comune del territorio e delle valli di Bergamo sec. XV - 1797
La fonte legislativa primaria su cui si basava l’amministrazione comunale nella città, territorio e valli di Bergamo era rappresentata, nei secoli di antico regime, dallo statuto. Lo statuto, fonte normativa particolare di diritto territoriale, conteneva norme destinate a esaurirsi entro i confini dell’ambito territoriale su cui si affermava il potere della comunità, le quali avevano lo scopo di garantire l’attuazione di un sistema di controllo efficiente sulla vita giuridica e amministrativa, assicurare la prevenzione dei crimini, la riscossione dei tributi. Nel quadro della gerarchia delle fonti, le norme statutarie di una comunità rurale esistevano solo in quanto approvate dagli statuti cittadini e dalla legge veneta. Con il progredire degli interessi veneziani verso la terraferma, l’amministrazione dei comuni de foris (questa era la dizione con cui si faceva riferimento negli statuti di Bergamo ai comuni del contado) venne regolamentata sempre di più da disposizioni generali e particolari emanate dai capitani di Bergamo e dai sindaci inquisitori di terraferma.
Gli statuti cittadini, replicati dai diversi statuti rurali, indicavano il consiglio generale dei capifamiglia o vicini come perno della vita amministrativa comunale. Le norme che disciplinano l’attività di questa assemblea si desumevano dalle disposizioni statutarie che regolavano l’elezione dei funzionari del comune: il console, i sindaci e il tesoriere. Il consiglio generale era formato da tutti i capi famiglia d’età superiore ai diciotto anni e deliberava validamente con la maggioranza qualificata dei due terzi o a maggioranza semplice. In ogni convocazione dovevano essere elencati i nomi di tutti i componenti del consiglio per rendere ancora più esplicita l’obbligazione personale di tutti i componenti nei riguardi dell’autorità cittadina. Altri statuti locali indicavano varietà di maggioranze qualificate e diversi sistemi elettorali per permettere un’equa ripartizione e rotazione delle diverse cariche. In linea di massima, però, il cerimoniale seguito era il medesimo e prevedeva forme solenni secondo le quali il console, incaricato della convocazione e garante dell’adunanza, provvedeva a chiamare ogni capo famiglia e faceva avvertire la comunità intera col suono della campana della chiesa parrocchiale. I verbali delle adunanze venivano redatti a cura di uno scrittore o cancelliere comunale in registri appositi.
Il consiglio generale era anche il centro della vita politica della comunità: al suo interno venivano eletti il console e i consiglieri che a loro volta nominavano i sindaci. Alle deliberazioni del consiglio si attenevano il console e gli altri ufficiali.
Le mansioni del console erano trattate con precisione nei capitoli che prevedono l’obbligo per i comuni o i luoghi siti nel territorio di Bergamo con più di sei fuochi (cioè nuclei familiari) di eleggere almeno uno o due consoli. La mancata osservanza di tale disposizione veniva punita con una pena pecuniaria a carico del comune inadempiente. L’ufficio nei comuni aveva in genere durata annuale e l’elezione doveva essere eseguita in gennaio. Questa norma, che garantiva la rappresentanza dei comuni, era rafforzata da un’ulteriore precetto: il console stesso, appena eletto, doveva consegnare l’atto notarile che conteneva la sua nomina alla cancelleria della città di Bergamo. Egli aveva il compito principale di rappresentare e difendere il comune in qualsiasi azione processuale. L’importanza dello strumento di sindacato di cui il console veniva investito per l’esercizio della legale rappresentanza del comune era evidenziata dalla collocazione di queste norme nella seconda collazione degli statuti cittadini, quella che si occupava dello svolgimento del processo civile.
Il console aveva altri compiti specifici: su istanza del podestà o dei consoli di giustizia di Bergamo poteva procedere ad atti di esecuzione forzata, pignoramenti o sequestri di beni nei confronti di abitanti del comune o del comune stesso in virtù del mancato pagamento di tasse o altri oneri comunque disposti da Bergamo. Nell’ambito dell’esecuzione di sentenze civili, infine, misurava e stabiliva confini di terreni o case.
Per quanto concerneva invece la prevenzione e la repressione dei crimini, la partecipazione del console al processo penale era più immediata: era tenuto infatti a notificare e denunciare al podestà o al giudice al maleficio o, in casi specifici, al capitano di Bergamo, rappresentante diretto della repubblica veneta, entro quattro giorni tutti gli omicidi o ferimenti perpetrati nel territorio del comune. Nessun compenso era dovuto per tale importante attività, viceversa era prevista una pena pecuniaria, che variava in base alla gravità del crimine, per il console negligente, oltre alla possibilità che egli stesso venisse sottoposto a un procedimento penale.
Altre funzioni di minore evidenza rispetto a quelle sopra accennate vedevano il console impegnato a far rispettare nell’ambito del proprio comune disposizioni provenienti dalla città o comunque a garantire un collegamento continuo con questa: teneva presso di sé i pesi e le misure ufficiali necessari alle operazioni di commercio; era responsabile della manutenzione delle strade pubbliche e doveva rendere conto ogni anno al giudice alle strade dello stato di queste e dei ponti per cui fossero necessari lavori di conservazione: l’eventuale mancata attuazione di questa mansione esponeva lui ed il comune a una sanzione pecuniaria.
La disciplina statutaria che regolava l’attività dei consoli si completava con i capitoli che avevano come oggetto la cautio o provisio la quale accompagnava il giuramento e che doveva essere resa dai sindaci del comune al podestà e al comune di Bergamo: i sindaci giuravano fedeltà sulla loro vita e su quella dei vicini del comune obbligando sé, i propri beni, i beni del comune e quelli dei vicini. Alla cautio era obbligato anche il console che, sotto la minaccia di una sanzione pecuniaria, era tenuto a comunicare il nome di coloro che rifiutavano il mandato di sindaco.
Nel capitolo relativo alla cauzione venivano descritte le funzioni dei sindaci, simili nella sostanza a quelle del console. Essi assolvevano compiti di natura fiscale e tributaria, riscuotendo tassazioni imposte dall’autorità centrale, e partecipavano alle esecuzioni delle sentenze civili, pignorando e sequestrando beni su mandato del podestà; come il console, erano tenuti a denunciare i crimini commessi nel territorio del comune. Non esistevano quindi rilevanti differenze tra i compiti del console e quelli del sindaco secondo gli statuti, salvo che il console era investito della rappresentanza ufficiale del comune.
Anche i campari dovevano essere nominati in tutte le comunità formate da almeno sei fuochi, nel numero di due. La loro elezione veniva fatta nel mese di gennaio e doveva risultare da un documento pubblico; la loro nomina, entro i successivi otto giorni, doveva infine essere comunicata alla cancelleria prefettizia (la cancelleria del capitano di Bergamo) da parte del console che, se inadempiente, si esponeva alla pena della decadenza dell’ufficio.
I campari, traducendo letteralmente la norma statutaria cittadina, erano incaricati di custodire le terre, le possessioni e le acque esistenti nel loro comune, cioè sorvegliare contro i danneggiamenti. Giuravano al consiglio generale di esercitare legalmente il loro ufficio e di non accusare nessuno falsamente. Al camparo spettava un salario proporzionale all’estensione del territorio che era tenuto a sorvegliare; a tale salario, sempre secondo una regola proporzionale, contribuivano i proprietari e i possessori (a qualsiasi titolo) di terra nel territorio del comune. Negli statuti locali dei comuni di valle il conferimento della carica del camparo veniva di solito accompagnata da una serie di mansioni di controllo specifiche in relazione alla vigilanza di aree particolari del territorio e molte volte da tutta una serie di pene pecuniarie specifiche che egli poteva comminare in relazione a queste attività di vigilanza. Il camparo nello svolgimento delle sue mansioni poteva avviare un celere procedimento inquisitorio che si realizzava semplicemente accusando il danneggiatore su cui gravava l’onere della prova. Naturalmente per l’accusato esisteva la possibilità di accedere ad altri tribunali muovendo ricorsi all’accusa così formulata.
Gli statuti cittadini non contenevano alcuna norma specifica per regolamentare la composizione e la nomina di altri organi collegiali comunali, che spesso affiancavano i consigli maggiori o assemblee generali. I consigli minori (variamente denominati) rappresentavano nei comuni del contado l’organo cui veniva delegata in gran parte l’attività amministrativa. Solitamente la nomina dei membri di questi collegi era fatta in modo tale da garantire la rappresentanza di ogni singola contrada in cui si suddivideva il comune stesso. Talvolta era questo consiglio minore a tenere in realtà le redini della vita comunitativa, considerata la difficoltà di convocare il consiglio dei capifamiglia di tutto il comune.
Anche la figura del tesoriere non veniva trattata dagli statuti cittadini in maniera particolareggiata; forse perché, come nel caso del consiglio minore, anche il tesoriere viene considerato, implicitamente, un funzionario con specifica competenza ma non indispensabile nell’organizzazione comunale, dato che le sue funzioni potevano essere delegate a chi già ricopriva un altro incarico. La città di Bergamo considerava infatti responsabili dell’amministrazione console e sindaci.
In un comune, oltre all’organigramma di base costituito da consiglio generale, consiglio minore, console, sindaci, campari, tesoriere, trovavano spazio anche altri deputati o funzionari, come i ragionatori o calculatori, con compiti di redazione e revisione del bilancio, e i calcatori, incaricati di verificare e definire i confini del territorio e delle singole proprietà immobiliari private o comunali. Le funzioni di ripartizione dei carichi all’interno del comune tra i singoli abitanti veniva affidata agli estimatori. Nei comuni anche minori era quasi sempre presente un canevaro addetto agli approvvigionamenti di generi di prima necessità, quali vino e pane, per la caneva comunale. Oltre a essere un’osteria, la caneva era una sorta di spaccio di generi alimentari, e veniva solitamente gestita dal comune che ne appaltava la conduzione. Particolare rilievo assumevano nei comuni più grandi i conduttori di appalti per l’esazione dei dazi e i conduttori dei mulini e delle taverne.
A Giovanni da Lezze, capitano di Bergamo dal 17 aprile 1595 al 13 ottobre 1596, si deve la prima delle molteplici raccolte organiche di norme e disposizioni emanate successivamente agli statuti del 1491.
Questa serie di disposizioni amministrative accentuavano il valore preminente della legge veneta rispetto agli statuti cittadini: gli statuti delle città sottoposte al dominio erano validi in quanto approvati da Venezia e, una volta confermati, erano ritenuti essi stessi legge veneta, ma a un livello immediatamente inferiore, nella scala gerarchica delle fonti normative, rispetto alle leggi direttamente emanate da Venezia. Gli ordini dettati da Giovanni da Lezze nel 1596 non comprendevano disposizioni innovative circa le competenze dei funzionari comunali configurate dagli statuti locali, ma tendevano a rafforzare i collegamenti tra le istituzioni comunali e quelle cittadine con nuove norme e cautele da osservarsi nell’ambito della gestione contabile. Questo fu l’elemento più evidente anche nelle successive disposizioni emanate da capitani o da sindici inquisitori di terraferma.
Destinatari degli ordini erano tutti i funzionari che maneggiavano denaro comunale: consoli, sindaci, tesorieri, canevari, consiglieri o altra persona applicata a riscuotere le entrate. Per porre al riparo i comuni da frodi o malversazioni compiute dai loro funzionari, primo oggetto dei provvedimenti erano le scritture contabili che documentavano la gestione del denaro pubblico (Ordini 1596).
Altro punto nevralgico dell’assetto organizzativo istituzionale del comune era il momento del conferimento dell’incarico al funzionario: questo poteva avvenire attraverso le normali regole elettive o con l’acquisizione della carica all’incanto. Nel primo caso, il funzionario che aveva esaurito il mandato non poteva più ricoprire lo stesso incarico per un anno, salvi i casi di necessità. Nella seconda eventualità l’ufficiale poteva continuare a ricoprire il suo incarico, avendo dato prova di buona amministrazione, col rinnovo della garanzia o sigurtà (versamento di una somma in denaro) che aveva offerto al momento dell’asta.
Nel quadro di tali provvedimenti, che intervenivano nello sforzo di sanare i deficit di molti comuni, provati da una pessima conduzione amministrativa, merita anche particolare attenzione la normativa che intendeva dare ai bilanci dei comuni un assetto economico più solido attraverso una diversa gestione delle risorse comunali, in particolare dei beni patrimoniali, che potevano fruttare cospicue entrate attraverso gli incanti al migliore offerente (Ordini 1596).
Agli ordini di Giovanni da Lezze fecero seguito il 23 gennaio 1620 i “capitoli attinenti al territorio di Bergamo da essere pubblicati anco et registrati in quella città” emanati da Leonardo Moro e Marco Giustiniano “sindici, avogadori, inquisitori”. Di particolare importanza furono gli “ordini in proposito del governo e del maneggio de communi e territorio di Bergamo”, stabiliti dal Capitano di Bergamo Zaccaria Malipiero in data 1 luglio 1660, con cui venne riformato il meccanismo di prelievo fiscale nei comuni. Tuttavia con la riforma del 4 aprile 1673, “ordini e terminazioni fatte dagli illustrissimi ed eccellentissimi signori Marco Antonio Giustinian, Michiel Foscarini e Girolamo Cornaro sindici inquisitori in terraferma”, venne ripristinata la ripartizione dei tributi vigente prima della riforma del capitano Malipiero. Negli ordini per li communi e valli del territorio di Bergamo di Piero Grimani, Michiel Morosini e Zan Alvise Mocenigo II, del 17 maggio 1721, venivano indicate nuove norme per la composizione dell’assemblea del consiglio generale, che doveva essere composto per almeno la metà dai maggiori contribuenti. In particolare veniva precisato che tutte le terre e luoghi per minimi che fossero dovevano in ogni principio d’anno creare il proprio governo che lo rappresentasse e rispondesse a tutte le occorrenze. Il 30 dicembre 1732 vennero emanati i “capitoli ed ordinazioni stabiliti dall’illustrissimo et eccellentissimo signor Nicolò Donado”. L’ultimo importante intervento legislativo in questo campo si dovette ai sindaci inquisitori in terraferma Girolamo Grimani, Alvise Emo e Marin Garzoni che il 19 settembre 1770 emanarono ordini generali per i governi delle comunità e comuni. Si trattava di un insieme di disposizioni assai capillari che esaminavano, secondo uno schema per titoli, consigli, ballottazioni (sorteggi) di cariche, cancellieri, beni dei comuni, taglie, osterie, cittadini rurali e fattori, spese, istromenti, liti e ricorsi.
Va ricordato che tutto il periodo che intercorse tra la seconda metà del secolo XVII e la fine del secolo XVIII fu caratterizzato dalla vertenza nelle comunità tra forestieri e antichi originari per il godimento dei beni immobili destinati all’uso collettivo. La risoluzione di tale contrasto ebbe effetti che si ripercossero sull’amministrazione dei beni dei singoli comuni: soprattutto negli insediamenti pedemontani e montani dove si crearono enti appositi per la gestione di tali beni chiamati vicinie. Le assemblee preposte all’amministrazione di questi patrimoni erano composte esclusivamente da originari, vale a dire da persone che risiedevano nel comune e ivi sostenevano fazioni reali e personali da più di cinquanta anni (leggi venete 28 aprile 1674 e 7 settembre 1764). Nell’area bergamasca, tuttavia, la costituzione delle vicinie non si verificò sistematicamente (si citano a esempio Gromo e Castione della Presolana).
La presenza di enti che gestivano il godimento di beni destinati all’uso colletivo risaliva naturalmente a epoca assai più antica del dominio veneto. Come comunalia, infatti, ancor prima del diritto romano, erano identificate le pertinenza dei fondi di un certo villaggio (vicus). La permanenza dei comunalia in età medievale e gli obblighi connessi con la condizione di titolari di una proprietà comune creò di fatto i presupposti per la costituzione del comune rurale. Molto spesso tali enti si presentavano come consorzi tra comuni (per esempio il comune maggiore di Albino e il concilio di Onio) che rispetto ai comuni componenti avevano patrimonio autonomo e vita indipendente, tanto di dotarsi di statuti propri. In altri casi i patrimoni immobiliari destinati all’uso collettivo si configuravano come enti a sè stanti.
Il frazionamento della comunità in diversi insediamenti tra loro distanti, caratteristica frequente della media e alta valle nella provincia bergamasca fu un’altra costante della storia dell’amministrazione locale. La dislocazione dei diversi insediamenti condizionava lo svolgimento delle attività dei funzionari chiamati al governo del comune e rendeva difficile l’applicazione delle norme emanate dalla repubblica veneta. L’enorme numero di controversie sostenute nelle comunità a partire dal XVII secolo vide contrapposte frazioni di uno stesso comune o frazioni di un comune contro il comune di cui facevano parte. Molto spesso questi insediamenti, contrade o frazioni che fossero, erano popolati da parentele, i cui appartenenti avevano come principi di riferimento collettivo la solidarietà di residenza, i diritti di proprietà e d’uso sulle terre comuni e individuavano la propria chiesa come sede e destinazione delle loro stesse attività amministrative.
ultima modifica: 12/06/2006
[ Saverio Almini ]
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