La conquista franca del regno longobardo
I territori lombardi facenti parte del regno longobardo vennero conquistati dal re franco Carlo Magno nel 774, a seguito di una campagna militare avviata l'anno precedente che, dopo uno scontro decisivo avvenuto in Val di Susa, si concluse con la conquista di Pavia. Carlo Magno assunse quindi il titolo di rex Francorum et Langobardorum, inglobando il regno longobardo in quello franco. La conquista della Langobardia fu essenziale per i progetti espansionistici carolingi, costituendo una testa di ponte per il controllo di tutta la penisola italica, anche se rimasero escluse ancora una volte le terre dell'Italia meridionale.
Nella fase iniziale Carlo Magno preferì non sconvolgere troppo il preesistente ordinamento politico e amministrativo, lasciando duchi e funzionari longobardi al loro posto, e mantenendo come capitale Pavia. La conquista carolingia del regno dei longobardi non fu d'altronde accompagnata dalla migrazione massiccia di uomini provenienti dal regno dei franchi, bensì dalla sostituzione, graduale per quanto non indolore, del ceto dirigente.
Ciò si rese particolarmente necessario dopo una rivolta dei duchi dell'Italia nord-orientale, capeggiati da Rotgaudo del Friuli e appoggiati da Tassilone di Baviera (775). Carlo procedette quindi alla sistematica immissione di ufficiali pubblici e di vescovi reclutati tra i propri vassalli, provenienti da élites di oltralpe, sia franche, sia bavare, alamanne, burgunde, ovvero originarie da regioni di nuova annessione carolingia.
Ai longobardi, che comunque non vennero del tutto esclusi, furono dunque presto assimilate altre etnie importate dai vincitori carolingi. Il nuovo dominio franco si caratterizzò quindi sia per continuità sia per innovazione. La nuova impalcatura statale si fondò su elementi di ordine pubblico e personale al tempo stesso, dati i legami vassallatici che univano il re ai suoi rappresentanti, spesso tratti dal ceto ecclesiastico.
Il nesso tra franchi e papato, che aveva sancito la definitiva affermazione carolingia sui Merovingi in cambio del loro appoggio alla chiesa di Roma contro i longobardi, fu consacrato con la restaurazione dell'impero romano d'occidente. Il Natale dell'anno 800, Carlo ricevette a Roma da papa Leone III la corona imperiale, su acclamazione del popolo romano. La restaurazione dell'impero romano d'occidente, resa possibile dalla momentanea debolezza bizantina, fu in realtà parziale: l'impero carolingio comprendeva infatti solamente l'Europa centro-occidentale, vale a dire le odierne Francia, Germania, e Italia centro-settentrionale.
Il regno italico
Carlo Magno, pur continuando a operare una stretta vigilanza sui territori italici, nei quali accumulò in soggiorni successivi una permanenza complessiva di quattro anni, ne affidò il governo al figlio Carlomanno, che prese il nome del nonno Pipino. Questi, così come i suoi successori, assunse il titolo di rex Langobardorum: come recitavano le stesse fonti del tempo l'Italia carolingia, d'altronde, «era anche detta Langobardia» (Italia vero quae et Langobardia dicitur).
Alla prematura morte di Pipino nell'810 gli subentrò il figlio Bernardo. Sia Pipino sia Bernardo salirono al potere in giovane età e vennero pertanto affiancati da ecclesiastici e laici di grande esperienza politica, come Waldo abate di Reichenau, Adalardo abate di Corbie, e Wala conte di Corbie, tutti uomini di fiducia di Carlo Magno. Questa organizzazione rispecchiava il peculiare ordinamento pubblico creato dai Carolingi, imperniato sulle fondamentali figure funzionariali dei conti, dei marchesi, e dei missi dominici.
Nell'818 Bernardo si ribellò allo zio Ludovico il Pio, nel frattempo asceso al trono imperiale dopo la morte di Carlo Magno (814). Nell'817 Ludovico, con un provvedimento noto come Ordinatio imperii, aveva infatti predisposto una successione che avrebbe escluso dal trono italico Bernardo, pur designato re da Carlo Magno, privilegiando i suoi propri figli: a Ludovico detto il Germanico sarebbero spettati i territori orientali dell'impero carolingio, a Pipino quelli occidentali, mentre quelli centrali, compresi in una lunga striscia che dal nord Europa arrivava sino al sud inglobando le due capitali dell'impero, Aquisgrana e Roma, sarebbero pervenuti a Lotario, il quale avrebbe anche avuto diritto alla corona di re d'Italia e di imperatore.
In questo quadro non vi era dunque spazio per Bernardo e per un regno d'Italia separato dal resto dell'impero. Conti e vescovi delle terre lombarde parteciparono in maniera diversa alla rivolta di Bernardo: mentre i rappresentanti dei poteri pubblici ed ecclesiastici di Milano e Cremona si mantennero a lui fedeli, il conte di Brescia Suppone si schierò con Ludovico, ricevendo in cambio l'ambitissimo ducato di Spoleto. Bernardo, una volta sconfitto, venne condannato alla pena dell'accecamento, morendo per le conseguenze della ferita.
La sua morte aprì una fase di vuoto di potere e di intermittenza politica nel regno d'Italia, durante la quale si affermarono le iniziative autonome di conti e vescovi. Solo nell'822 Lotario riuscì a farsi incoronare re d'Italia, ma la situazione di instabilità non mutò, anzi si accrebbe quando otto anni dopo anche Lotario si oppose al padre, rifugiandosi in Italia dove pure trovò l'opposizione di personaggi fedeli all'imperatore Ludovico il Pio. Nell'843 Lotario, dopo strenue lotte contro i fratelli per la successione al padre conclusesi con il trattato di Verdun, ottenne il titolo imperiale e con esso il regnum Italiae.
Egli aveva però di fatto da tempo rinunciato ad esercitare qualsiasi funzione in Italia, delegandone l'amministrazione ai suoi fedeli e al figlio Ludovico II, il quale nell'844 venne incoronato rex Langobardorum e nell'855 imperatore. Ludovico, nato e cresciuto nel cuore della Langobardia, tra Milano, Brescia e Pavia, impresse quindi una svolta nel governo del regno italico, ora più al centro che in passato degli interessi carolingi.
A lui si deve il tentativo di frenare il processo di dissoluzione dell'ordinamento carolingio che però era ormai in atto in tutti i territori dell'impero e che giunse a compimento nell'888 con la deposizione dell'ultimo imperatore carolingio, Carlo il Grosso. Con la fine dell'impero si aprì una nuova fase per il regnum Italiae che cessò di essere prerogativa dei Carolingi per essere conteso dai grandi del regno, in particolare dalle famiglie ducali di Spoleto e del Friuli.
Le istituzioni civili
Comitati e marche
Superata la fase di conquista del regno longobardo, emerse l'esigenza di dare un assetto amministrativo ai territori di cui i franchi avevano assunto il controllo. Vennero così istituiti anche in Italia i comitati e le marche, a capo dei quali furono preposti funzionari pubblici denominati rispettivamente conti e marchesi.
Questi rappresentanti in sede locale del potere centrale furono quasi sempre legati a Carlo Magno, e ai suoi successori, da un rapporto di fedeltà vassallatica. Solitamente i comitati in Italia rispecchiarono l'antica distrettuazione di impronta romana, che già aveva condizionato quella diocesana, mentre le marche furono più estese, in quanto risultanti dall'insieme coordinato di più comitati situati in aree strategiche di frontiera e di forte connotazione militare. I franchi non riuscirono però ad estendere l'istituto comitale a tutte le regioni del regno italico. In Friuli, nella Tuscia, a Spoleto ad esempio sopravvissero le organizzazioni amministrative dei ducati già longobardi, simili per estensione e funzioni alle marche. Conti e marchesi non venivano retribuiti in denaro: in cambio del loro servizio e della loro lealtà essi ricevevano un appannaggio, che inizialmente consisteva in terre, tratte per lo più dai patrimoni fiscali ed ecclesiastici.
In un secondo momento la stessa carica pubblica, l'«onore» comitale, dal momento che apportava numerosi vantaggi e privilegi anche economici a chi la deteneva, venne essa stessa considerata alla stregua di un beneficio. I pubblici ufficiali potevano infatti trattenere una parte dei proventi derivanti dall'esercizio delle loro funzioni sotto forma di ammende, pedaggi, gabelle. Compito di questi funzionari era soprattutto mantenere la pace e l'ordine, amministrare la giustizia, e arruolare i liberi atti a portare le armi. Il conte era assistito da ufficiali inferiori, visconti e sculdasci, dagli scabini, esperti di diritto, e nelle assemblee giudiziarie anche dai boni homines.
Nei primi decenni del IX secolo l'operato di conti e marchesi venne sottoposto al controllo di speciali inviati del potere centrale, i missi dominici, scelti fra i grandi del regno, che assunsero anche il compito di farsi portavoci dell'autorità del sovrano, proclamando nei luoghi pubblici le nuove leggi (i capitolari, così detti perché composti da molti capitoli) imperiali. I missi dominici agivano nei distretti pubblici solitamente in coppia: un laico, spesso funzionario della corte imperiale, e un ecclesiastico, il vescovo della diocesi coincidente con il comitato, a conferma della compenetrazione realizzata dai Carolingi tra l'ordinamento ecclesiastico e quello del regno. Ricordiamo che non bisogna confondere i comitati con le contee, o le marche con i marchesati. I termini non sono infatti sinonimi.
Per marca e comitato si intende la circoscrizione di origine carolingia i cui titolari avevano un rapporto di tipo funzionariale, più o meno intenso a seconda dei periodi, con i sovrani, mentre nella contea e nel marchesato la storiografia aggiornata vede quelle formazioni territoriali signorili, posteriori al secolo XI, che prescindevano dai confini delle circoscrizioni pubbliche carolinge: nelle contee e nei marchesati il potere esercitato da conti e marchesi (che non necessariamente discendevano da antiche famiglie comitali e marchionali) dipendeva ormai non tanto dal rivestimento di un ufficio, quanto dal potere effettivamente esercitato sul territorio e sugli uomini, un potere appunto signorile.
Dinastie marchionali e comitali in Lombardia
Grazie anche alla progressiva tendenza all'inamovibilità dei vassalli e alla trasmissione familiare dei feudi, di cui nell'877 il capitolare di Quierzy-sur-Oise prendeva atto (pur con l'intento di porvi ancora rimedio), a partire dal secolo IX nacquero delle vere e proprie dinastie marchionali e comitali, alcune delle quali dotate di una singolare capacità di durata. In area lombarda le prime e più potenti furono quelle dei Supponidi, degli Attonidi, dei Bernardingi e dei Gisalbertini, così dette in età moderna dai nomi ricorrenti portati da molti loro esponenti.
I Supponidi, forse la maggiore tra le famiglie franche insediatesi in Italia, dovevano la loro ascesa a Suppone I, già conte di palazzo (funzionario preposto all'amministrazione della giustizia regia) e conte di Brescia, nominato nell'822 duca di Spoleto probabilmente in cambio del sostegno dato all'imperatore Ludovico il Pio per l'eliminazione del re d'Italia Bernardo. La potenza della casata si accrebbe grazie ai prestigiosi legami parentali instaurati con altre grandi famiglie dell'aristocrazia italica e d'oltralpe, alle numerose cariche ricoperte dai discendenti di Suppone - che furono conti a Parma e Piacenza, duchi a Spoleto, ma anche vescovi e messi imperiali nelle parti più importanti del regno d'Italia -, cui si univa il possesso di un ingente patrimonio fondiario, dislocato soprattutto nella pianura bresciana ed emiliana, e l'esercizio su questo di diritti signorili.
Grazie a possedimenti privati e a cariche pubbliche la dinastia supponide operava così su un vasto piano padano, esteso tra Brescia, Parma, Piacenza, Modena e forse Torino e Asti, con incursioni nell'Italia centrale. Gli Attonidi concentrarono invece la loro presenza pubblica e privata nelle zone alte della Lombardia, dal lago di Como, a Bergamo, alla val Camonica, al lago d'Iseo, dove rivestirono cariche funzionariali, anche se non si fecero mancare possessi fondiari in area veneta ed emiliana. La predilezione per l'alta Lombardia si rafforzò nel X secolo: nelle carte di questo periodo gli Attonidi cominciano infatti a portare il predicato «di Lecco» che dovrebbe riflettere un tentativo di radicare e organizzare la dinastia in tale sede.
Tra le più antiche famiglie comitali lombarde figuravano anche i Bernardingi, discendenti proprio di quel Bernardo re d'Italia la cui eliminazione aveva fatto la fortuna dei Supponidi. Spesso infatti queste casate erano in contrapposizione l'una contro l'altra. I Bernardingi lo furono ad esempio con i Gisalbertini per il dominio sull'area della bassa bergamasca. Attestati nel IX secolo come vassalli regi, i Bernardingi furono via via conti di Parma, di Pavia e di Sospiro, corte del cremonese, ed infine vassalli del vescovo di Cremona (primi XI secolo).
Il percorso di affermazione familiare è simile a quello sopra illustrato anche se è più evidente il ridimensionamento delle ambizioni politiche e sociali dagli orizzonti nazionali alla realtà locale: in compenso, questo ridimensionamento rafforzò la posizione della casata nel ceto dominante della città di Cremona, grazie all'inserimento nella clientela vassallatica vescovile, e stimolò un più attento sfruttamento economico e signorile della terra. I Gisalbertini, vassalli imperiali e conti palatini, ottennero il comitato di Bergamo nel 923: il loro potere come rappresentanti regi fu però debole, per la concorrenza di altri gruppi parentali, e venne pertanto sostenuto da abili strategie matrimoniali. Essi riuscirono così ad allacciare rapporti con casate dell'alta aristocrazia italica, dagli Arduinici marchesi di Torino ai Canossa marchesi di Tuscia (ma il potere canossano si estendeva anche sull'area padana), e con famiglie di rango minore ma potenti in quelle zone - cremonese, lodigiana, bergamasca, bresciana - cui i Gisalbertini guardavano per l'ampliamento dei loro possessi signorili.
I Gisalbertini furono inoltre particolarmente attenti ai rapporti con la chiesa: si legarono vassallaticamente ai vescovi e al clero dei capitoli delle cattedrali di Cremona, Bergamo, Lodi, Piacenza, traendone prestigio e appoggi finanziari, e fondarono ben cinque monasteri benedettini: il cenobio di S. Stefano al Corno, nel Lodigiano, il priorato di S. Paolo d'Argon nel Bergamasco, i monasteri di S. Benedetto di Crema e di S. Fabiano di Farinate nel Cremonese, e quello di S. Vigilio di Caruca, o di Macerata, vicino a Quinzano d'Oglio (BS). Per completare il quadro delle famiglie comitali lombarde ricordiamo brevemente quelle dei conti di Lomello, dei conti di Pombia e dei conti di Biandrate affermatesi però in età post-carolingia in comitati di nuova origine. Intorno al castello di Lomello sorse agli inizi del secolo X il comitato omonimo, costola del più ampio comitato pavese: dapprima conferito alla famiglia franca di Maginfredo I e ai suoi discendenti, che occuparono anche titolo comitale e dignità vescovile a Verona, in seguito il comitato di Lomello pervenne alla famiglia longobarda del giudice pavese Pietro I, amministratore dei beni pavesi del monastero di S. Silvestro di Nonantola.
Questa seconda casata di conti di Lomello fu molto legata alla dinastia sassone degli Ottoni che si impose sul trono italico ed imperiale dalla metà del secolo X, traendone grande forza politica e militare. Anche i conti di Pombia legarono la loro ascesa sociale agli stretti rapporti intrattenuti con i sovrani sassoni e con il re d'Italia Arduino d'Ivrea, estendendo - grazie a uffici funzionariali, cariche ecclesiastiche, possessi fondiari - la loro influenza dall'originaria area del comitato, posto tra Sesia e Ticino, alle terre del Monferrato, del Milanese, del Piacentino e del Modenese.
Dalla casata di Pombia nacque infine quella dei conti di Biandrate, che prendeva il nome da un centro incastellato della campagna novarese. Messisi in luce per la partecipazione alla crociata organizzata nel 1100 dall'arcivescovo di Milano Anselmo da Bovisio, i conti di Biandrate si inserirono presto nel ceto dirigente della città di Milano. Questi rapidi esempi dimostrano come al centro del potere delle grandi aristocrazie non vi fosse una sola città, o un solo castello, ma un territorio vasto e disperso, con significative presenze cittadine e rurali, dove risiedevano quelle clientele armate che potessero sorreggere ambizioni anche regie. Dopo la disgregazione dell'impero carolingio (888), infatti, il potere nel regno italico venne conteso fra le dinastie funzionariali e le grandi famiglie signorili che avevano assunto il controllo del territorio.
Le istituzioni religiose
Vescovi e politiche ecclesiastiche
Tratto distintivo della dominazione franca, sia nelle terre di origine sia in quelle di conquista, fu lo stretto nesso instaurato fra il ceto dominante militare e il ceto ecclesiastico. Questo nesso, che permise ai tempi dell'affermazione dei franchi nella Gallia romana (V-VI secolo) di operare una sinergia tra le forze germaniche e quelle di origini e tradizioni latine, fu perpetuato in maniera feconda anche nell'età successiva (VII-VIII secolo), quando lo stesso ceto ecclesiastico cominciò ad essere per lo più reclutato all'interno dei ranghi dell'aristocrazia militare-fondiaria germanica.
Anche vescovi e abati erano infatti tenuti al servitium regis, il servizio a favore del re, che prevedeva un obbligatorio contributo militare. La protezione accordata alle chiese del regno permise inoltre ai Pipinidi/Carolingi di sfruttare il patrimonio di queste a fini politici-militari, concedendo alle proprie clientele le terre ecclesiastiche. A fondamento dell'affermazione dei Carolingi stette dunque la commistione tra istituzioni religiose e ordinamento secolare: fondamentale in ciò fu il legame che essi riuscirono a creare anche con la chiesa di Roma (che allora aveva solo un primato d'onore su tutte le altre chiese) grazie a un'alleanza in funzione antimerovingia e antilongobarda. Dopo la conquista carolingia, si estese alle terre longobarde il tradizionale connubio tra chiese potenti e potere politico.
Fin dall'inizio, infatti, i Carolingi concessero importanti privilegi, immunità giurisdizionali, beni e proventi fiscali a chiese vescovili e ad abbazie, in particolare se collocate lungo importanti vie di comunicazione terrestre e fluviale dell'Italia settentrionale, onde garantirsi - tra il resto - il loro appoggio durante le spedizioni militari. Nel 781 Carlo Magno tenne a Mantova un'assemblea in occasione della quale estese al regno italico una riforma approvata due anni prima a Heristal relativa all'assetto ecclesiastico e amministrativo del dominio franco. In base a questa riforma, veniva confermata e rafforzata la suddivisione del regno in province ecclesiastiche, rette da metropoliti, che avrebbero vigilato sulle gerarchie ecclesiastiche, sulla corretta riscossione delle decime, sulla condotta dei fedeli, sul patrimonio di chiese e monasteri. Il re assumeva dunque un ruolo centrale nel garantire la disciplina delle chiese e nell'assicurare loro il controllo sui beni e sulla popolazione. Sebbene rimanesse in vigore l'antica norma canonica che voleva l'elezione del vescovo da parte del popolo e del clero, i Carolingi intervennero pesantemente nella scelta dei vescovi, imponendo ad esempio personaggi di origine franca a Novara e a Piacenza.
Ciò non escluse che tradizioni ed elementi italico-longobardi potessero mantenere il loro peso. Lo dimostra la presenza di presuli di origini longobarde in sedi prestigiose, come Milano, Bergamo, Verona, Lucca, e lo sviluppo del culto di s. Ambrogio a Milano durante l'episcopato di Angilberto II (824-859), pur di origini transalpine. Il ricorso a prelati franchi, sulla fedeltà dei quali si poteva maggiormente contare, fu infatti con il passare del tempo sempre meno necessario. Nell'Italia carolingia, mediatori tra la popolazione e i poteri ufficiali furono dunque tanto i conti quanto i vescovi, spesso vicini ai re franchi per l'instaurazione di legami vassallatico- beneficiari.
Un capitolare, ovvero una legge, emanato da re Pipino stabilì che conti e vescovi dovessero reciprocamente aiutarsi nell'espletare i propri compiti, agendo con «concordia ed affetto». I due poteri, secolare ed ecclesiastico, avrebbero dovuto funzionare paralleli ma uniti da un comune progetto di pace, giustizia, e salvezza religiosa. La crescente potenza politica dell'episcopato e il ruolo di chierici e monaci colti presso i centri del potere secolare fece sì che vescovadi e abbaziati aprissero la via alla promozione individuale e parentale. In età carolingia le principali sedi metropolitane del regnum Italiae, escludendo Tuscia e Spoleto che avevano un status particolare, furono Milano, Aquileia, Grado (sorta nel VII secolo in contrapposizione ad Aquileia).
Ma fu Milano a premere per assicurarsi il primato della propria sede arcivescovile nel contesto politico-ecclesiastico del regno, facendo in modo che vi fossero sepolti i re d'Italia Pipino e Bernardo e l'imperatore Ludovico II, contendendo la salma di quest'ultimo al vescovo di Brescia e traslandola solennemente in S. Ambrogio.
Pievi e decime
Fin dal V secolo prese avvio in Italia la territorializzazione delle strutture ecclesiastiche. Tale processo, che si perfezionò in età carolingia, venne imperniato sulle pievi. Il termine pieve deriva dal latino plebs, ovvero popolo, e infatti indica contemporaneamente sia la popolazione dei fedeli, sia la circoscrizione ecclesiastica in cui i fedeli vivono, sia la chiesa che è perno di questa circoscrizione.
Il clero plebano, che provvedeva alla cura d'anime, all'amministrazione dei sacramenti, alla celebrazione delle messe, era composto da un arciprete e da una comunità di presbiteri, diaconi e chierici a lui sottoposti. Le pievi erano distribuite nelle città (dove vi era una pieve unica, costituita dalla cattedrale) e nelle campagne, ma è soprattutto in queste ultime che assunsero un ruolo importante nell'organizzazione del territorio.
Le pievi svolsero infatti un ruolo importante nella penetrazione del cristianesimo fra le comunità di rustici, presso le quali sopravvisse a lungo il paganesimo; incisero inoltre in maniera fondamentale nell'amalgamarsi delle strutture ecclesiastiche alle maglie delle istituzioni rurali e degli assetti amministrativi civili. In età carolingia l'organizzazione ecclesiastica del territorio si perfezionò con la gerarchizzazione delle chiese rurali: nacque la figura giuridica della plebs cum capellis, dove la pieve era la chiesa matrice e le cappelle i centri minori religiosi da questa dipendenti. La chiesa plebana si distingueva dunque dai semplici oratori che erano spesso chiese private. I Carolingi furono molto attenti, almeno in Italia, a evitare che le pievi finissero in mano ai laici, mantenendo il loro carettere pubblico e la soggezione al vescovo.
Le pievi erano difatti intermediarie tra le popolazioni locali e l'autorità vescovile. Nel regnum Langobardorum le pievi erano il centro di raccolta delle decime. Così fu stabilito nel capitolare generale mantovano dell'813, che imponeva inoltre l'obbligatorietà del loro pagamento. La decima era un'imposta, corrispondente a una quota del raccolto e dei prodotti dell'allevamento indicativamente attestata sulla decima parte di questi, che le popolazioni pagavano alla chiesa matrice. La tassa intendeva essere un compenso per le attività sacramentali svolte dal clero plebano e, suddivisa in quattro quote così come voleva un'antica norma canonica, veniva destinata al sostentamento dei chierici, alla manutenzione dell'edificio ecclesiastico rurale, all'aiuto dei più deboli, e al sostegno della chiesa matrice diocesana, ovvero della cattedrale cittadina. Si trattava di una fonte di reddito molto cospicua: di qui i tentativi dei fedeli di sottrarsi a tale obbligo, ma soprattutto gli interessi anche da parte dei laici alla riscossione delle decime.
A questa ingerenza laica si tentò di porre rimedio: ad esempio, nell'898 re Lamberto vietò che le pievi e le loro decime fossero date in beneficio a conti, a vassalli di vescovi o di altri signori laici. Il potere del vescovo sulle pievi, e quindi sul territorio rurale, venne in linea di principio fatto salvo, anche se occorre osservare che si sottraevano alla sua giurisdizione le comunità dei grandi monasteri, le loro chiese e le loro terre, qualora avessero ricevuto privilegi di immunità come, nel caso lombardo, i grandi cenobi di S. Ambrogio di Milano, S. Giulia di Brescia, S. Benedetto di Leno, S. Pietro in Ciel d'Oro di Pavia. Un ulteriore allentamento del controllo vescovile sulle chiese rurali si determinò, in area lombarda, quando nel 983 l'arcivescovo milanese Landolfo II da Carcano, in un momento critico per il suo episcopato, concesse in beneficio i proventi delle decime delle pievi, delle chiese e degli ospedali ai milites, ovvero ai suoi vassalli, per garantirsi il loro sostegno.
Tale disposizione fu presto imitata dai vescovi di altre diocesi lombarde - Cremona, Bergamo, Brescia, Novara - comportando l'indebolimento economico del clero rurale che si vedeva sottratto, a vantaggio delle clientele militari vescovili, la principale fonte del proprio sostentamento. L'usurpazione delle decime da parte dei laici fu un fenomeno difficile da arginare, nonostante gli interventi in merito presi durante la riforma della chiesa che fu avviata nell'XI secolo.
Monasteri in età carolingia
Nei primi tempi della dominazione franca in Italia i monasteri, per la maggior parte di fondazione longobarda, costituirono centri di resistenza al nuovo sistema di governo. Tale opposizione fu presto superata con il massiccio ingresso nelle comunità monastiche di religiosi provenienti d'oltralpe.
Monasteri e chiese erano d'altronde il fulcro di una complessa e ambiziosa politica culturale di cui i Carolingi si fecero promotori, destinata a creare quadri dirigenti e intellettuali preparati, a dotarsi di strumenti uniformatori e di controllo delle terre imperiali, a suggellare l'allenza tra franchi e chiesa di Roma. Numerosi furono i capitolari, le disposizioni di legge emanate dai sovrani carolingi con il concorso dei grandi del regno, circa la disciplina interna di chiese e monasteri, e altrettanto frequenti furono le concessioni di immunità a difesa delle prerogative di persone e cose ecclesiastiche: un modo per ricambiare l'azione di unitarietà culturale e istituzionale che le strutture ecclesiastiche e monastiche offrivano. I Carolingi affidarono al visigoto Benedetto d'Aniane la riforma della vita monastica, che in tutto l'impero si volle uniformare alla regola di s. Benedetto da Norcia.
Questa tensione all'omogeneità era importante. Dai maggiori monasteri europei venivano tratti i principali collaboratori dell'imperatore, vescovi compresi. Al pari delle sedi episcopali, anche i centri monastici corrisposero dunque a luoghi di preghiera, di cultura - tramite ad esempio l'istituzione di scuole -, e di potere, per essere punto di riferimento di potenti gruppi parentali o comunque per l'esercizio da parte della stessa comunità religiosa di una tendenziale egemonia economica e giurisdizionale su città e campagne.
Insieme alle chiese, i monasteri affollavano infatti gli spazi urbani e rurali, divenendo elemento caratteristico del paesaggio. Nell'età carolingia i maggiori enti monastici lombardi, grazie a lasciti, donazioni ma anche a oculate politiche di acquisti e permute, accumularono ingenti patrimoni fondiari sparsi su tutto il territorio padano. Alla fine del IX secolo S. Giulia di Brescia contava più di settanta curtes più altre venticinque proprietà non organizzate in forma bipartita distribuite tra il Bresciano, il Cremonese, e il Pavese; su tali beni lavoravano più di 3400 persone impegnate in produzioni spesso specializzate: grano nelle corti di pianura, olio nelle località del lago di Garda e vino nelle aree pedemontane.
Nel X secolo il monastero di S. Maria del Senatore di Pavia possedeva tredici corti, di cui tre incastellate, tre villaggi, un porto, oltre a poteri pubblici e diritti fiscali. Tra X e XI secolo il monastero di S. Benedetto di Leno accumulò dieci curtes, fra cui spiccavano quelle mantovane di Sabbioneta e Gonzaga e quella bresciana di Gambara, oltre a terre sparse in una novantina di località dei comitati di Brescia, Reggio e Modena. Esemplare anche il caso del monastero milanese di S. Ambrogio che nelle località di Cologno Monzese, Quarto e Inzago attuò una politica di consolidamento fondiario - tramite acquisti e permute, ma anche con la successiva costruzione di un castello - finalizzata a estendere il controllo non solo monastico ma anche milanese nel contado di Monza.
Detentori di estesi patrimoni fondiari, i monasteri lombardi intervennero in maniera significativa nel grande processo di riconversione dell'incolto che la pianura padana conobbe sin dal IX secolo. Il monastero di S. Silvestro di Nonantola fu tra i primi a intraprendere, tra Ostiglia e la bassa veronese a nord del Po, una grande opera di colonizzazione delle aree incolte, guidando un massiccio dissodamento che andò a scapito delle foreste e delle paludi che avevano fin a quel momento caratterizzato il paesaggio della zona. Il patrimonio e il potere monastico si accrebbero considerevolmente, e non solo per la disponibilità di nuove terre coltivate che garantivano rendite fondiarie più elevate.
I lavori e la successiva disponibilità di nuove terre attirarono infatti l'arrivo di nuovi coloni sui quali l'ente monastico andò a esercitare anche diritti di natura signorile, ovvero di giurisdizione, coercizione, bassa giustizia.
Società, economie, culture
La curtis
A partire dal secolo VII si diffuse una forma di gestione della proprietà fondiaria che divenne caratteristica dell'età carolingia: il sistema curtense. Tale sistema prendeva il nome dalla curtis, unità gestionale di un insieme di terre, non necessariamente confinanti tra loro perché acquisite in tempi e modi differenti, che appartenevano allo stesso proprietario. Tali terre potevano essere gestite in maniera diretta dal dominus, il signore fondiario, andando a costituire il dominico (da pars dominica, riserva padronale), e collegarsi al nucleo centrale della curtis dove si trovavano l'abitazione del signore o del suo amministratore, i laboratori artigianali, i depositi per attrezzi e prodotti; oppure venivano date in gestione indiretta, formando la pars massaricia, il massaricio: in questo caso le singole unità di coltivazione, dette mansi, venivano date in concessione a coltivatori, i massari, in cambio del pagamento di un censo. A seconda che questi massari fossero liberi o servi, si parlava di mansi ingenuili o servili. La differenza era importante perché i censi corrisposti dai concessionari risultavano adeguati anche a questa distinzione giuridica (più pesanti quelli servili) e non solo all'estensione degli appezzamenti.
Le terre dominicali erano coltivate da individui di stato non libero, servi chiamati prebendari, perché ricevevano dal signore la prebenda, il vitto e l'alloggio. La curtis era un insieme organico: dominico e massaricio erano infatti tenuti uniti dalle corvées, ovvero dalle prestazioni d'opera che i concessionari dei mansi erano tenuti a fornire sulla riserva padronale. Si trattava di interventi prestati nei momenti più impegnativi del ciclo agricolo (l'aratura, la semina, il raccolto, la vendemmia), o di notti di guardia e trasporti. Senza questo aiuto fondamentale da parte dei tenutari degli appezzamenti del massaricio la gestione del dominico avrebbe incontrato serie difficoltà. Il sistema di organizzazione agraria imperniato sulla curtis, indicata anche con il più generico termine di villa, fu oggetto di grande attenzione da parte dei pubblici poteri: lo stesso Carlo Magno emanò disposizioni dettagliate in merito con un capitolare intitolato appunto de villis. Tale attenzione, unita alla sopravvivenza di fonti molto ricche, come gli inventari descrittivi di grandi aziende curtensi di enti religiosi (sono noti quelli dell'abbazia parigina di St.-Germain-des-Prés e del monastero bresciano di S. Giulia), ha portato a una sopravvalutazione dell'estensione di questo sistema gestionale. Non dobbiamo infatti pensare che le terre di tutto l'impero fossero così organizzate.
In area padana, ad esempio, fu molto diffuso anche il casale, ovvero il sistema imperniato sui poderi che si distingueva dalla curtis per la mancanza della struttura bipartita tra dominico e massaricio. In Lombardia come altrove, infatti, la forza organizzativa della curtis riuscì a essere incisiva nei territori pianeggianti, dove favorì l'espansione del coltivo e lo sviluppo della cerealicoltura; viceversa, nelle aree montuose o collinari vi furono difficoltà a mantenere il coordinamento fra i due elementi che componevano il sistema curtense. In queste aree la curtis, laddove esistente, si orientò verso colture specializzate, come uliveti e vigneti, o verso lo sfruttamento del settore silvo-pastorale. Le curtes, inoltre, non avevano una fisionomia fissa ed accentrata: poteva infatti darsi la dispersione di terre di una determinata curtis fra più villaggi, così come la presenza di più aziende curtensi nella stessa area insediativa e colturale.
Anche le dimensioni del dominico e del massaricio variavano, e di conseguenza il loro rapporto, con la tendenza soprattutto dal IX secolo a ridurre la pars dominica a vantaggio di quella massaricia, più redditizia. Accanto alla grande proprietà persisteva inoltre la piccola e media proprietà allodiale, cioè libera, già fondamento della condizione arimmanica, ovvero dei liberi con diritti politici e militari, i quali però faticavano a resistere ai tentativi espansionistici dei maggiori signori terrieri. Il progressivo inglobamento nei grandi patrimoni fondiari della piccola proprietà non avrebbe significato solo un'evoluzione gestionale, ma la delimitazione delle libertà personali.
La curtis è stata in passato presentata come emblema di un sistema chiuso, autosufficiente nella produzione agricola e artigianale, tipico dell'economia altomedievale. Oggi l'immagine di chiusura, se non di stagnazione profonda, che si aveva dell'economia soprattutto di età carolingia è stata profondamente ridimensionata. Anzi, nel sistema curtense si intravvedono le radici dell'espansione economica dei secoli successivi. Si sottolinea infatti, pur in un contesto di scambi più ridotti, la circolazione dei prodotti delle aziende curtensi sui mercati locali e cittadini e la conseguente disponibilità di denaro per l'acquisto di merci provenienti dall'esterno. Con la crisi del potere centrale susseguente alla disgregazione dell'impero carolingio (fine IX secolo), la curtis conobbe in certi casi un'evoluzione della qualità del potere esercitato dal proprio signore, spesso accompagnata da un processo di incastellamento, divenendo così il cuore di una signoria territoriale (il dominatus loci) che tendeva a livellare, verso il basso, la condizione personale dei dipendenti. Il potere del dominus si estese infatti dai propri coloni a tutti coloro che risiedevano nel territorio contiguo alla propria dimora, ormai fortificata, prescindendo dunque dal possesso fondiario, e si arricchì dell'esercizio di funzioni di banno, ovvero di comando e coercizione, di polizia e bassa giustizia.
Il vassallaggio
Nella costruzione da parte dei franchi del nuovo assetto politico italico un ruolo fondamentale venne svolto dai rapporti vassallatico-beneficiari. Il vassallaggio, nato in area franca intorno al VI secolo, si configurava come un legame tra due uomini, un signore (senior, letteralmente «il più anziano») e un vassallo (vassus, termine che in origine connotava una posizione servile o un adolescente), i quali si scambiavano vicendevolmente supporto: il primo conferiva al secondo protezione e garanzie materiali, il secondo si sottometteva al primo, ponendo simbolicamente le proprie mani nelle mani del signore, promettendogli servizio, aiuto e consiglio, e giurandogli fedeltà. Tra le garanzie materiali conferite dal signore al vassallo figurava un «beneficio». Il beneficio (un perfetto sinonimo è «feudo», affermatosi più tardi) era una concessione vantaggiosa, come il nome stesso rivela, accordato per lo meno agli inizi in via temporanea, cioè per la durata della relazione vassallatica stessa.
Il beneficio era pagato con la moneta dell'epoca, ovvero beni mobili, bestiame ad esempio (come vorrebbe l'etimo stesso di feodum), ma molto più frequentemente beni immobili, terre soprattutto. Spesso l'aiuto del vassallo si concretizzava nella partecipazione a spedizioni militari organizzate dal signore. In particolare furono proprio i Pipinidi/Carolingi, la dinastia di maestri di palazzo che nel corso dell'VIII secolo scalzò i Merovingi dal trono dei franchi, a saldare efficacemente vassallaggio e beneficio e a servirsi di queste clientele militari legate loro da rapporti di natura vassallatico- beneficiaria per affermarsi dapprima in patria, a scapito delle altre famiglie aristocratiche e della stessa famiglia regnante, e in seguito per estendere il dominio franco sugli altri popoli confinanti, tra cui i longobardi.
L'istituto vassallatico-beneficiario importato in Lombardia, come nel resto dell'Italia settentrionale, con la dominazione carolingia ben si sposò a precedenti modelli di fedeltà e protezione tra uomo e uomo, come il gasindiato longobardo, e con la particolare situazione politica e sociale lombarda. I franchi importarono difatti una figura sociale e istituzionale cui il mondo longobardo era preparato. All'epoca cui ci si riferisce, ovvero a partire dalla fine dell'VIII secolo, inoltre, sia il gasindiato sia il vassallaggio sembrano aver conosciuto un analogo processo di innalzamento sociale ed economico rispetto alle origini. Quindi, per quanto le funzioni dei gasindi e dei vassi (o vassalli, le fonti adoperano entrambi i termini) non fossero sovrapponibili - soprattutto il rapporto dei gasindi con i loro protettori pare essere stato contrassegnato in misura meno determinante da contenuti militari - nella Lombardia del IX secolo essi erano considerati personaggi di tutto rispetto. Come tali, li troviamo spesso nella documentazione, nella prevalente funzione di testimoni o sottoscrittori di documenti, ovvero di persone in grado di dare credibilità, proprio in virtù del loro prestigio personale, a un determinato atto giuridico.
Le prime attestazioni lombarde di vassalli risalgono all'inizio del IX secolo e sono rintracciabili nell'area bresciana (nell'801 tali Pellegrino, Lupo e Gigliodoro sono definiti vassi del vescovo di Brescia, mentre nell'807 il vasso regio Pietro assiste a Brescia all'acquisto di beni da parte dell'alamanno Alpcar), nel Milanese (nell'812 è presente a Carpiano, tra Melegnano e Locate, il vasso regio Hernost), e a Milano stessa (nell'830 Landeberto di Confienza è vassallo dell'abate del monastero di S. Ambrogio). A questo bacino sociale di articolata provenienza - composto da romani, longobardi e franchi più altre etnie d'oltralpe sopraggiunte a seguito dei Carolingi, come alamanni e burgundi - attingevano indifferentemente signori laici ed ecclesiastici per trovare amministratori del patrimonio pubblico e privato e per rafforzare le proprie clientele militari, sempre necessarie a causa delle persistenti lotte per la gestione del potere e il controllo del territorio.
Fecero ricorso allo strumento vassallatico per cementare alleanze e fedeltà non solo imperatori, re, conti, vescovi ed esponenti delle aristocrazie militari ma anche quei giudici, notai, chierici, negoziatori, monetieri che fin dall'età longobarda avevano conosciuto, per lo meno in area padana, una discreta ascesa sociale. Ciò non significa che si costituì una rete vassallatica ben gerarchizzata, avvolgente tutto il tessuto sociale: la famosa immagine della piramide feudale è del tutto improponibile per l'età carolingia, in quanto frutto della sistematizzazione teorica dei giuristi dei secoli XI-XII, i quali però avevano di fronte una realtà ben diversa. Semplicemente, l'organizzazione statale allora alquanto precaria si servì dei raccordi spontanei nati dai legami interpersonali per ordinare la società e l'esercito.
Questi raccordi non erano coordinati dall'alto: tra re, vassalli del re e vassalli di vassalli non vi era alcun rapporto di schema piramidale. Ogni giuramento di fedeltà vassallatica obbligava solo il signore con il suo vassallo. La vera distinzione tra vassalli e vassalli quindi non risiedeva nell'essere inseriti ad un livello più o meno alto di un'ipotetica scala gerarchica, quanto nel poter contare oltre che su terre e rendite ricevute in beneficio, e come tali revocabili, anche su consistenti ricchezze allodiali, tenute cioè a titolo di piena proprietà, e nel godere di un prestigio autonomo, derivante ad esempio dall'antichità della stirpe e dai rapporti instaurati con gli enti ecclesiastici e monastici.