460. Industria nazionale

Dal 30 dicembre 1876 (a. X, n. 1) §Carte in tavola§.

Sottotitolo Moda italiana. Giornale dei lavoratori consociati per il risorgimento dell'industria nazionale poi Giornale dei lavoratori consociati per il risorgimento dell'industria nazionale ed organo dell'Esposizione campionaria permanente poi Giornale dei lavoratori consociati per il risorgimento dell'industria nazionale ed organo dell'Esposizione campionaria permanente. Monitore delle Società operaie poi Giornale dei lavoratori consociati per il risorgimento dell'industria nazionale ed organo dell'Esposizione campionaria permanente poi Giornale dell'Esposizione campionaria permanente poi Gazzetta milanese poi Giornale degli interessi economici e sociali.
Luogo Milano.
Durata 15 aprile 1868 (a. I, n. 1) - 6 ottobre 1878 (a. XI, n. 41*). Interrompe le pubblicazioni dall'agosto 1874 (a. VII, n. 62) per riprenderle il 30 dicembre 1876 con il titolo di «Carte in tavola» (come a. X, n. 1). Nel numero del 7 aprile 1878 dà notizia della fusione con il periodico «La Viabilità».
Periodicità Quindicinale poi settimanale poi bisettimanale poi settimanale.
Direttore Carlo Zambelli (redattore responsabile).
Gerente Carlo Zambelli.
Editore Associazione dei lavoratori consociati per il risorgimento dell'industria nazionale poi (proprietario redattore) Carlo Zambelli.
Stampatore Milano, Soc. cooperativa tipografica poi Tip. della soc. cooperativa fra tipografi poi Tip. A. Giuliani e C. poi Tip. di Bortolotti e C. poi Tip. Giuliani e C. poi Tip. Nazionale.
Pagine Da 4 a 8.
Formato 33x22 cm.
Note Pubblica nei primi mesi un supplemento con figurini di moda.

Organo dell’”Associazione dei lavoratori consociati per il risorgimento dell’industria nazionale” che opera con il proposito di “rimuovere gli ostacoli che si oppongono allo sviluppo dell’industria nazionale e promuovere i mezzi che tendono al suo incremento per la generalizzazione del benessere materiale e morale della nazione italiana” (Il programma dei lavoratori consociati, 3 ottobre 1868 e sgg.), «L’Industria nazionale» si propone di riassumere sulle sue pagine le questioni discusse nelle adunanze dell’associazione relative all’industria, poiché “è ormai giunto il tempo di svincolarci da quel servilismo degradante che per tradizionali e puerili consuetudini ci fece sembrare bello e buono soltanto ciò che proveniva dall’estero […] Abbisogna che tutti gli italiani siano penetrati dalla convinzione che i nostri prodotti, le nostre manifatture potranno perfettamente rivaleggiare con quelle d’altre nazioni, quando la produzione sarà sostenuta e incoraggiata da parte del consumatore” (Agli italiani, 15 aprile 1868). Il periodico fornisce inoltre notizie di scoperte e invenzioni, appalti, scadenze d’imposte, pagamenti d’interessi, estrazioni di prestiti, disposizioni municipali, atti del Tribunale di commercio (fallimenti, convocazioni di creditori, concordati, verificazioni di crediti, cessazioni di pagamenti, costituzioni e cessazioni di società ed esercizi commerciali), bandi di aste, nonché il bollettino ufficiale della borsa di Milano e il prezzo corrente di grani, farine, formaggi e burro, carni, foraggio e legna, canape e lini, lane e cotoni, metalli, carboni, olii, petrolio e coloniali sulla piazza di Milano.

Uno dei principali mezzi per accrescere lo smercio delle manifatture nazionali viene individuato nella creazione di una “moda che lasci il bastardo titolo di francese per riprendere l’originale di italiano” (La moda, 27 giugno 1868; e ancora Alle donne milanesi, 14 maggio 1868): nei primi mesi di vita il giornale esce quindi accompagnato da un supplemento contenente il figurino di un modello di abito alternativamente da uomo e da donna esemplificativo dell’incarnazione del “gusto della moda italiana”, pubblicazione che deve essere però ben presto sospesa in quanto trova “un terreno refrattario all’idea la quale non fu sentita in pratica da nessuno” (Nostri cortesissimi abbonati, 1 marzo 1869).

L’abbandono dell’esteromania, vista come una piaga che impedisce l’incremento delle produzioni nazionali, deve però essere proposito fermo non solo del singolo consumatore, che in questo modo ha la possibilità di riconfermare il proprio patriottismo e la propria adesione allo spirito dell’unità nazionale, ma anche e soprattutto intento precipuo del governo italiano, al quale viene richiesto, tramite l’invio di una petizione, di mostrare “il fermo ed irrevocabile proposito di provvedere ai suoi bisogni unicamente con prodotti nazionali; […] gli industriali, ampliando le loro fabbriche e sostenendo e migliorando la produzione si porranno così man mano nella condizione di sopperire alle domande del governo, sia per il vestimento, equipaggiamento e armamento dell’esercito, sia per la fornitura di tutti quegli articoli che entrano nel consumo dei suoi privati esercizi” (Sunto della petizione al Parlamento, 15 aprile 1868); i termini della risposta del ministro Carlo De Cesare alla petizione sono contenuti nel numero del 23 maggio 1868). Il ricorso del governo per tutte le necessità dello Stato agli industriali del paese lo porrebbe altresì nella favorevole condizione di esercitare la sua autorevole influenza sulle grandi società ferroviarie “che hanno il malvezzo di commettere all’estero i materiali necessari per l’esercizio delle loro industrie in Italia” (Gli interessi tra gli imprenditori e gli operai sono armonici quando basati sulla giustizia, 5 novembre 1871; sul medesimo argomento L’industria del ferro in Italia, 9 gennaio 1869 e sgg. e Dell’industria siderurgica in Italia, 4 luglio 1868 e sgg., lungo scritto il cui scopo è quello di “parlare delle ferriere, della loro condizione, della qualità del ferro da esse fabbricato e dei possibili vantaggi che potrebbesi ricavare da un migliorato sistema di fabbricazione e da una amministrazione tecnica, che manca nella maggior parte di esse, e della preferenza che possono godere in commercio i loro prodotti a confronto d’altri di paesi esteri”).

Con l’articolo Manchiamo di capitali! (13 giugno 1868) «L’Industria nazionale» inaugura una lunga polemica contro il sistema delle concessioni alle società ferroviarie straniere per la costruzione e l’esercizio delle strade ferrate nazionali che addossano allo Stato un onere troppo elevato di sovvenzioni, polemica che prosegue diventando via via sempre più circostanziata nei confronti della Società dell’Alta Italia appartenente alla potente casa Rothschild di Parigi, accusata di privilegiare nell’assegnazione delle forniture le fabbriche francesi attraverso l’adozione di un sistema di incanti non in conformità con le regole prescritte (Un colpo per l’industria nazionale, 23 luglio 1871). I continui duri attacchi alla direzione della Società (L’industria dei veicoli per le strade ferrate, 31 agosto 1871; Intanto ci manca il lavoro, 27 agosto 1871; Onorevoli signori deputati, 25 febbraio 1872) e gli appelli “ai giornali sedicenti liberali a mettere in evidenza tutti i mali che derivano all’industria e al commercio nazionali dall’amministrazione francese delle Ferrovie dell’Alta Italia” (30 dicembre 1871) provocano pesanti conseguenze sulla vita lavorativa e personale del direttore dell’«Industria», Carlo Zambelli, da molti anni impiegato anche in qualità di ragioniere presso un’azienda di veicoli per le strade ferrate: è dell’agosto 1872 la notizia del suo licenziamento a causa delle pressioni esercitate da Amilhau sul titolare della ditta, minacciato di non ricevere più commesse se avesse continuato ad avere fra i propri dipendenti un così acerrimo nemico della società (La mia dimissione, 11 agosto 1872). È la guerra: dal dicembre 1872 e per tutta l’annata seguente la polemica con Amilhau alimenta addirittura una rubrica fissa, la “Cronaca delle Ferrovie dell’Alta Italia”, nella quale vengono segnalati, con compiaciuta assiduità, “l’imperfezione degli orari, i ritardi, le dispotiche ed arbitrarie disposizioni interne, le vessazioni e le spilorcerie che sono il risultato del vizioso sistema di servizio offerto dal com. Amilhau” (15 gennaio 1873).

Continue si susseguono poi le accuse alla politica economica governativa, colpevole di penalizzare la nascente industria italiana sia con un arbitrario e gravoso sistema d’imposte, sia soprattutto con l’adozione del libero scambio, sistema che comporta il continuo sacrificio della produzione nazionale a vantaggio degli interessi francesi (a questo proposito viene pubblicata una serie di articoli con l’intenzione di “esaminare le tariffe doganali che formano parte integrante del Trattato di Commercio che dal 17 gennaio 1863 in avanti esiste fra l’Italia e la Francia a grave danno dell’industria nazionale” (I nostri interessi sono vincolati alla Francia? 13 agosto 1870 e sgg.).

Uno scritto pubblicato nel novembre 1870 a fini elettorali (al termine del quale si annuncia il sostegno del giornale milanese ai candidati di “Associazione democratica”) sintetizza la questione, precedentemente approfondita in una serie di lunghi articoli, di “tutto quanto venne fatto dal Governo in odio all’industria nazionale: 1) i numerosi e gravosi prestiti, in forza dei quali i capitali affluirono alla Borsa, e venne così a stabilirsi su vasta scale un’improduttiva speculazione a spese della produzione nazionale, la quale oltre che in ultima analisi è quella che paga i coupons della rendita, perde la sua efficacia venendole a mancare, nelle varie sue forme, il capitale necessario; 2) la gravità e la varietà delle imposte, il loro riparto e il sistema di riscossione […]. Così le molteplici e gravose tasse, rendendo troppo care per gli uni e chiudendo per gli altri la via legale a tentare il recupero dei propri crediti, fomentano l’immoralità; 3) si rende inoltre difficile l’esistenza dei cittadini, rinunciando i reggitori dello Stato alle nazionali risorse, coi trattati di commercio, colle concessioni ferroviarie, colla regia dei tabacchi, colle commissioni all’estero ed inoltre, scemando per conseguenza la pubblica fiducia, si restringono i negozi ed il lavoro decresce; 4) i privilegi della Banca sarda, cosiddetta Nazionale, mercè cui, essendo esclusa la concorrenza, ne viene che il commerciante, il quale o non può sottostare alle gravose condizioni della Banca, o ne è respinto dalle difficoltà, è privato del beneficio del credito e si trova così penalizzato nelle sue operazioni […] Aggiungi poi il corso forzoso dei biglietti della Banca suddetta, di cui tutti conoscono le dannose conseguenze, non che le operazioni stipulate con la medesima da parte del Governo, e si concluderà che tale istituto è fatto per portare i suoi lucri nel seno dei consorzi a spese e a danno del paese (Confermiamo il nostro voto, 27 novembre 1870). Nello specifico, per quanto riguarda le imposte, si segnalano gli scritti: Ippolito Pederzolli, Storia delle finanze italiane dal 1859 al 1865, 17 luglio 1869 e sgg.; Il dazio sulla macinazione dei cereali, 16 gennaio 1869 e L’imposta sulla ricchezza mobile, 6 febbraio 1869 e sgg. (nel quale si ricordano all’economista e al legislatore le regole generali necessarie nell’applicare le imposte, per cui “l’imposta deve essere fondata, per quanto possibile, sul principio di eguaglianza; non deve mai colpire il capitale, ma soprattutto il reddito; deve essere fissa quanto più possibile e conosciuta anticipatamente; deve essere stabilita in modo da non esigere che debolissime spese per la sua riscossione”); Antonio Porini, L’imposta fondiaria e l’emigrazione, 18 dicembre 1869 e sgg.

Tra i collaboratori, oltre ad A. Porini, principale collaboratore fisso della rivista che firma i più importanti interventi sulle questioni economiche del periodo (Il libero scambio, 12 marzo 1870; Il corso forzoso e il pareggio del nostro bilancio, 30 aprile 1871 e sgg.; I benefici effetti dei dazi protettori in rapporto alle condizioni italiane, 14 luglio 1872 e sgg.; Dobbiamo aumentare o diminuire la circolazione cartacea? , 8 febbraio1874) si ricordano Cristoforo Dossena, Gaetano Semenza e Giacomo Colli.

Nel 1869 «Industria nazionale» si fa promotrice del progetto per la costituzione di una Esposizione campionaria permanente di tutti i lavori nazionali, per offrire al “professionista espositore, fra i molti vantaggi, quello di mettersi a contatto col pubblico e quindi colle persone che possono mettersi a contatto con la sua opera; e così i fabbricatori otterranno un maggior sfogo alle loro mercanzie, ed i semplici lavoratori potranno facilmente essere impiegati, ricevere commissioni e concorrere, associandosi ad altri, a lavori d’importanza” (Esposizione campionaria permanente, 27 marzo 1869).

Fautore dell’associazionismo operaio (“Incombe sulle classi lavoratrici, per il bene loro e della nazione, di costituirsi parte attiva in confronto dell’altra dei capitalisti, i quali se fin d’ora hanno imposto il salario agli uomini del lavoro, d’ora innanzi dovranno rientrare nei limiti di un’equa trattazione”, Vogliamo giustizia, 19 gennaio 1870), il periodico, pur non risparmiando critiche alle forme di assistenza semicaritativa assunte dal mutualismo degli esordi (“limitato alla semplice economia interna della grande famiglia operaia, il mutuo soccorso non tende che a rendere più sopportabile la sorte dei suoi membri, ma niente affatto a migliorarla”, Alle onorevoli rappresentanze delle Società operaie italiane, 10 dicembre 1871), nel 1870, ‘71 e ‘72, presentandosi quale “patrocinatore della causa delle classi lavoratrici”, pubblica i rendiconti delle gestioni annuali di alcune società operaie italiane, fra le quali si citano: Associazione generale di mutuo soccorso degli operai di Milano e Corpi Santi (28 maggio 1870); Società cooperativa fra tipografi e arti affini di Milano (18 giugno 1870 e 5 maggio 1872); Associazione generale di mutuo soccorso ed istruzione delle operaie di Milano e sobborghi (2 aprile 1871); Società di mutuo soccorso dei lavoranti panattieri di Milano e Corpi Santi (5 maggio 1872); Società di mutuo soccorso fra gli operai di Codogno (26 maggio 1872).

Nell’agosto 1874, in una nota indirizzata ai lettori, il periodico promette di riprendere al più presto le pubblicazioni, non fornendo peraltro spiegazione sui motivi della loro cessazione temporanea, “cambiando tenore ma sempre parlando di cose serie, non potendo essere altrimenti, dacché vieppiù seria diventa la situazione economica del paese” (Ai nostri signori abbonati, 5 agosto 1874). Promessa che viene mantenuta alla fine del 1876 con l’uscita di «Carte in tavola»: “Nel presentarci a voi, quali siamo, ligi a nessun partito e preoccupati unicamente del bene e del progresso della patria, non formuliamo programma. Il programma sta nel titolo del giornale. Ed i sagaci intenditori e i sinceri patrioti non tarderanno a capire essere la nostra impresa leale e disinteressata” (Al pubblico, 30 dicembre 1876). Contro la cautela conservatrice dimostrata dal nuovo governo Depretis verso l’attuazione di una politica veramente riformatrice, tema che anima le pagine del giornale per tutti i primi mesi del 1877, «Carte in tavola» in più occasioni ribadisce la necessità di una “opposizione di sinistra, un’apposizione giovane, audace, intraprendente, che rappresenti una minaccia per il ministero ogni qualvolta verrà meno ai propri impegni, ed un incitamento ad attuare intero e senza mistificazioni il programma di Stradella” (Come creare un’opposizione? , 6 gennaio 1877). Ben presto però, a fronte “della pessima prova che ha fatto la Sinistra la potere […] e giacchè al paese non interessano punto i pettegolezzi che nella Camera tengono lontane le serie discussioni” (Ai lettori, 10-11 marzo 1877), il foglio sposta il suo interesse dalla critica politica a quella economico-sociale, con un approccio che si rivela però spesso generico e incapace di analizzare e prendere effettiva posizione sulle più importanti questioni economiche del periodo, finalizzando i suoi interventi “ad indirizzare gli operai allo studio dell’economia sociale applicata alle arti e mestieri, perché gli operai sapendo allora far valere il proprio lavoro, avranno tolto di mezzo l’ostacolo principale all’associazione col capitale” (Capitale e lavoro, 17-18 marzo 1877).

La posizione del periodico riguardo alle rivendicazioni del movimento operaio (che proprio in quegli anni compie importanti progressi soprattutto in campo ideologico e politico) e in generale sui rapporti fra capitale e lavoro si configura nei limiti di una auspicata collaborazione fra classi, tesi che si ripete in numerosissimi articoli dal medesimo taglio: “Spogli da ogni idea socialistica e senza alcun risentimento personale, entriamo di piè pari fra le due parti in questione. Premesso che i capitalisti non possono far fruttare i loro capitali senza lavoro, e che i lavoratori hanno bisogno del capitale per estrinsecare e attuare la propria abilità, consigliamo gli uni e gli altri a lasciare i vecchi rancori, a trattarsi reciprocamente con urbanità, a riconoscersi nei rispetti rapporti economici riguardo alla produzione, a dibattere sul terreno della giustizia i propri interessi; avendo presente che l’equa rimunerazione del lavoro ne accresce l’efficacia, e per tal modo, aumentando relativamente i profitti del capitale, è impegno comune dei lavoratori e dei capitalisti di concorrere al miglior esito dell’industria” (Non socialismo, non comunismo ma giustizia, 30 dicembre 1876). Al fine di aumentare il benessere materiale e morale dei lavoratori, si insiste sulla necessità dell’associazionismo e sulla conseguente loro emancipazione “dalla consorteria sotto la quale vegetarono fino ad ora nelle società di mutuo soccorso, intese a tenerli avviliti e depressi […] occorrendo che le nuove adunanza abbiano per iscopo di delineare le diverse vie da seguire al conseguimento di una giusta adeguata mercede, evitando però di creare nuovi ostacoli e anzi cercando di vincere gli attuali al risorgimento dell’industria nazionale, mercè cui deve progredire il benessere delle classi lavoratrici” (Associazione, 17-18 febbraio 1877).

Pur non dichiarandosi apertamente protezionista, la rivista prende spesso posizione contro la politica commerciale del governo di sinistra giudicata insufficiente a garantire lo sviluppo industriale del paese: “Due gravi errori della pubblica amministrazione, le cui conseguenze letali gravitano sull’industria sono: l’introduzione del dazio-consumo e la seguita teoria del libero scambio. Il dazio-consumo, disgiungendo le popolazioni male uscite dal vecchio ed esoso municipalismo, paralizza il commercio interno fra paese e paese e ne annienta le varie produzioni. Il libero scambio […] favorendo, in ultima analisi, l’importazione delle manifatture estere, viene a spegnere lo spirito dei fabbricatori nazionali, le cui condizioni economiche non permettono loro di lottare con industrie protette dai governi i quali vedono giustamente col progresso delle industrie accrescere la loro potenza” (Risolleviamo la nostra bandiera, 3-4 novembre 1877; e ancora, sull’argomento, Le nostre condizioni economiche, 19-20 maggio 1877; Il lavoro, gli operai, l’industria nazionale, 14-15 aprile 1877; Proteggiamo la nostra industria, 5-6 maggio 1877; La bilancia del commercio, 30 giugno-1 luglio 1877; Sconcia ipocrisia, 24-25 novembre 1877). Numerosi si susseguono anche gli appelli ai consumatori perché sostengano, con i loro acquisti, la produzione dell’industria nazionale, “siccome da questa traggono la sussistenza le masse operaie e dall’incremento o decremento industriale dipendono il benessere o il malessere delle masse stese” (La belle mercede da morir di fame, 27-28 ottobre 1877): a questo proposito viene dedicato ampio spazio alla questione del “nuovo grande stabilimento milanese Aux villes d’Italie dei fratelli Bocconi, i quali credono di potersi avventurare nell’ignoto, facendo nientemeno che un colpo di Stato. L’industria nazionale e particolarmente l’industria milanese, avvilita e depressa dal libero scambio e dal peso incomportabile delle imposte pubbliche naviga in cattive acque. Portiamo a Milano l’industria francese, facciamo delle sue manifatture un grande emporio e l’industria milanese affonderà mediante la concorrenza che noi le faremo” (Illuminiamo la pubblica opinione che ne abbiamo bisogno, 22-23 settembre 1877; viene inoltre interamente destinato alla trattazione della questione il supplemento al numero del 13-14 ottobre 1877, dal titolo Parigi a Milano).

Altro gravissimo torto della sinistra, per il giornale è stato quello “di essersi lasciata ingaggiare dagli arruffoni del partito a votare contro la destra, sull’unica questione forse in cui questa aveva ragione, quella dell’esercizio governativo delle ferrovie” (La regia ferroviaria, 22-23 dicembre 1877 e, ancora sull’argomento, Perché propugnamo noi l’esercizio governativo delle ferrovie? , 5-6 gennaio 1878 e L’esercizio ferroviario, 30-31 marzo 1878). Facendo poi appello a “documenti ufficiali, sicuri che nessuno ardirà smentirci”, dedica ampi spazi alla questione della perequazione dell’imposta fondiaria, dimostrando come la Lombardia “venga veramente trattata come un paese di conquista, sicché pel solo titolo dell’imposta prediale fondiaria sui terreni, paghi molto di più di quanto in ragione composta diretta di estensione e di popolazione, dovrebbe giustamente pagare” (Centralizzazione e federalismo, 22-23 settembre 1877 e sgg.). La perequazione dell’imposta fondiaria viene inoltre individuata, in una serie di articoli che si susseguono sul periodico nei primi mesi del 1878, come una delle principali cause della forte emigrazione che in quegli anni inizia a registrarsi nelle regioni dell’Italia settentrionale, insieme alla “esuberanza della popolazione agricola in confronto del terreno coltivato; […] al caro prezzo del sale esatto direttamente dal governo all’incredibile prezzo di cent. 55 al chilogrammo; alla gravezza dei dazi consumo; all’imposta sul macinato” (L’emigrazione e la questione sociale. Coda all’equiparazione dell’imposta fondiaria, 9-10 febbraio 1878; e, ancora, L’emigrazione, 2-3 febbraio 1878; La ricchezza mobile, il macinato e l’imposta fondiaria, 5-6 gennaio 1878; Al presidente del nuovo ministero Benedetto Cairoli, 16-17 marzo 1878).

Con l’ingresso nel 1878 il periodico chiarisce, in una nota indirizzata ai lettori, quelli che vogliono essere i suoi intenti programmatici: “Il lavoro rimunerato, l’onestà politica, la giustizia economica-sociale, il carattere: ecco ciò che soprattutto ne preme. E quindi anche per l’avvenire tratteremo con la massima indipendenza di principî delle questioni politiche ed economiche più interessanti, di quelle segnatamente che riguardano le classi operaie e la piccola industria. Affretteremo coi nostri voti e coi nostri consigli il giorno in cui il lavoratore sarà rialzato a dignità d’uomo, colla partecipazione al prodotto e colla cooperazione. Né trascureremo gli interessi più particolarmente locali e cittadini. Entriamo nel nuovo anno fedeli al nostro programma di 10 anni fa, il quale ha per iscopo: la maggior possibile diffusione di benessere fra le classi lavoratrici mediante il lavoro” (Perché Carte in tavola, 29-30 dicembre 1877).

Sul numero del 7 aprile 1878 il periodico dà notizia della sua fusione con il periodico «La Viabilità», armonici essendo i legittimi interessi da essi propugnati, ed anzi, di più, l’uno completando l’altro, perché il lavoro, quale primo elemento di produzione, abbisogna della viabilità quale primo elemento di civiltà”. «La Viabilità» diventa quindi il nome della nuova importante rubrica alla quale viene spesso dedicata anche la metà dell’intero spazio disponibile sulla rivista. Questione maggiormente trattata, e che pone «Carte in tavola» ancora una volta in disaccordo con la linea politica della sinistra governativa, è quella della necessità dell’esercizio statale delle ferrovie: “Le strade ferrate mai devono essere oggetto di guadagni privati, perché il tal modo si viene a danneggiare il pubblico al cui servizio sono costruite” (La situazione attuale ferroviaria, 7 aprile 1878). E ancora: “Non v’ha ramo di pubblica utilità che sia in pari tempo politico, finanziario, militare, economico e sociale come quello delle ferrovie. Esso si può dire che sia l’ausiliario, l’alleato di tutte le classi di persone, e di tutti gli interessi. Ora, come si può abbandonare in mano all’industria privata l’iniziativa e lo sviluppo di queste funzioni speciali?” (Al «Giornale dei lavori pubblici», 5 maggio 1878).

C. Ro.

Raccolte: MI120: 1868-1874; 1876-1878.