comune dello stato di Milano 1755 - 1797
Con la “riforma al governo e amministrazione delle comunità dello stato di Milano” del 30 dicembre 1755 (editto 30 dicembre 1755), alle molteplicità di metodi di amministrazione comunale si contrappose un sistema uniforme valido per tutte le comunità minori dello stato. La riforma comunale teresiana costituì, come è noto, la diretta conseguenza della riforma catastale. Attraverso il catasto, i riformatori consegnarono agli “estimati”, ai possidenti tenuti al pagamento dell’imposta fondiaria, il controllo delle leve periferiche di un meccanismo istituzionale saldamente innervato al centro. Gli enti locali venivano dotati di rappresentanze elettive in ragione di un modello per la prima volta uniforme: le rappresentanze locali avevano da un lato il compito di coadiuvare lo stato nel riparto e nell’esazione dell’imposta, dall’altro quello di amministrare le finanze comunali e di convertirle in corrispettivi capitoli di spesa. In definitiva, in epoca teresiana i comuni lombardi erano stati concepiti per un verso come anello terminale della pubblica amministrazione, per l’altro come istituzioni di autogoverno della società civile locale (Meriggi 1994; Rotelli 1974).
L’unificazione amministrativa, resa necessaria all’interno di ciascuna provincia dello stato milanese dal venir meno delle antiche distinzioni tra estimi civili ed estimi rurali, fu attuata nel rispetto delle circoscrizioni territoriali esistenti, la città e il ducato di Milano, la città e il principato di Pavia, la città e il contado di Cremona, la città e il contado di Lodi, la città e il territorio di Como, il contado di Como e la valle Intelvi, la giurisdizione della Calciana e le cosiddette “terre separate”, che furono mantenute indipendenti dalle rispettive province: Treviglio nel ducato di Milano (editto 21 gennaio 1758 a), Castelleone, Fontanella, Pizzighettone e Soncino nel cremonese, infine la città e il territorio di Casalmaggiore, cui era stato conferito il privilegium civilitatis con regio dispaccio dato in Vienna il 6 maggio 1753 e a Milano il 2 luglio 1754.
Nei confini del ducato di Milano il consolidamento del potere esecutivo dello stato non si spinse per il momento a cancellare le antiche forme di autonomia, garantite dagli statuti locali, nelle città e borghi come Abbiategrasso (editto 16 dicembre 1757), Busto Arsizio (editto 23 giugno 1757), Gallarate (editto 14 dicembre 1757), Monza (editto 30 settembre 1757), Varese (editto 19 agosto 1757 a), che avevano forti tradizioni di autogoverno. Queste “norme particolari”, pur consentendo il mantenimento degli statuti locali, ribadivano fermamente il principio generale secondo cui gli “estimati”, cioè tutti coloro che figurassero a catasto per qualsiasi cifra come intestatari di beni fondiari non esenti e non solo i decurioni, membri delle antiche famiglie locali, potessero partecipare alla gestione della vita pubblica. Anche laddove, come nella zona montana del Lario orientale, i consorzi tra le comunità erano funzionali alla gestione delle risorse primarie. fu garantita una continuità del governo locale a un livello superiore rispetto a quello previsto dall’editto del 30 dicembre 1755.
La real giunta del censimento, con facoltà conferita dall’imperatrice Maria Teresa, diede esecuzione agli ordini di riforma del governo locale della Valsassina e del territorio di Lecco con due distinti editti nel 1757 (editto 16 settembre 1757; editto 19 dicembre 1757 b), posteriori di pochi mesi all’editto sulla compartimentazione territoriale dello stato di Milano (editto 10 giugno 1757).
Nella provincia comasca venne riformato con apposito provvedimento il governo della comunità di Gravedona (editto 11 novembre 1757).
In provincia di Lodi solo poche comunità ebbero particolari provvedimenti e tra il giugno 1757 e il febbraio 1758 vennero riorganizzati con riforme che tenevano conto delle locali peculiarità gli organi rappresentativi dei comuni maggiori: Codogno (editto 19 agosto 1757 b), Castiglione (editto 30 dicembre 1757 b), Borghetto (editto 19 dicembre 1757 c), Casalpusterlengo (editto 21 gennaio 1758 b), Maleo (editto 21 gennaio 1758 c), San Colombano (editto 4 febbraio 1758). Come già era avvenuto per la città di Lodi tra il 1755 e il 1757, la riforma riplasmò i consigli di queste comunità secondo criteri censitari.
Nell’ambito della provincia di Cremona riforme particolari furono emanate per le comunità di Castelleone (editto 15 febbraio 1758), Pizzighettone (editto 20 dicembre 1757) (che mantenennero il loro “status” di terra separata), Soresina (editto 22 febbraio 1758) e per il comune di Due Miglia presso la città di Cremona (editto 13 febbraio 1758).
Con la “riforma al governo e amministrazione della città e provincia di Pavia” del 27 gennaio 1756 venne introdotto anche nel principato di Pavia un criterio uniforme di amministrazione provinciale e comunale per mezzo di una serie di norme che le comunità dovevano seguire nonostante statuti locali e consuetudini contrarie (editto 27 gennaio 1756).
A parte gli ordinamenti particolari riconosciuti a un limitato numero di comunità dello stato, in base alla riforma del 1755 organo decisionale di ogni comune diveniva il “convocato generale” o assemblea degli estimati. Riunito almeno due volte all’anno, il convocato approvava il bilancio preventivo e consuntivo della comunità, controllava la ripartizione degli oneri, decideva sulle spese e le questioni di interesse comune. Nella prima adunanza dell’anno, che si teneva nel mese di gennaio, il convocato era chiamato a formare l’imposta per l’anno in corso, nella seconda, autunnale, era tenuto invece a eleggere la “deputazione”, formata da tre deputati dell’estimo, uno dei quali tassativamente scelto tra i tre maggiori estimati, da un deputato rappresentante di tutti coloro “descritti nel ruolo personale” (che pagavano cioè l’imposta personale) e da un quinto deputato scelto invece a nome dei sudditi “descritti nel ruolo mercimoniale” (soggetti cioè all’imposta mercimoniale). Organo di governo municipale, la deputazione, vedeva la preminenza della proprietà immobiliare: non solo i deputati nominati dai proprietari terrieri erano in maggioranza, ma erano anche gli unici a godere del potere decisionale; ai deputati del personale e del mercimonio restava un semplice ruolo consultivo e la facoltà di far presenti e difendere gli interessi dei gruppi che essi rappresentavano (Superti Furga 1979).
Alla deputazione veniva inoltre demandato il compito di nominare un sindaco e un console, le cui competenze non si discostavano molto dai compiti tradizionalmente affidati ai loro omologhi dei secoli precedenti. Al sindaco era delegata la facoltà di agire come rappresentante della deputazione per gli affari ordinari; la nuova normativa lo definiva infatti “naturale sostituto dei deputati comunali”, che per non essere reperibili avevano bisogno di una persona con “espresso incarico d’invigilare agli affari del comune, di ricevere, ed eseguire gli ordini de’ superiori, di far tutto quello che potrebbero far essi se fossero adunati” (editto 30 dicembre 1755).
Nella riforma fu anche stabilito che nelle piccole terre che per qualche motivo non si riteneva possibile aggregare ad altre l’amministrazione fosse provveduta da un sindaco sotto il diretto controllo del cancelliere delegato e dei sindacatori che lo affiancavano (Capra, Sella 1984).
Al console continuavano a essere delegati compiti di polizia e di amministrazione locale: pubblicava gli ordini emanati dal governo, indiceva le adunanze pubbliche, presenziava ad atti di natura fiscale e finanziaria. Il mandato dei deputati, del sindaco e del console era annuale. Triennale era invece la durata in carica dell’esattore, funzionario unico per ogni delegazione, abilitato alla riscossione delle imposte.
Al di sopra di questa nuova struttura amministrativa, il potere centrale vigilava attraverso particolari funzionari eletti dalla giunta del censimento e da questa strettamente dipendenti: i cancellieri delegati del censo.
ultima modifica: 12/06/2006
[ Saverio Almini ]
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