comune del contado di Lodi sec. XVI - 1757
Con l’inserimento stabile della città di Lodi e del suo contado nello stato milanese, attuatosi nel corso del XIV secolo, città e cives mantennero molti privilegi, soprattutto sugli abitanti delle terre del contado, pur dovendo inserirsi in un nuovo quadro politico. Nel contado di Lodi tra XV e XVI secolo si assistette quindi alla contemporanea presenza e complementarietà di legislazione principesca, comune a più parti del dominio, e legislazione statutaria, con gli elementi di particolarismo che tale legislazione comportava.
Come per il resto del ducato, anche per Lodi lo statuto cittadino, riformato per volontà di Gian Galeazzo Visconti e integrato dalla legislazione principesca, restò il principio giuridico fondamentale, tanto è vero che il podestà e gli ufficiali preposti al governo della città erano tenuti a giurare di rispettare gli statuti del comune (Inventario Lodi 1989).
L’organizzazione amministrativa delle comunità che componevano il contado lodigiano, consolidatasi nel corso dei secoli secondo le tradizionali norme sancite dalle consuetudini e raccolte in alcuni casi negli statuti locali, può essere ricostruita attraverso la documentazione raccolta in occasione delle operazioni censuarie iniziate nel secolo XVIII da Carlo VI e terminate in età teresiana. Particolarmente utili sotto questo aspetto risultano le “risposte ai 45 quesiti” fornite dai cancellieri delle comunità alla giunta del censimento.
Caratteristica della vita locale era la diffusa autonomia amministrativa: dalle risposte ai quesiti, infatti, emerge chiaramente che veniva definito “comune” anche uno sparuto gruppo di case, a volte una sola cascina, i cui abitanti si amministravano separatamente. Allora la vita amministrativa delle comunità si riassumeva quasi completamente nel disbrigo delle incombenze fiscali: l’attività del consiglio, degli ufficiali pubblici, degli esattori si concretizzava per la maggior parte delle comunità quasi esclusivamente nella partizione dei cavalli di tassa, sui quali erano ripartite diaria, imposte, spese straordinarie e ordinarie, e qualsivoglia altro onore richiesto al contado e alle comunità che lo componevano (Manservisi 1969).
Tra gli organi amministrativi di ogni comunità, l’organo più rappresentativo era l’assemblea dei capi di casa, denominata per lo più consiglio generale o convocato, che si riuniva in via ordinaria almeno una volta all’anno, solitamente in un giorno di festa, nella pubblica piazza dopo il suono della campana, e in seguito all’avviso fatto recapitare agli interessati dal console. Sua prerogativa era l’approvazione dei bilanci, la ripartizione degli oneri, il rinnovo delle cariche comunitarie. Riunioni “straordinarie” erano invece indette per discutere problemi di particolare rilevanza o per far fronte a situazioni inaspettate e imprevedibili, provocate da calamità naturali, dalla guerra, dall’alloggiamento di eserciti, o ancora quando si trattava di approvare ulteriori aggravi finanziari a carico della comunità o di prendere decisioni che incidevano sul “patrimonio pubblico” (Superti Furga 1995).
È verosimile ritenere che anche in quelle comunità nelle quali il cancelliere (rispondendo ai 45 quesiti della giunta del censimento) dichiarava “non farsi alcuno consiglio”, in realtà, una volta all’anno, venissero comunque convocati i “capi di casa e gli uomini interessati” insieme agli ufficiali comunali per l’approvazione dei “riparti”, cioè nell’occasione in cui, comunicate le taglie assegnate a ogni comunità per le imposte annuali, provinciali e statali, veniva stabilito l’ammontare dell’onere per ogni contribuente.
Tra i compiti del consiglio, ancora, vi era la nomina dei deputati alla congregazione del contado. Tale operazione, soprattutto per le comunità più piccole, doveva essere sollecitata comminando pene pecuniarie per evitare ritardi a causa della poca disposizione dei consiglieri (per lo più agricoltori) ad abbandonare il lavoro in momenti di particolare intensità, come quello della semina o del raccolto (Manservisi 1969).
Già a partire dagli ultimi decenni del XVI secolo anche in alcune comunità del lodigiano (Casalpusterlengo, Brembio, Cavacurta, Corno Giovine e Ospedaletto), con un’incidenza minore rispetto alle altre province dello stato milanese, si affermò la tendenza a esautorare gli organismi di più vasta rappresentanza per affidare a un consiglio ristretto, denominato spesso “consiglio particolare”, sia le funzioni deliberative, un tempo esclusiva prerogativa delle assemblee dei capifamiglia, sia tutte le competenze di carattere esecutivo. Tale pratica finì per allontanare gran parte dei capi di casa dalla partecipazione diretta all’amministrazione, consegnandola ai gruppi più ristretti dei “maggiori estimati locali”, formati per lo più, ma non in modo esclusivo, dai proprietari terrieri (a esempio nel caso di Ospedaletto). L’attività dei consigli risultava pertanto subordinata al controllo delle persone più facoltose delle comunità, alle quali era riconosciuta la possibilità non solo di intervenire, talora direttamente o attraverso agenti, a ogni momento della vita amministrativa comunale, ma soprattutto di vincolare alla loro approvazione le operazioni di ripartizione dei carichi fiscali. In qualche comune (Lanfroia, Valera Fratta) il maggior estimato nominava il deputato al quale era affidato il governo della comunità; in altri (Bonora, Cà de’ Zecchi, Campolongo) l’amministrazione del comune era affidata al maggior estimato stesso.
Per l’ordinaria gestione della vita quotidiana di ogni singola comunità prestavano servizio i consoli: uomini semplici che, talvolta incapaci di leggere e scrivere, delegavano ad altri la firma di atti e dichiarazioni, ma che, esperti conoscitori dei problemi locali, sapevano ben valutare gli oneri che gravavano sulla comunità. Il console era nominato dall’assemblea dei capifamiglia e riceveva una modestissima remunerazione per svolgere compiti di polizia locale quali, a esempio, presenziare agli arresti e alle confische di beni, sporgere le denunce per i reati che venivano commessi nel territorio del suo comune. Tali denunce dovevano essere presentate al “maior magistratus”, nella maggior parte dei casi il podestà di Lodi, a cui la comunità era giurisdizionalmente subordinata e nelle cui mani il console era tenuto, ogni anno, a prestare giuramento. Presso la “banca criminale” del magistrato, a cui per l’occasione la comunità corrispondeva ogni anno una modesta somma, il console prometteva di impegnarsi a svolgere le proprie mansioni con diligenza e scrupolosa applicazione delle norme sancite dalle nuove costituzioni e dallo statuto di Lodi (Manservisi 1969; Superti Furga 1995).
Molte comunità del contado nominavano anche dei sindaci ai quali erano demandate per lo più funzioni di carattere esecutivo o di controllo amministrativo.
Cancelliere ed esattore, più raramente quella il tesoriere, erano le cariche che completavano l’apparato amministrativo di ogni comune. Al cancelliere, talvolta non residente nel comune, spettava il compito di tenere in ordine i registri dei riparti delle imposte, i libri del bilancio comunale e tutte le “pubbliche scritture” della comunità. Spesso il cancelliere operava in più comunità e riceveva da ognuna di esse uno stipendio proporzionato alle incombenze che doveva svolgere e alla mole di lavoro, introito a cui si aggiungevano ulteriori compensi qualora egli si fosse dovuto recare nel capoluogo o presso comuni vicini.
In caso di necessità, la difesa degli interessi della comunità era demandata a procuratori speciali, investititi di poteri specifici e scelti tra gli esponenti più rappresentativi della realtà locale.
In pochi casi (Somaglia e Corno Vecchio) si è ritrovato l’esplicito riferimento alla presenza di un tesoriere al quale era demandata la responsabilità della riscossione delle imposte; al contrario, presenza pressocché costante in tutti i paesi era quella dell’esattore. È possibile che l’esiguo peso economico della grande parte delle comunità lodigiane abbia finito per influire sullo stesso apparato amministrativo comunale, riducendolo all’essenziale. Per il contado di Lodi, infatti, era soprattutto l’esattore a essere coinvolto nelle operazioni di tassazione. Nel momento stesso della nomina, che solitamente avveniva per asta pubblica, esattore e comunità fissavano, oralmente o per iscritto, “i patti di convenzione” che stabilivano la scadenza dei pagamenti, l’interesse sulle somme non ancora pagate, l’onorario. Il rilievo di tali accordi è attestato dal loro pressoché sistematico inserimento in copia tra la documentazione inoltrata dai cancellieri di comunità in risposta al questionario della giunta del censimento (Risposte ai 45 quesiti, 1751).
ultima modifica: 12/06/2006
[ Saverio Almini ]
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