comune del contado di Cremona sec. XVI - 1757
Già nel secolo XIII è testimoniata l’esistenza nella città di Cremona delle vicinie, organizzazioni di quartiere di origine precomunale, mentre i borghi nei pressi della città facevano vicinia a sè o erano aggregati a una delle vicinie cittadine. Verso la metà del XIII secolo ciascuna vicinia aveva il suo consiglio, i suoi consoli, il suo massaio e un proprio patrimonio. I consoli tutelavano l’ordine pubblico, in alcuni casi ripartivano e riscuotevano tasse e contributi per il comune. Secondo la matricola della società del popolo del 1283 (Montorsi 1961) le vicinie erano settantasette, numero che nel XVI secolo risultava quasi invariato.
L’organizzazione amministrativa delle comunità che componevano il contado cremonese, consolidatasi nel corso dei secoli secondo le tradizionali norme sancite dalle consuetudini e raccolte in alcuni casi negli statuti locali, può essere ricostruita attraverso la documentazione raccolta in occasione delle operazioni censuarie iniziate nel secolo XVIII da Carlo VI e terminate in età teresiana. Particolarmente utili sotto questo aspetto risultano le “risposte ai 45 quesiti” fornite dai cancellieri delle comunità alla giunta del censimento, nelle quali l’organizzazione comunitaria del contado appare strettamente intrecciata al sistema fiscale e trova la propria ragione d’essere nella compatibilità con il tortuoso e articolato sistema di ripartizione ed esazione delle imposte.
Caratteristica della vita locale era l’autonomia territoriale e amministrativa: vi era una rigida separazione tra un comune e l’altro del territorio cremonese, tra un comune e le cascine vicine, costituite spesso dalle abitazioni di fittabili e pigionanti di un grande proprietario aggregate al comune confinante solo fiscalmente, ma c’era anche separazione tra cascine confinanti, le quali, costituite da poche case che si definivano “comune”, si amministravano separatamente e separatamente pagavano la loro quota fiscale.
Tra gli organi amministrativi di ogni comunità, l’organo più rappresentativo era l’assemblea dei capi di casa, denominata per lo più consiglio generale o convocato, che si riuniva in via ordinaria almeno una volta all’anno, solitamente in un giorno di festa, nella pubblica piazza dopo il suono della campana, e in seguito all’avviso fatto recapitare agli interessati dal console. Sua prerogativa era l’approvazione dei bilanci, la ripartizione degli oneri, il rinnovo delle cariche comunitarie. Riunioni “straordinarie” erano invece indette per discutere problemi di particolare rilevanza o per far fronte a situazioni inaspettate e imprevedibili, provocate da calamità naturali, dalla guerra, dall’alloggiamento di eserciti, o ancora quando si trattava di approvare ulteriori aggravi finanziari a carico della comunità o di prendere decisioni che incidevano sul “patrimonio pubblico” (Superti Furga 1995).
È verosimile ritenere che anche in quelle comunità nelle quali il cancelliere (rispondendo ai 45 quesiti della giunta del censimento) dichiarava “non farsi alcuno consiglio”, in realtà, una volta all’anno, venissero comunque convocati i “capi di casa e gli uomini interessati” insieme agli ufficiali comunali per l’approvazione dei “riparti”, cioè nell’occasione in cui, comunicate le taglie assegnate a ogni comunità per le imposte annuali, provinciali e statali, veniva stabilito l’ammontare dell’onere per ogni contribuente.
Alla metà del XVIII secolo per molte delle comunità cremonesi era ormai affermata la prassi che tendeva a esautorare gli organismi di più vasta rappresentanza per affidare a un ristretto consiglio (denominato spesso consiglio particolare) sia le funzioni deliberative, sia tutte le competenze di carattere esecutivo. Questa tendenza inevitabilmente andò allontanando gran parte dei capi di casa dalla partecipazione diretta all’amministrazione, consegnandola ai gruppi più ristretti dei “maggiori estimati locali”, formati per lo più, ma non in modo esclusivo, dai proprietari terrieri. L’attività dei consigli era quindi subordinata al controllo delle persone più facoltose delle comunità, alle quali, sovente attraverso i loro agenti, a volte direttamente, era riconosciuta la possibilità non solo di intervenire in ogni momento della vita amministrativa comunale, ma soprattutto di vincolare alla loro approvazione le operazioni di ripartizione dei carichi fiscali. In alcun comuni il maggior estimato nominava il deputato al quale era affidato il governo della comunità, come nel caso di Barbiselle, Santa Margherita, Stagno Pagliaro, Straconcolo; in altri l’amministrazione del comune, era affidata al maggior estimato stesso, come nel caso di Cornale, Cà de’ Cagliani, Cà de’ Corti, Cantonada, Carpaneda, Castelletto Barbò e Castelnuovo Gherardi.
Per l’ordinaria gestione della vita quotidiana di ogni singola comunità prestavano servizio i consoli: uomini semplici che, per lo più incapaci di leggere e scrivere, delegavano ad altri la firma di atti e dichiarazioni, ma che, esperti conoscitori dei problemi locali, sapevano ben valutare gli oneri che gravavano sulla comunità. Nominato generalmente dall’assemblea dei capofamiglia, il console riceveva una modestissima remunerazione per svolgere compiti di polizia locale quali, a esempio, presenziare agli arresti e alle confische di beni, sporgere le denunce per i reati che venivano commessi nei territori del suo comune. Tali denunce dovevano essere presentate al “maior magistratus” a cui la comunità era giurisdizionalmente subordinata e nelle cui mani il console era tenuto, ogni anno, a prestare giuramento. Prestando giuramento presso la “banca criminale” del magistrato il console corrispondeva ogni anno una modesta somma, e prometteva di impegnarsi a svolgere le proprie mansioni con diligenza e scrupolosa applicazione delle norme sancite dalle nuove costituzioni e dallo statuto di Cremona (Superti Furga 1995).
Molte terre e borghi del contado nominavano anche dei sindaci ai quali erano demandate per lo più funzioni di carattere esecutivo o di controllo amministrativo.
Cancelliere e tesoriere completavano l’apparato amministrativo di ogni comune. Al cancelliere, talvolta non residente nel comune, spettava il compito di tenere in ordine i libri dei riparti delle imposte, i libri del bilancio comunale e tutte le “pubbliche scritture” della comunità. Spesso il cancelliere operava in più comunità e riceveva da ognuna di esse uno stipendio proporzionato alle incombenze e alla mole di lavoro che doveva svolgere, introito a cui si aggiungevano ulteriori compensi qualora egli si fosse dovuto recare nel capoluogo o presso comuni vicini.
In caso di necessità, la difesa degli interessi della comunità era demandata a procuratori speciali, investititi di poteri specifici e scelti tra gli esponenti più rappresentativi della realtà locale.
Unica persona legalmente riconosciuta per la riscossione delle imposte era infine il tesoriere, nominato generalmente ogni triennio, e che spesso si avvaleva della collaborazione di un esattore. Nel momento stesso della nomina, che solitamente avveniva per asta pubblica, tesoriere e comunità fissavano, oralmente o per iscritto, “i patti di convenzione” che stabilivano la scadenza dei pagamenti, l’interesse sulle somme non ancora pagate entro i limiti di tempo convenuti, l’onorario.
Il tesoriere aveva l’obbligo di pagare, entro la data prefissata dalla provincia e senza possibilità di dilazione, le imposte camerali e provinciali alla cassa del contado di Cremona usando del capitale proprio; in seguito doveva provvedere alla riscossione sulla base dei riparti che gli venivano consegnati dalla comunità presso cui prestava servizio. Doveva innanzitutto esigere dai singoli contribuenti la quota corrispondente ai carichi regi e provinciali; in secondo luogo provvedere all’esazione dei tributi per le spese locali. Egli, secondo quanto stabilito nei “capitoli di convenzione”, era tenuto inoltre a presentarsi nel comune in alcuni giorni di festa (generalmente tra la fine di settembre e l’inizio ottobre) per dare la possibilità a tutti i contribuenti di pagare la loro parte di carico; chi non avessero pagato la quota entro quindici giorni dall’arrivo del tesoriere, aveva l’obbligo di corrispondergli un interesse, detto “caposoldo”, di un soldo per ogni lira della quota di imposta. L’interesse si sarebbe duplicato a scadenze fisse in caso di ulteriori mancati pagamenti. Alla fine dell’anno successivo, come stabilivano i “capitoli di convenzione” con i tesorieri, per quelle somme che l’esattore non era riuscito a riscuotere gli era concessa la facoltà di “retrodare, ossia di imporre di nuovo la prima esazione sora i paganti e contribuenti” (Risposte ai 45 quesiti, 1751).
ultima modifica: 12/06/2006
[ Saverio Almini ]
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