della propria coscienza, che è la voce di Dio, e si agisca e reagisca da uomini consapevoli del valore supremo di quella libertà che, dopo essere stata a duro prezzo conquistata, ci lasciamo oggi nuovamente strappare, schiavi dell’ignoranza, del conformismo e della paura" (Pianto di una madre, 2 ottobre 1947).

Va subito precisato che il ricorso a toni del genere, impregnati di moralismo patriottico-religioso, era affatto estraneo alla tradizione del giornale, che prediligeva invece, come abbiamo visto, linguaggi assai più franchi ed argomenti assai più rudemente concreti. Tuttavia, a ben guardare, l’insistenza sull’ "inestimabile privilegio" goduto dagli operai che avevano "assicurato" il "pane" e il "lavoro" (e dunque null’altro avevano da chiedere) si inseriva agevolmente in quello che era sempre stato l’atteggiamento del «Sole» nei confronti delle classi lavoratrici, le quali, almeno dall’inizio del Novecento, avevano già raggiunto un livello di vita dignitosamente adeguato "al loro stato", per usare un’espressione tipica dell’Ottocento, e quindi avevano poco da lamentarsi, a meno di sconvolgere l’ordine costituito e l’equilibrio sociale.

Altre erano le classi che si trovavano in precarie condizioni ed erano bisognose di tutela e di riconsiderazione, a cominciare dal ceto medio, oggetto già nel primo dopoguerra dell’accorata attenzione del giornale e ancora dopo la seconda guerra mondiale portato ad esempio di vittima dell’ingratitudine sociale. In un articolo in prima pagina del 1948, a commento di uno studio apparso sulla rivista dell’associazione dei dirigenti d’azienda, ci si soffermava sui problemi del ceto medio, cercando di spiegare le ragioni che avevano portato "[al] suo indebolimento economico, [al] suo sballottamento fra proletariato e borghesia capitalistica, [al] suo disorientamento in ogni dopoguerra in cui appare sempre più spossato". Era necessario che esso acquistasse "una chiara consapevolezza delle enormi possibilità, sia di autodifesa contro il proprio depauperamento sia di difesa dei valori della civiltà moderna, affermando il diritto all’esercizio di una funzione mediatrice fra le altre due classi in lotta". Bisognava insomma "guidare il ceto medio verso l’acquisto di una coscienza di classe e di una solidarietà di interessi integralmente operanti" (A., La crisi del ceto medio e i dirigenti d’azienda, 16 settembre 1948).

Si noti nel testo sopra citato l’uso di termini cari al linguaggio socialista ("proletariato", "borghesia capitalistica", "classe", "coscienza di classe" e persino "due classi in lotta", cioè lotta di classe). Molto più che con la prosa predicatoria e solidaristica di un De Micheli, qui il «Sole» si faceva portavoce, come era sempre stato, delle esigenze vitali e del processo di individuazione sociale (la "coscienza di classe") delle varie componenti della borghesia italiana. In questo quadro abbastanza rigido e diremmo di tipo "classista", trovavano inevitabilmente poco spazio considerazioni e linee interpretative più elastiche nei riguardi dei lavoratori, il cui posto e la cui funzione nella società parevano fissati e cristallizzati per sempre, come pure immutabile sembrava dovesse rimanere la quota di partecipazione del lavoro alla ricchezza nazionale. Non è strano allora constatare l’assenza quasi assoluta in 83 anni di vita del giornale di qualsiasi interessamento agli aspetti umani e psicologici del processo lavorativo, di cui evidentemente non era colta neppure la non trascurabile valenza economica.

È curioso che un quotidiano di informazione economica come il «Sole» nascesse con fortissimi e preponderanti interessi politici, fino al punto da rivestire il ruolo di foglio propagandistico elettorale dei suoi direttori e della cerchia dei loro amici politici, una scelta limitatrice che costerà cara sul piano della diffusione e delle vendite e che verrà modificata solo con l’avvento alla direzione del Bragiola Bellini. Fu questi a ridurre a spazi più ragionevoli e a criteri meno settari il peso della politica nella struttura del giornale.

Si deve comunque nettamente ridimensionare l’influenza mazziniana sulle posizioni iniziali del «Sole», che era stato concepito fin dal 23 dicembre 1863, come risulta da una lettera di Francesco Vallardi al Semenza, quale periodico fondato sui "principi direttivi" della "massima libertà" nel "rispetto della costituzione dello Stato", cioè della sua forma monarchica. E non a caso nel primo numero si citava, a lettere maiuscole, "Vittorio Emanuele - il re galantuomo", "fortunata e grande individualità" che aveva fatto "sparire ogni dissenso", gratificandolo inoltre dell’epiteto di "re soldato" (L’Italia; Roma e Venezia; 1° agosto 1865). Il giornale nasce dunque patriottico, filo-garibaldino e anticlericale, con un’impostazione politica che può essere definita grosso modo democratico-radicale, con tutte le oscillazioni e la vaghezza di posizione ideologica che tale schieramento comportava (del resto il «Sole» passava nelle sue simpatie da Carlo Cattaneo al principe di Bismarck).

Con la direzione di Bragiola Bellini venne abbandonata l’irruenza democratica dei suoi predecessori a favore di una linea più moderata. Tuttavia il piglio "progressista" del giornale non fu totalmente rinnegato ed anche in seguito è dato intravedere qualche residuo dell’originario radicalismo politico: infatti il «Sole» nel 1873 sostenne il progetto di Benedetto Cairoli che prevedeva di allargare il suffragio elettorale a tutti i cittadini maschi purché non analfabeti; nel 1875 si pronunciò contro la pena di morte; dal 1876 deprecò la pratica del "trasformismo" inaugurata da Depretis; dal 1887 si oppose all’autoritarismo di Crispi e alle sue ambizioni colonialistiche (alle quali contrapponeva la via di un più pacifico colonialismo commerciale), nonché all’incremento delle spese militari che tale colonialismo portava con sé; nel 1894 criticò severamente gli eccessi della repressione nei confronti dei Fasci siciliani e nel 1897 si mostrò in disaccordo verso l’interpretazione restrittiva e tendenzialmente autoritaria del regime costituzionale avanzata da Sonnino (il "Torniamo allo Statuto"); nel 1898 respinse la risposta unicamente repressiva che il governo attuava di fronte alle agitazioni sociali (ma poi il timore che si preparasse un’ondata rivoluzionaria prevalse e il giornale legittimò l’introduzione dello stato d’assedio ed appoggiò, con qualche perplessità da parte del Bellini, il secondo ministero Di Rudinì); nel 1899, dopo un’iniziale simpatia per il generale Pelloux, si schierò contro l’approvazione delle leggi "liberticide" in difesa dei diritti del Parlamento; infine nel 1901 accolse favorevolmente la svolta liberale rappresentata dal nuovo governo Zanardelli (anche perché vi era presente l’amico e vecchio collaboratore del giornale Luigi Luzzatti).

Si devono inoltre ricordare l’affidamento, dal 1872 al 1906, al repubblicano Felice Cameroni della rubrica di critica letteraria, il rifiuto dell’antisemitismo e la nobile partecipazione alla campagna in difesa dell’ebreo francese Alfred Dreyfus, come pure la precoce sensibilità per i problemi ecologici. A quest’ultimo proposito citiamo gli interventi, apparsi a partire dal 1896, del biologo naturalista Carlo Ohlsen contro la caccia (ma si veda anche l’articolo del 30 marzo 1910, dal titolo Pro avibus, in cui il prof. Giuseppe Loschi prendeva le difese, sottolineando la loro utile funzione in agricoltura in quanto distruttori di insetti e comunque quale parte essenziale dell’equilibrio naturale, dei "garruli abitatori" dei boschi, di quegli "uccelletti" che "si rallegrano sommamente delle verzure liete, delle vallette fertili, delle acque pure e lucenti, del paese bello").

Ad ogni modo, al di là di qualche spunto radicaleggiante, sta il fatto che il «Sole», con la direzione di Bragiola Bellini, simpatizzò per la Sinistra parlamentare liberale (con qualche prudenza però, perché il quotidiano milanese non poteva dimenticare che la Destra storica raccoglieva ampi consensi proprio tra la borghesia lombarda). In effetti un’affermazione del genere è forzatamente schematica e riduttiva. Infatti se ripercorriamo la lunga storia dell’atteggiamento politico del giornale dal 1865 al 1948, non è possibile riscontrare, a parte naturalmente gli anni del fascismo, un solo governo del Regno d’Italia e poi della Repubblica, che abbia riscosso con continuità l’approvazione incondizionata del «Sole». Anche i ministeri che in un primo momento parevano sufficientemente graditi, si rivelavano poi inadeguati soprattutto sotto il profilo economico: nessun governo mostrava di saper comprendere veramente le esigenze dell’imprenditoria italiana, anche se, è ovvio, vi erano governi più riprovevoli ed altri meno. Come spiegare questo ipercriticismo politico, che può essere giudicato quanto meno irrealista? Lo stesso Alessandro Rossi, un grande industriale che aveva compreso l’importanza della sfera politica, in una lettera al Bragiola Bellini del 28 settembre 1882, dopo avere osservato che il «Sole» era "moderatamente ministeriale", chiedeva che si assumesse un "maggior accento ministeriale".

In realtà l’atteggiamento del giornale non faceva altro che rispecchiare la tendenza tradizionale di fondo della borghesia italiana, e in particolare di quella industriale, che trovava fatica ad accettare il principio della mediazione politica, della necessità cioè dell’esistenza di un ceto politico professionale che, lungi dal costituire l’espressione diretta e immediata della borghesia o di una sua parte (quasi ricoprisse la carica di "consigliere delegato" in un’azienda), doveva invece porre in opera una continua opera di mediazione, di compromesso e di arbitrato tra le varie classi e gli innumerevoli ceti, e relativi interessi anche parassitari o illegittimi, della società, tenendo poi conto dell’interesse complessivo di conservazione, e quindi a lungo termine, dell’intera società e dell’economia. Ora, era ed è inevitabile che un governo di ispirazione liberale - quando pure sia abile, competente e teso al fine ultimo della difesa dell’attuale sistema economico - cerchi di tutelare, e non sempre ciò accade in modo coerente ed organico, una pluralità di interessi che va dal grande proprietario terriero latifondista al piccolo bottegaio e persino all’operaio di fabbrica, quando ciò sia ritenuto idoneo all’obbiettivo di assicurare la pace sociale o almeno di smorzare i contrasti di classe.

Appunto l’incomprensione di tali meccanismi fondamentali di funzionamento del sistema politico, ritenuto quasi un’escrescenza artificiosa e inutile della società reale e non come è in effetti un momento ineliminabile della gestione delle conflittualità generate da una comunità socialmente diversificata, spinse talvolta molti esponenti della borghesia produttiva ad abbracciare l’idea - insieme ingenua, primitiva e irrealizzabile - di saltare la fase della mediazione e intervenire direttamente nel gioco politico, o meglio di trasformare la politica in amministrazione specialistica di affari economici. Da questa convinzione nascevano ad esempio l’appoggio del «Sole», ai primi del Novecento all’ "effimero gruppo parlamentare industriale" (Bairati), o la dichiarazione, formulata nel pieno della prima guerra mondiale dall’industriale meccanico Giuseppe Silvestri che era "ormai tempo che nel Governo del nostro paese non avesse solo voce il fattore politico, ma avesse grande peso quello economico" (I problemi del dopo guerra. Provvedimenti proposti dall’Associazione nazionale fra gli industriali meccanici ed affini, 4 febbraio 1917; si veda anche, il 13 gennaio dello stesso anno, la pubblicità della rivista "Le industrie italiane illustrate", il perentorio appello - anzi più esattamente "il grido" - era "Diamo alla nazione una coscienza industriale"), o dopo la seconda guerra gli scritti di Mario Bersellini contro il sistema proporzionale e i partiti di massa o infine il favore con cui si guardò, in un articolo del 23 maggio 1947 (Democrazia sconfitta?), a un eventuale governo di "tecnici", mentre si cominciava a sottolineare la contrapposizione tra democrazia e partitocrazia.

In realtà, se ritorniamo indietro nel tempo, era proprio lo spirito democratico del giornale che si era progressivamente indebolito. Già nel 1890 il «Sole» aveva sostenuto il moderatismo, seppure industrialista, di Ettore Ponti e di Giuseppe Colombo, ma è con la direzione di Achille Bersellini che lo spostamento a destra si fa più netto. Il quotidiano allora si schierò decisamente contro Giolitti, al quale era preferito Sonnino (neppur esso d’altra parte, quando andò al governo, soddisfece completamente); tra il 1906 e il 1909 operò una veloce riabilitazione di Crispi e del colonialismo espansionista (cfr. Risveglio coloniale, 18 agosto 1906 e la lettera di Luigi Canzi pubblicata il 16 luglio 1909); nel 1911 fu contro il suffragio universale e, nella questione delle assicurazioni sulla vita, tacciò Giolitti di "completa dedizione al partito socialista" (Il culto della statolatria e il monopolio assicurazioni, 6 maggio 1911). Come ha scritto il sociologo Guido Baglioni, che ha dedicato pagine acute all’atteggiamento del «Sole» in età giolittiana, in quegli anni il giornale "perde definitivamente la sua originaria fisionomia e si accoda, senza distinzioni, al coro delle insofferenze della borghesia italiana verso i parziali mutamenti intervenuti nei rapporti sociali ed ai propositi di una restaurazione autoritaria ed affaristica".

L’opposizione poi al socialismo era ben radicata nel «Sole» (si veda l’articolo di Pietro Rota, Il socialismo, 25 agosto 1871, in cui si sosteneva che "la causa della miseria è fuori dell’ordinamento sociale, poiché essa risiede nella legge naturale che non si possa avere prodotti atti al soddisfacimento dei nostri bisogni senza l’opera consociata del lavoro e del capitale", da cui conseguiva che "quando è avvenuto un soverchio aumento di popolazione parte di essa trovisi condannata alla miseria, alla indigenza") e fondata su basi ideologiche e di principio, a tal punto che nel 1892 fu ignorata la fondazione del Partito Socialista e in seguito, salvo qualche isolata eccezione, non si cercò di distinguere tra le diverse componenti del movimento socialista, considerate tutte inaccettabili. Analoga scarsa attenzione fu riservata, in nome dell’anticlericalismo, al nascente movimento cattolico (del resto non era stato a suo tempo fatto alcun cenno dell’uscita dell’enciclica Rerum novarum).

Favorevole alla guerra di Libia, finalmente un "atto gagliardo" di Giovanni Giolitti (17 luglio 1913), allo scoppio del conflitto mondiale il «Sole» condivise il neutralismo di gran parte della classe dirigente (si veda l’articolo di condanna della guerra da parte di Luigi Luzzatti, dal titolo Potevano grandeggiare in pace per la gloria del genere umano!, 14 gennaio 1915), interessata alla prospettiva di ricavare vantaggi economici dall’assenza dei maggiori concorrenti sul piano internazionale (cfr. Emilio Guarini, La guerra economica e la sua importanza nell’ora presente. Espansione italiana verso l’America latina, 23 maggio 1915), poi si adeguò al clima patriottico che aveva prevalso nel paese.

Nel 1919 il giornale appoggiò l’impresa di Fiume (del resto i Bersellini erano sostenitori di Gabriele D’Annunzio). L’anno seguente ripresero gli attacchi all’imbelle Giolitti e alla sua politica considerata antiborghese, mentre in un articolo di Pietro Sacchi del 19 settembre 1920 (Errori di principio e provvidenze urgenti) si invocava lo stroncamento del sovversivismo ("Qui ci vuole la sospensione della libertà di rovinare l’Italia e tutte le classi che la popolano. Gli eccitatori all’odio e alla violenza sono nemici in patria e vanno fatti tacere almeno per sei mesi"). La violenta reazione dei fascisti, dei quali fin dal 20 ottobre 1920 (in Avvenimenti del giorno) erano stati apprezzati i "patriottici scopi", doveva quindi giungere benvenuta e se questi ultimi potevano commettere alcuni eccessi la responsabilità di fondo ricadeva su coloro che volevano condurre allo sfascio il paese. Non c’è bisogno di ricordare che tale era comunque l’opinione della grande maggioranza della borghesia italiana e dello stesso partito liberale.

MANCA PARTE FINALE DEL PROFILO, PERCHE' NON CI STA. DA AGGIUNGERE IN WORD.

R. Ro.

Raccolte: MI120: 1865-1945.