comunità e comuni della riviera di Lecco e della Valsassina sec. XIV - 1757
Dal suo sorgere nel XII-XIII secolo alla svolta epocale rappresentata dalla riforma teresiana del 1755, l’organizzazione del comune nel territorio orientale del Lario, compreso nel ducato di Milano, fu articolata su due distinti livelli: il pievano (“communitas”) e il vicano (“commune” o “commune loci”). Nel basso medioevo erano infatti già consolidate le comunità (denominate con maggiore frequenza nel XVII-XVIII secolo “comunità generali”) della Valsassina, di Lecco, di Mandello, comprendenti ciascuna diverse terre o luoghi formanti a loro volta dei “comuni” con propri organi e rappresentanti, e, a seconda della loro evoluzione storica, con o senza un estimo e un territorio distinti. Al di fuori delle comunità generali, Dervio, Bellano, Varenna, borghi lacuali (con una struttura, anche sociale, e un’economia che li distinguevano nettamente dai pur contigui paesi dell’entroterra), si affermarono come comuni e giurisdizioni a sè, con propri statuti. L’evoluzione dei governi delle comunità generali seguì le vicende storiche dei rispettivi territori: sempre informata a uno spirito democratico quella di Valsassina, condizionate dalla funzione strategica e militare quelle di Mandello e di Lecco, quest’ultima svoltasi lungo una linea nettamente aristocratica.
L’evoluzione giuridica verso l’istituzione comunale, tanto pievana che vicana, fu progressiva, ma se, come si è accennato, le vicende storiche, la posizione geografica, le risorse economiche furono fattori di differenziazione, il primitivo sviluppo dell’autonomia politica ebbe probabilmente una matrice comune in tutti i territori del Lario orientale. È infatti nella gestione dei diritti collettivi (sui pascoli, sui boschi, sulla pesca) che possono essere ricercate le basi dei primitivi organi amministrativi, da cui trasse origine il governo della comunità e del comune medioevale.
L’origine dei comuni nell’area dell’oriente lariano, coeva alla formazione dei comuni cittadini, traeva dunque origine dalla pur embrionale amministrazione comunitaria, sia per la gestione dei beni comuni (monti, alpi, boschi), sia per fronteggiare l’esazione fiscale, interessata a rivolgersi a una collettività piuttosto che al singolo. Nella loro configurazione iniziale, i comuni furono retti da consoli, le cui prime attestazioni, per la Valsassina e per la riviera orientale, risalgono alla seconda metà del XII secolo. In taluni casi, come è testimoniato negli statuti di Dervio, la compagine consolare fu costituita, analogamente ai comuni cittadini, dai gradi feudali minori e dai nuovi ceti in formazione, in altri, come nella vasta comunità di Valsassina, i consoli erano scelti a livello delle singole squadre in cui si erano organizzati i vici componenti la comunità.
Nella loro evoluzione verso l’autonomia politica, comunità e comuni si trovavano a coesistere con altre istituzioni, a loro estranee, che pure agivano sul loro territorio e nei confronti della loro popolazione: i comuni cittadini e i vescovi di Milano e Como, i signori feudali. La stessa esiguità di territorio e di popolazione non avrebbe consentito ai comuni vicani, formatisi all’interno delle comunità pievane, di affermarsi indipendentemente dalle istituzioni feudali e di assumere le loro funzioni. Il diritto di libera elezione degli ufficiali nei comuni vicani (consoli) scaturiva da una rinuncia espressa o tacita dei domini loci (Bognetti 1927; Solmi 1926; Solmi 1927; Aureggi 1957; Aureggi 1960; Aureggi 1961).
L’assemblea dei vicini, nel comune giuridicamente costituito, non formava più un organo meramente consultivo o limitato nelle sue funzioni di regolamentare l’utilizzo dei beni comuni, ma divenne un organo deliberativo, capace di esprimere ordini ai quali consoli e sindaci, eletti dalle vicinanze, dovevano attenersi. La concezione sostanzialmente democratica dell’istituzione comunale appariva in tutta chiarezza nell’esempio valsassinese: tutti i vicini avevano, all’interno dell’organizzazione comunale, gli stessi diritti e doveri, indipendentemente dal censo o dall’ascendenza nobiliare. Ben diversa fu l’evoluzione della comunità lecchese, nella quale il governo fu di tipo aristocratico, formato da rappresentanti eletti sì dalle vicinanze, ma con esplicito diritto ereditario.
Alla metà del XIV secolo, le comunità raccolsero le proprie leggi negli statuti, dividendole generalmente in due parti, civilia e criminalia. Varianti dai centocinquanta ai trecentocinquanta capitoli, gli statuti ci sono giunti nelle versioni in atto nel XIV secolo, per lo più rivedute da Galeazzo e Gian Galeazzo Visconti, in date oscillanti tra il 1370 e il 1390. È da ritenersi, tuttavia, che sostanzialmente ben poco tale testo sia variato da quello originario, che è da attribuirsi al XIII secolo, in tempo di comune podestarile: sono stati conservati fino a noi gli statuti di Mandello, Lecco, Valsassina, Bellano, Dervio, mentre sono andati perduti quelli di Varenna. Gli statuti contenevano le norme di governo podestarile, le leggi contro i delitti, il diritto familiare, la disciplina della convivenza negli abitati, le disposizioni per i rapporti con le comunità vicine, la regolamentazione delle attività, agricole in alcuni e anche manifatturiere in altri.
Si deve ritenere che il metodo di amministrazione della cosa pubblica locale si conservò intatto dalla formazione del libero comune in avanti e che il potere ducale prima e regio poi fu sempre visto come legittimo controllore dell’ordine e garante della sicurezza, oltre che interlocutore in caso di liti, che aveva come controparte l’imposizione tributaria. L’unico momento che vide i paesi del Lario mettersi contro la volontà del potere centrale dello stato fu quando apparve ineluttabile l’insediamento di signori feudali.
Nonostante le tenaci opposizioni (e i successivi tentativi di affrancazione), le circoscrizioni vallive e rivierasche del Lario orientale non riuscirono a evitare, a partire dai decenni compresi tra XV e XVI secolo, ripetute infeudazioni, comprendenti generalmente i diritti di giurisdizione civile e criminale e i diritti di esazione fiscale. Ai tributi pagati ai feudatari fiscali si aggiungevano non infrequentemente le spese, talora gravosissime, per gli alloggi militari. In un quadro economico globalmente recessivo, gli atti amministrativi delle comunità testimoniavano tuttavia, tra XVI e XVIII secolo, un geloso senso di conservazione dei beni comuni, un sentimento di giustizia sociale nella suddivisione dei carichi tributari, un’insofferenza delle prepotenze nell’interno dei villaggi. Non si notava, in definitiva, un cedimento di fronte alla sfiducia che l’inefficienza del potere statale (verso il quale le comunità avanzavano spesso ricorsi per irregolarità, frustrati poi nella pratica attuazione) tendeva a provocare: modifiche strutturali nelle forme di governo locale vennero come è noto solo con il governo riformatore austriaco.
Dal medioevo alla metà del XVIII secolo, la gestione dei beni comuni rimase dunque sempre alla collettività, sotto la guida di un capo scelto tra i capifamiglia all’interno del villaggio, mentre gli interessi della comunità pievana venivano gestiti dall’assemblea dei rappresentanti dei singoli comuni, sotto la guida dell’“anziano della pieve”.
Ogni villaggio conduceva i propri affari mediante decisioni prese dalla vicinia o vicinanza, ossia dall’assemblea dei capi famiglia (vicini), e applicava le deliberazioni per mezzo di uno o due consoli, mentre un fiduciario era delegato a rappresentare il villaggio, o comune minore, nell’assemblea del comune maggiore, o comunità. Tale doppio sistema di governo locale, con un affinamento delle norme legislative, si conservò invariato sino alla riforma teresiana. Il console del piccolo comune, quale agente esecutivo, era obbligato alla prestazione di un anno (o comunque un periodo limitato) e quindi scelto secondo un ruolino di turni tra i vicini, mentre il rappresentante fiduciario della vicinia, o sindaco, veniva confermato anche per lungo tempo, ed era tratto generalmente da famiglie nobili di origine feudale minore, sia pure ormai integrate a pari diritto tra quelle della vicinanza.
Benché l’amministrazione del comune vicano fosse certamente limitata, e passasse dallo stabilire le norme e i tempi per il taglio dei boschi, per il “carico” dei pascoli, per i raccolti, alle decisioni di intraprendere opera di bonifica e viarie, alla scelta di incaricati di polizia rurale e forestale (campari), tale forma di gestione si conservò intatta, come si è detto, fino all’epoca moderna: dall’epoca di affermazione del comune e di fissazione delle consuetudini locali negli statuti fino all’epoca teresiana (quando iniziò la politica di dismissione delle proprietà collettive, attraverso vendite o concessione di livelli perpetui), le terre comunali si presentavano in una delle seguenti condizioni: godute pro indiviso dai vicini (cioè dagli aventi diritto), e tale era generalmente il caso di alpi e pascoli aperti; suddivise generalmente in “sorti” (o “parti”), e ciò avveniva per i boschi, particolarmente per quelli vicini agli abitati e destinati a dare la legna per i focolari; date in affitto oneroso dalla collettività a privati, anche stranieri, ed era il caso applicato ad alpi e a boschi di particolare importanza. Le ripartizioni dei lotti e le deliberazioni degli appalti spettavano alle vicinanze dei comuni.
Gli stessi concetti che regolarono sin dai tempi più antichi la conduzione dei pascoli e boschi, si ritrovavano nell’attività della pesca. Ma se, per chiari motivi di convenienza, i dominatori che si susseguirono sulle terre del Lario non toccarono mai i possessi silvo-pastorali, incamerarono invece sovente i diritti di pesca, per distribuirli a beneficiari. Contro tale tendenza ci fu sempre l’irriducibile opposizione dei locali. Gli statuti dei borghi del lago ripresero e fissarono, per la gestione della pesca, le consuetudini precedenti: stabilirono che le acque fossero possesso della comunità dalla riva fino alla metà del lago. I vicini avevano il diritto di pescare con la “frosna” (fiocina), con la “molagna” di seta ed anche con modesti “tremagg” (reti piccole). Le grandi reti erano concesse solo ai “padroni del lago” o “conduttori della pesca”, cioè coloro che vincevano le aste pubbliche (“incanti”) per l’esercizio della pesca.
Le vicinanze venivano radunate in via ordinaria ogni anno, solitamente mediante suono della campana pubblica e preavviso personale a ogni capo di casa fatto dal messo o servitore del comune, che era l’incaricato di eseguire citazioni o precetti spettanti al comune.
Era compito della vicinanza ratificare l’elezione, che seguiva generalmente un pubblico appalto (annuale o triennale), dell’esattore, cioè di colui che aveva l’incarico di fare la riscossione (o “scoda”) delle imposte personali (focatico) e delle taglie, ripartite in base all’estimo, così come erano state approntate in appositi libretti dai consoli, dai sindaci o dai delegati all’amministrazione corrente del comune. Un cancelliere o notaro, responsabile della stesura di tutti gli atti interessanti il comune e talora anche dei libri di riparto delle taglie, completava il quadro degli incaricati o ufficiali del comune. Nei borghi più cospicui o anche nei minori, in caso di necessità, agivano stimatori e procuratori: i primi incaricati di eseguire perizie per conto del comune su beni mobili e immobili, i secondi di agire negli interessi del comune in cause o liti da sostenere verso l’esterno; i canepari erano responsabili della gestione finanziaria del comune; i canepari erano obbligati a rendere pubblicamente conto del loro operato, come era richiesto anche agli altri ufficiali del comune, e particolarmente ai sindaci, al termine del mandato.
Pur essendo analoga nell’origine e nell’impianto generale a quella dei comuni dell’entroterra, la struttura amministrativa dei borghi lacuali, dal XIV al XVIII secolo, si presentava generalmente più varia, in funzione delle diverse possibilità economiche (dovute ai proventi della pesca, alle attività artigianali e soprattutto ai traffici commerciali) e della diversa struttura sociale. In tali zone, più marcata risultava la preminenza di cospicue famiglie locali, che comparivano stabilmente a occupare le posizioni più in vista nei consigli comunali. Rispetto ai paesi delle valli, anzi, i consigli o consigli di comunità (generalmente ridotti per dimensione) si presentavano come assemblee intermedie tra il consiglio generale (vicinanza) del comune e gli organi esecutivi e amministrativi (consoli e sindaci o delegati), costituendo il vero fulcro dell’attività politica locale.
Negli statuti dei borghi lacuali e delle comunità pievane particolare rilievo avevano, come si è potuto intuire, le norme che regolavano il diritto di vicinanza, le condanne in caso di infrazione, gli oneri derivanti dalla condizione di vicino; prescrizioni erano date anche per chi cercava l’ammissione alla vicinanza e per chi invece volesse recedere dai suoi diritti di vicino. Tali norme avevano importanti riflessi nella conduzione ordinaria del comune (specie per quanto riguardava l’esazione dei carichi tributari), in quanto l’emigrazione, temporanea o stabile, della popolazione maschile adulta fu sempre assai elevata in tutte le valli del Lario orientale.
Anche se il diritto statutario stabiliva il diritto di accesso alla vicinia per i forestieri, nella realtà l’introduzione di elementi estranei fu sempre strettamente controllata, e in ogni caso permessa solo per concessione degli altri vicini. Questa tendenza fortemente conservativa, legata certamente all’esiguità delle risorse locali che permetteva nei fatti un’economia di sola sussistenza, contribuì a mantenere le comunità del Lario (specie nell’entroterra) strettamente legate ai propri antichi usi fino alla fine dell’età moderna, e in parte anche oltre (Pensa 1969; Pensa 1974-1977; Pensa 1981).
ultima modifica: 12/06/2006
[ Saverio Almini ]
Link risorsa: https://lombardiabeniculturali.it/istituzioni/schede/100073/