Introduzione
Premessa
È qui presentata l’edizione di 144 documenti, per la maggior parte inediti, cronologicamente compresi tra il 1042 e il 1200 [1]. Queste scritture sono provenienti dall’archivio del cenobio di Santa Maria dell’Acquafredda presso Lenno (Co), monastero cisterciense maschile. Il tabularium, insieme alla carte del monastero stesso, conserva anche quelle del cenobio benedettino maschile di San Benedetto in val Perlana, che venne ad esso incorporato – col suo archivio – nel corso del XV secolo: la fusione dei tabularia ha imposto oggi un approccio al corpus documentario mirante ad una edizione unitaria, nel rispetto della sua facies storicamente testimoniata [2].
Tutte le scritture che vengono edite sono attualmente conservate presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano, tra le Pergamene: collezione di antiche membrane che, coerentemente alla sensibilità archivistica lombarda Sette–Ottocentesca – espressa in particolare dall’abate Fumagalli e specialmente nelle Istituzioni diplomatiche del 1802 – fu organizzata prediligendo un ordinamento cronologico.
Individuare l’archivio dell’Acquafredda tra le 12.662 pergamene dell’Ambrosiana (senza contare i reimpieghi) è stata impresa affascinante ed impegnativa; tanto più perché l’indagine si è mossa entro un contesto documentario non solo poco edito [3], ma di cui è pressoché sconosciuta la complessa storia della formazione [4]. L’approccio a questa ricca raccolta privata di documenti eterogenei, provenienti da svariate istituzioni per lo più lombarde e svizzere, ha richiesto dunque una sensibilità diversa rispetto a quella riservata ad un archivio in senso proprio [5]. Lo studio preliminare di tale collezione, che in quanto tale è stata formata artificialmente e a posteriori, ha necessitato di un’attenzione che guardasse alla storia del collezionismo, connesso a quello di opere d’arte. La ricerca ha dovuto così aprirsi allo studio del mercato antiquario e delle vie dei lasciti: la storia dell’Ambrosiana, anche in relazione alle sue pergamene, si è così intrecciata, come ben noto, alla storia di Milano e dei suoi intellettuali [6]. Questi rilievi in premessa, che saranno adeguatamente sviluppati in un contributo in preparazione da parte mia [7], sono sin d’ora necessari per comprendere come mai questo corpus documentario monastico pervenne all’Ambrosiana.
Dopo la soppressione del monastero di Acquafredda (1785), le carte dei due cenobi comaschi continuarono a restare ‘in blocco’ e vissero un destino congiunto. L’abate di Sant’Ambrogio di Milano, Angelo Fumagalli, che già aveva incaricato il monaco Ermete Bonomi della loro trascrizione, fu quasi probabilmente anche promotore dell’acquisto da parte della Biblioteca Ambrosiana dell’intero corpus documentario che, in quegli anni di soppressioni, aveva inglobato anche scritture provenienti dal monastero femminile di San Faustino dell’Isola Comacina. Invero, la Biblioteca Ambrosiana si era posta allora sul mercato come uno degli acquirenti più interessati e competitivi. La prestigiosa istituzione milanese si mosse con oculata cura e profonda consapevolezza, potendo essere avvantaggiata a motivo di rapporti consolidati con numerosi religiosi appartenenti alle istituzioni soppresse. L’archivio di San Fedele di Milano non fu l’unica méta possibile per i fondi degli antichi monasteri soppressi [8]. La vicenda delle scritture favorisce sbocchi preziosi per indagare la storia archivistica lombarda di epoca napoleonica, specie in relazione alle grandi collezioni diplomatiche. E le note dorsali attestanti quella fase storica di raccolta e di riorganizzazione aprono uno scorcio sulla storia intellettuale dell’epoca.
In questa sede si pubblica dunque l’edizione di scritture ‘ritrovate’ [9]. Il progetto è promosso e scientificamente inserito nell’ambito del Codice diplomatico della Lombardia medievale (secoli VIII–XII) dell’Università degli Studi di Pavia. Il lavoro, realizzato tra il 2008 e il 2011, si è avvalso anche del sostegno economico della provincia di Sondrio, in virtù delle ricadute euristiche della presente edizione per lo studio delle terre di Valtellina, che costituirono una privilegiata direzione di espansione nei secoli centrali del medioevo, per il monastero di Acquafredda [10] e per quello di San Benedetto (così come per il cenobio di San Faustino) [11].
In questa nota introduttiva, dopo aver accennato ai caratteri fondamentali delle due istituzioni monastiche (soprattutto in relazione alla loro fortuna storiografica), si concentra l’attenzione soprattutto sugli ‘snodi’ della storia archivistica che ne plasmarono la fisionomia nel corso dei secoli. Tutti gli spunti qui formulati troveranno una più compiuta trattazione nel volume cartaceo dell’edizione medesima; ma già sin d’ora costituiscono un ulteriore tassello per procedere nell’avviata riflessione relativa al patrimonio documentario comasco [12].
Le istituzioni: la fortuna storiografica
Il monastero di San Benedetto
L’attività di Rainaldo, vescovo di Como (1063–1084), ha avuto importanza centrale per la storia diocesana e anche monastica. Pietro Zerbi ha studiato soprattutto le relazioni di questo presule con l’Impero, ma non mancando di rilevate la sua intensa attività pastorale svolta, nei primi anni di episcopato, principalmente nella città di Como, e negli ultimi con maggiore attenzione alle zone extraurbane [13]. Il nome del vescovo Rainaldo è associato alla prima attestazione documentaria che riferisce dell’esistenza della chiesa di San Benedetto in Val Perlana. Il 30 aprile 1083, i vicini di Isola e di Lenno intervennero a porre fine ad una controversia che li divideva, a proposito della chiesa di San Benedetto, costruita sul monte Altirone (doc. n. 10). Secondo i cittadini di Isola essa doveva essere soggetta alla pieve di Santa Eufemia dell’Isola Comacina, mentre secondo gli uomini di Lenno alla pieve di Santo Stefano di Lenno. Della chiesa di San Benedetto e di tutta la terra che si trovava da una valle all’altra, sul monte di Ossuccio e di Lenno, venne fatta refuta e donazione, congiuntamente dalle parti, nelle mani del vescovo di Como Rainaldo, nonché in favore di Boldo, Anrado e Lafranco Galina, conversi della istituzione benedettina stessa [14]. L’intervento del vescovo Rainaldo permette ragionevolmente di collocare la presenza benedettina in Val Perlana nell’ambito della riforma episcopale da lui promossa e in atto a Como [15]. La prima esplicita menzione della presenza strutturata del monastero di San Benedetto è invece del gennaio 1090 (doc. n. 13), allorché Obizo, figlio del fu Lanfranco, di Premonte nell’Isola Comacina, professante legge romana, fa donazione al monastero di San Benedetto, costruito sul monte della sopradetta Isola detto Alterione, di una vigna, nonché di prati, pascoli e dei suoi beni, siti a Paola, nel luogo ove dicesi a Plaza Longa. Nel febbraio 1091 è poi documentato il primo abate Pellegrino, in una carta d’investitura da parte di Eriprando, abate del monastero di San Carpoforo, eretto nelle vicinanze dalla città di Como (doc. n. 16).
Queste attestazioni documentarie più antiche sono state valorizzate e criticamente analizzate, oltre che dal Cottineau [16], anche nelle schede sintetiche di presentazioni del cenobio curate da Mario Longatti e da Saverio Xeres [17]; da Francesco Bustaffa (con sguardo che si spinge anche ai secoli successivi), nell’ambito del progetto Civita promosso da Regione Lombardia [18]; e, più di recente, da Alfredo Lucioni in un denso lavoro di sintesi intitolato Insediamenti monastici medievali sul versante meridionale delle Alpi centrali. Luigi Mario Belloni, in un volume monografico sul monastero [19], focalizzava invece l’attenzione prevalentemente sugli aspetti architettonici [20], anche avvalendosi della collaborazione degli architetti Valentina C. Belloni, Giorgio Jacchia, Anna G. Sala e Giovanna Tescione [21].
Tuttavia non è fuori luogo affermare che non è ancora stato scritto uno studio organico e approfondito su San Benedetto [22]. L’auspicio è che questa edizione, accanto alla segnalazione delle numerose carte conservate all’Ambrosiana per il secolo XIII e per i successivi, possa dare impulso a una nuova riconsiderazione critica [23]. In tal senso sembrano ancora valide le parole di Ugo Monneret De Villard, il quale a sua volta fornì una raccolta di regesti di documenti riguardanti la storia dell’Isola Comacina (sino al 1169) e un saggio introduttivo che, ancora a quasi un secolo di distanza di distanza, costituiscono una esperienza imprescindibile per chi si accinga a studiare queste terre e le istituzioni che su di esse operavano:
«Vi era dunque qualche attenzione nel rivolgere a lei <l’Isola Comacina, ndr.> l’attenzione: storici non ne aveva avuti speciali, che le vicende narrassero ed i monumenti illustrassero, se non gli accenni intercalati nel più vasto complesso della storia di Como. E ciò per mancanza d’uomini e non di materiali, chè la fortuna ci volle conservati quasi intatti i due fondi di documenti riguardanti l’Isola: quello della collegiata di Santa Eufemia passato quasi intero all’Archivio di Stato di Milano, e quello del convento dell’Acquafredda in pieve di Lenno, in cui era stato conglobato l’archivio del monastero di San Benedetto, pervenuto nella sua complessità alla Biblioteca Ambrosiana» [24].
Il monastero di Acquafredda
Due recenti saggi interpretativi, uno a cura Paolo Grillo [25] e un altro, successivo, curato dal citato Lucioni [26], maggiormente illuminano le vicende storiche del monastero di Acquafredda rispetto a quelle di San Bendetto.
Per gli anni precedenti, invece, come giustamente sottolinea Grillo, «l’attenzione storiografica riservata al monastero dell’Acquafredda è stata particolarmente ridotta» [27].
Tuttavia l’edizione delle scritture del monastero suggerisce riflessioni nuove, che sembrano rilanciare la ricerca. Esse appaiono indotte, oltre che dall’attenzione alle vicende della traditio delle carte, anche dall’analisi della loro materialità (inevitabilmente offuscata, invece, nelle trascrizioni di età moderna). Entro tale prospettiva, si aprono questioni inedite che postulano ulteriori approfondimenti e riconsiderazione da parte degli storici. È questo il caso, si cita qui soltanto un esempio particolarmente spinoso, sollevato delle scritture collegate alla fondazione del cenobio cisterciense [28].
La storia delle carte
Come accennato in premessa, le carte dei tre cenobi comaschi (oltre all’Acquafredda e a San Benedetto, anche San Faustino), si trovano attualmente conservate presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano, frammiste a scritture di provenienza diversificata. All’inizio di questo lavoro di ricerca, all’interno del Diplomatico dell’Ambrosiana si è dovuto in primo luogo ritrovare il fondo dei tre monasteri: guida sicura è stato il corpus di trascrizioni realizzato alla fine del Settecento da Ermete Bonomi, unitamente a quello delle trascrizioni del Della Croce (sempre indicanti l’archivio di provenienza). Ma soprattutto è stata feconda di risultati, in seguito all’utilizzo di questi primi elementi orientativi indispensabili, quella progressiva presa di dimestichezza con la materialità stessa delle carte: fino alla scoperta che i dorsi delle membrane dell’Acquafredda–San Benedetto erano ‘parlanti’. Le carte apparivano infatti caratterizzate da segnature alfabetiche, accompagnate da una numerazione, corredate da regesti realizzati in modo seriale da un archivista nel secolo XVII, al quale si sarebbe potuto dare un nome; si è inoltre rilevato che le membrane sono caratterizzate da un preciso sistema di piegature. Pertanto, durante la fase ricognitiva che imponeva lo scorrere del corpus di carte dell’Ambrosiana, per la individuazione di quelle appartenute ai due cenobi divenivano indicazioni quasi già esaustive la sola osservazione dei dorsi e l’analisi delle antiche piegature. Le note dorsali, insieme alla recuperata materialità delle scritture, oltre a dare informazioni quantitative sul passato delle membrane, hanno consentito anche di recuperare delle informazioni qualitative circa i modi della cura nella diverse fasi della loro custodia: infatti appariva che le pergamene, ripiegate in un certo modo in un primo tempo, successivamente erano state distese. Le stesse membrane, cioè, si sono rivelate testimonianza viva del mutare di concezione della conservatoria.
La ricognizione si è così venuta configurando come una sorta di scavo stratigrafico. E le ‘fasi’ archivistiche individuate, spesso hanno chiaramente mostrato correlazioni agli snodi della storia istituzionale dei monasteri. Nella descrizione delle note dorsali di ciascun documento, il lettore troverà riferimento alle fasi riconosciute e denominate con una lettera alfabetica maiuscola, laddove non è stato possibile appurare con certezza l’unitarietà della mano (vide infra, ad esempio, la fase A) o laddove una singola fase di organizzazione delle scritture ha previsto l’intervento di più operazioni (vide infra, ad esempio, la fase C).
Da due a uno: gli archivi nel medioevo
Anche in diocesi di Como, il Duecento si sta progressivamente profilando come secolo cruciale circa la produzione e la conservazione delle scritture (in particolar modo la seconda metà del secolo). Pure per Acquafredda, in quel periodo, si affacciava l’esigenza di ‘avere il polso’ del patrimonio monastico nella sua complessità, ai fini di una sua chiara conoscenza, volta ad una regolamentazione della situazione patrimoniale e della gestione dei diversi titoli relativi a possedimenti terrieri, rendite e cespiti dell’ente, e in vista di una amministrazione più razionale e proficua. Ne sono prova le prime note individuabili come seriali sui dorsi delle scritture di quel cenobio.
La lettura di queste annotazioni sul dorso esige, altresì, una contestualizzazione entro la più ampia dimensione diocesana, che registrava, all’epoca, sensibili cambiamenti nei confronti della prassi inventariale e delle sue norme. Invero, oltre il fatto che da sempre – entro una prospettiva ampia – evidenti esigenze di carattere amministrativo rendevano necessaria nella quotidianità l’elencazione di beni, di proprietà e diritti, si propone all’attenzione anche un fattore nuovo: nel corso del Duecento tali prassi, nel contesto delle istituzioni ecclesiastiche comasche, vissero una interessante fase evolutiva sia di portata tipologica, sia in rapporto alla consistenza quantitativa della produzione. In particolare, per le istituzioni ecclesiastiche della diocesi di Como, si sarebbe avuta una formulazione regolamentativa chiara ed esplicita nelle costituzioni sinodali del vescovo Leone Lambertenghi del 3 febbraio 1296 [29]. Esse imponevano espressamente l’obbligo di redigere inventari di beni, come enunciato al capitolo: «De faciendis inventariis de singulis possessionibus ecclesiarum» [30]. E anche il comune di Como, intorno al 1250, aveva fissato il precetto di compilazione di memorie di terre e beni [31].
Non si tratta di esperienze archivistiche strictu sensu, ed è bene precisarlo per non ingenerare equivoci (anche se sono ben note alcune esperienze miranti ad un governo del fiorire delle scritture) [32]. Ma certamente tali prescrizioni determinarono una rilettura delle carte, al fine di disporre, a vantaggio degli enti, di un quadro chiaro e preciso attestante proprietà e pertinenze. E così la concretezza e la praticità dei bisogni dell’amministrazione dei patrimoni fondiari suggerirono pure i modi di una prima razionalizzazione per la conservazione delle scritture, preferibilmente con degli interventi sulle carte stesse, mediante predisposizioni di note dorsali, indicanti la localizzazione del bene.
Nel caso specifico di Acquafredda, oltre alla considerazione delle direzioni operative presenti sul territorio, va altresì messa in risalto l’influenza che – credo – dovette esercitare una scelta prospettica dell’ordine cisterciense. Tischler sottolinea l’importanza di questo secolo nella storia documentaria dell’ordine, riflesso dalla rielaborazione sistematica dei documenti giuridici e di una maturazione, nel suo seno, di una più robusta coscienza circa la scritturazione (la riflessione dello studioso verte soprattutto sul contesto di elaborazione delle tabulae genealogiche) [33]. Ma basti per ora avere almeno affacciato questo tema che si presenta vasto e articolato [34].
Nelle note introduttive ai documenti il lettore individuerà questo intervento mediante la denominazione: fase A. Tale operazione, a sua volta, non pare attribuibile ad una sola mano, ma almeno a due mani differenti: una più posata e l’altra più incerta. Senza escludere la possibilità di altri interventi ancora. Due, invece, sono gli elementi sin d’ora chiari. In primo luogo risulta che l’intervento venne eseguito all’interno dell’Acquafredda e da qualcuno dell’Acquafredda stessa, come appare in alcune annotazioni che parlano del nostro monastero [35]. In secondo luogo si costata che, per la serialità dell’intervento, tutte le note dorsali hanno una struttura formale che si configura come standardizzata (ovviamente si trovano anche tratti peculiari rispetto a questo modello operativo prevalente, ma è forse improprio parlare di scarti o di eccezioni: più realistico sembra invece riferirsi alla concretezza dell’intervento manuale). Solitamente iniziano con il termine carta (anche nel caso della presenza di brevi); viene poi indicata la natura del negozio giuridico; quindi si ritrova l’impiego dal verbo facere (solitamente concordato con il nominativo di carta, ma non mancano i casi di concordanza con il genitivo del negozio: facta/facti); segue l’indicazione dell’agente introdotta da a/ab e l’ablativo. Infine, solitamente introdotto da in, appare il dato di localizzazione del bene.
Ovviamente queste note dorsali sono tipiche di Acquafredda, mentre mancano nelle carte di San Benedetto, le quali non offrono delle annotazioni riconoscibili come di natura seriale ma, spesso, valorizzano l’ubicazione del bene [36]. Pare che, anche per San Benedetto, esse siano collocabili cronologicamente nella seconda metà del Duecento e siano pertinenti, pertanto, al medesimo contesto precedentemente descritto.
Per un certo periodo la storia degli archivi dei due cenobi risulta essere distinta. Tra il 1430 e il 1431, Andrea Meraviglia, abate di Chiaravalle, in qualità di commissario di papa Martino V, unì il cenobio benedettino a quello dell’Acquafredda, ponendo alla dipendenza di quest’ultimo beni e scritture del più antico monastero [37]. E da allora la storia dei due archivi appare inscindibilmente unita.
Un successivo intervento – a seguito della fusione degli archivi – avrebbe riguardato soprattutto le scritture di San Benedetto che sul dorso non recavano quelle informazioni che invece le note medievali permettevano di recuperare agevolmente nelle carte di Acquafredda. Al chiudersi del Medioevo, o alla prima età moderna, risale dunque una operazione che mirava a fare sì che sulla totalità dei dorsi apparissero le informazioni legate alla collocazione dei beni. Si può certamente parlare di serialità dell’intervento, ma forse non di individualità operativa. Nelle descrizioni essa viene indicata come fase B.
Il Seicento: la messa in forma dell’archivio
È stato particolarmente difficoltoso collocare nel tempo l’intervento seriale identificato sulle carte di Acquafredda–San Bendetto che qui viene presentato come fase C. Allo stato attuale degli studi, non sono noti strumenti di corredo legati a questo ‘rimodellamento’; e non è possibile neppure contare sull’analisi paleografica, dato che le operazioni effettuate a quest’epoca sono attestate sui dorsi soltanto da una lettera alfabetica e da un numero arabo (decisamente troppo poco per una precisa collocazione dell’intervento nei secoli dell’età moderna). Pare comunque verisimile l’ipotesi di ritenerlo quale terzo intervento ed anche di datarlo prima del 1675, allorché venne effettuato un riordinamento cronologico complessivo delle pergamene del quale si dirà tra poco. Dopo di quella data le testimonianze sembrano unanimemente palesare il mantenimento di un criterio d’ordine cronologico. Tuttavia il lettore è invitato alla cautela, a motivo della valutazione ipotetica di questa datazione. Resta aperta la via di uno scambio di riflessione costruttivo per migliorare tale prima proposta di inquadramento [38]. Inoltre si profila la speranza che indicazioni utili possano venire da una ulteriore più puntuale analisi dei dorsi delle pergamene tardo medievali e della prima età moderna, entro una auspicata sempre più approfondita visione di complesso.
A questo ripensamento dell’archivio sono riferibili tre (o forse quattro) momenti legati tra di loro. Essi emergono dall’analisi delle note dorsali. Sono presentati qui di seguito, nella loro successione verisimile:
- apposizione di un identificativo alfabetico: da un’unica mano viene vergata una lettera dell’alfabeto. Tale lettera identifica gruppi di documenti in relazione alla natura del negozio giuridico. Ad esempio, la lettera "V" contrassegna le vendite, la "D" le donazioni. Tuttavia non sempre il criterio della scelta della lettera appare chiaro e coerente (forse poiché la storia del bene stesso prevalse rispetto al singolo negozio giuridico, come pare realistico ipotizzare).
- ripetizione dell’identificativo alfabetico già attribuito alla membrana. Viene spesso compiuta da una mano diversa rispetto a quella descritta nel precedente punto.
- datazione delle membrane: al verso viene scritto l’anno di redazione del documento (in seguito l’anno apposto in questa fase sarebbe stato recuperato con significato diverso e integrato con altre informazioni dall’abate Ferrario, vide infra). Pertanto non è del tutto certo, anche se pare molto probabile, che la scrittura dell’anno sia da riferire a questa fase C (vide il punto 4).
- numerazione progressiva all’interno delle serie: ordinamento cronologico delle scritture nelle diverse serie (credo sia legittimo l’uso di questo termine, da intendersi comunque in modo particolarmente fluido). La mano che eseguì questa operazione è forse la stessa del punto 3: in entrambe i casi l’inchiostro è oggi completamente svanito, ma quasi sempre recuperabile con l’ausilio della luce di Wood.
Ad ogni modo, la parzialità delle ricerche sin qui svolte impone cautela. Quel che appare chiaro e certo è questa riorganizzazione delle carte per negozio e quindi per data, al di là delle singole responsabilità descritte nei punti 1–4 pocanzi illustrati. Per questo l’operazione nel suo complesso, nelle note introduttive a ciascun documento, viene globalmente identificato come fase C.
È invece databile con certezza il riordinamento eseguito negli anni della reggenza dell’abate Franco Ferrario e realizzato personalmente dall’abate stesso. Il dato appare nell’intestazione che il monaco vergò sulla raccolta di regesti da lui compiuta e che oggi è conservata alla Biblioteca Ambrosiana all’interno di un volume miscellaneo, identificato dalla segnatura M 75 suss., alle cc. 439r–471v. Viene presentata quale:
«Sommario cronologico delle scritture antiche che si trovano nel monastero di Santa Maria, San Pietro apostolo e Sant’Agrippino confessore dell’Acquafredda, pieve di Lenno, diocesi di Como, cavato da me don Franco Ferrario abbate del medemo monastero dell’ordine cisterciense, l’anno santo 1675».
Nel fascicolo manoscritto si legge la regestazione ordinata, in ordine cronologico per centurie, delle scritture del monastero, a partire dal 1042 al 1268. Il cambiare del secolo è indicato con le seguenti intitolazioni, che aprono sezioni differenti del lavoro archivistico:
- il secolo undicesimo è privo di intestazione, si trovano 18 regesti (il primo dei quali descrive due documenti, quelli conservati sulla stessa membrana, oggi con segnatura 1357 e 1357 bis, editi al n. 1 e n. 2).
- «Nel secolo duodecimo» (c. 441v), si trovano 105 regesti per complessive 113 unità documentarie [39].
- «Nel secolo 13°» (c. 453r, depennato). La sezione è lacunosa e si interrompe all’anno 1169.
Dunque sono menzionate e descritte 131 unità documentarie che coprono l’arco temporale dal luglio 1042 (doc. n. 1 edito in questa silloge) al primo dicembre 1200 (in realtà 31 dicembre 1200, poiché il Ferrario non calcola mai in modo corretto il die exeunte; si tratta del doc. qui edito al n. 143). Sin d’ora si segnala che vengono tralasciati gli elenchi di beni e di terre privi di sottoscrizione notarile, mentre rimando all’edizione cartacea per un raffronto puntuale tra quanto conservato e quanto presente nel Sommario cronologico. A quella sede si rimanda pure per considerazioni metodologiche sull’operare dell’abate Ferrario.
Si sottolinea invece sin d’ora che la stesura dei regesti nel Sommario cronologico fu affiancata da un intervento seriale operato dal medesimo abate sulle carte stesse, come l’analisi paleografica e grammaticale confermano in modo certo. Il Ferrario vergò su ogni dorso annotazioni in forma di scheletrici regesti, nei quali sempre vengono indicati il tipo di negozio giuridico e (ancora una volta) la localizzazione del bene. Ognuno di questi transonti presenta, in apertura, l’indicazione della data cronica. Spesso l’abate scrisse soltanto il mese e il giorno, quali integrazione dell’anno già vergato da un’altra mano (quella descritta nel terzo momento della fase C).
Infine, va rilevato che all’interno del Sommario cronologico è presente un foglietto mobile di rimando, identicamente di mano del Ferrario. Se ne trascrive il contenuto (è conservato in corrispondenza delle cc. 469v–470r):
- «1153: vedi l’esposizione del codice n° 10»
- «1447: vedi l’esposizione del codice n° 3 e 34»
- «1556: vedi doppo l’esposizione del codice 37»
- «1577 (lettura dubbia della decina): vedi le memorie raccolte da i libri nostri»
Queste annotazioni rimandano ad un altro lavoro preziosissimo del Ferrario, pure in avanzato corso di edizione da parte mia. Si tratta del catalogo dell’antica biblioteca monastica di Acquafredda, recante la seguente intitolazione:
«Index codicum antiquorum manuscriptorum, qui hoc anno 1674 extant in Bibliotheca monasterii Acquefrigide ordinis Cisterciensis, sub abbate don Franco Ferrario ».
Una opportuna valorizzazione della prima annotazione e del codice ivi ricordato si legge nell’Appendice dei documenti, al n. 145.
L’impostazione conferita dal Ferrario all’assetto dell’archivio appare definitiva. Le pergamene del tabularium continuano ovviamente ad essere strumenti per l’amministrazione ma, specie e soprattutto per le carte più antiche, il riordinamento Ferrario, con la predisposizione di uno strumento di corredo (accanto al citato catalogo della Biblioteca), oltre che per fini amministrativi, si configurò anche come attestazione del consolidarsi di una profonda autocoscienza e agì come linfa feconda a disposizione per interessi e obiettivi eruditi.
Proprio queste due direzioni vengono riflesse da un’opera che chiude il secolo, scritta nel 1690 da un anonimo monaco dell’Acquafredda. Il riferimento è a uno scritto presentato come spiccilegio. Oggi, conservato in copia, costituisce il settimo fascicolo rilegato nel volume composito miscellaneo dell’opera manoscritta: Cartulari inediti di chiese e monasteri d’Italia, volume 7° (Braidense, Fondo Morbio, 30, vol. VII). Se ne trascrive l’intestazione:
«1690. Spicileggio dell’abbazia di Acquafredda del sacro ordine cisterciense, diocesi di Como, pieve di Lenno. Copia confrontata col suo originale esistente appresso dell’illustrissimo signor abbate conte don Francesco Pellegrini degli Albrici canonico ordinario della chiesa cattedrale di Como e subeconomo pontificio regio nella diocesi di Como, dal quale mi fu affidato detto originale nell’anno 1724» [40].
Resta da fare una riflessione relativa ai modi utilizzati per la conservazione delle pergamene nella loro materialità. Almeno a partire dalla fase C, è possibile provare che tutte le membrane, anche quelle di San Benedetto, erano conservate con piegatura orizzontale e con un numero di pieghe assai elevato (in media una piega ogni 50 mm di membrana). Verticalmente, invece, era predisposta soltanto una piega mediana, salvo nel caso in cui una membrana fosse particolarmente larga (nel qual caso erano realizzate un’altra o altre due pieghe). Le membrane si presentavano così come dei piccoli rettangoli tutti ripiegati su se stessi, e le note dorsali, tutte quelle sino ad ora descritte, si trovavano nelle superfici disponibile: i due rettangoli di membrana posti esternamente. La datazione che ho proposto come riferibile alla fase C appare vergata in prossimità del margine. Le regestazioni del Ferrario, integrando quella data, si disponevano assecondando il lato corto del rettangolo, con la disposizione a capo di quasi ad ogni parola. Il Bonomi invece, accingendosi a compiere il suo poderoso lavoro al chiudersi del XVIII secolo, oltre a intessere le scritture a quelle del monastero di San Faustino, ne mutò anche il modo di conservazione: da serratamente piegate, quali le trovò, a distese, secondo i dettami dell’abate Fumagalli.
La soppressione del 1785: il ruolo della scuola Santambrosiana
Il monastero di Acquafredda cessò la sua esistenza in seguito alla politica di soppressioni operate per volontà di Giuseppe II. Il 18 maggio 1784 una lettera del sovrano all’indirizzo del vescovo di Como Giovanni Battista Mugiasca (1764–1789) notificava la decisione di eliminare tutti quei monasteri presenti in diocesi che non avevano rendite sufficienti al sostentamento di 30 religiosi. Nell’agosto del 1785 avvenne la soppressione del cenobio dell’Aquafredda: i suoi monaci si trasferirono presso la Certosa di Pavia, portando con sé il tabularium del monastero [41]. Nell’anno successivo (maggio 1786), la medesima sorte toccò al monastero di San Faustino dell’Isola. Si provvide tuttavia che il relativo archivio venisse unito a quello dell’Acquafredda e posto al sicuro nella suddetta Certosa. Il merito di tale accorpamento, che sottraeva un consistente numero di scritture ad un destino di probabile dispersione, è da ascrivere principalmente all’ultimo abate dell’Acquafredda: Pompeo Casati. Questa figura avrebbe influito non poco anche sulle successive vicende occorse alle scritture dei tre monasteri.
L’interessamento del Casati si inseriva nella cornice del ruolo assunto dalla congregazione cistercense entro il programma di riforme culturali elaborato dal governo austriaco. Il Kaunitz riteneva infatti, come ben noto, che tutte le istituzioni religiose avessero il compito di collaborare al progresso degli studi, dando prova della propria pubblica utilità con delle specializzazioni in un settore peculiare [42]. La congregazione cistercense – in continuità con una tradizione centenaria – decise di dedicarsi agli studi di Diplomatica e tale scelta venne accolta di buon grado dal governo. L’abate Angelo Fumagalli [43], che aveva elaborato il programma delle ricerche da inoltrare al governo austriaco – cosa che avvenne nel 1774 [44] – diede poderoso impulso a questo ambito di specializzazione. Furono avviati censimenti, riordinati numerosi archivi dell’ordine e si diede l’avvio a imponenti lavori di trascrizione nonché a studi e a riflessioni teoriche. Tutte le iniziative ebbero come centro l’archivio del monastero di Sant’Ambrogio di Milano, non senza l’apporto di altri archivi della congregazione. Al principio degli anni ‘80 l’ordine cistercense appariva ormai consolidato in questo ruolo di capofila degli studi diplomatistici, sì da annoverare «quattro maestri diplomatici». Fra di essi, quale «maestro e lettore diplomatico» [45], è elencato anche padre Pompeo Casati: e si tratta precisamente dell’ultimo abate dell’Acquafredda [46]. Fu tale clima di studi, condivisi da numerosi membri dell’ordine, a determinare le scelte che salvaguardarono e valorizzarono anche il corpus documentario dei tre monasteri comaschi. E il successivo trasferimento di queste carte, dalla Certosa di Pavia al monastero di Sant’Ambrogio, favorì quell’opera di studio e di trascrizione che ebbe inizio a partire dal 1789 circa. Di ciò si occupa il successivo paragrafo.
Le trascrizioni del Bonomi presso il monastero di Sant’Ambrogio di Milano
Invero tutto il corpus documentario ‘cristallizzatosi’ intorno al tabularium del cenobio di Lenno, una volta condotto al monastero di Sant’Ambrogio di Milano, divenne oggetto di attenzioni particolari. L’abate Fumagalli affidò al monaco Ermete Bonomi [47], che da molti anni operava quale suo prezioso collaboratore, l’incarico della trascrizione delle scritture conservate nel tabularium dell’Acquafredda.
Nel proemio del poderoso lavoro, il Bonomi notifica e descrive, anzitutto, la vicenda di quei trasferimenti delle carte, già sinteticamente richiamati nel precedente paragrafo. Dipinge inoltre il contesto culturale in cui il suo lavoro di trascrizione si inseriva.
«Quo tempore in transcribendis illustrandisque Clarevallensibus monumentis, que in eius chartophylacio adservantur totis nisibus incumberem, contigit ut a monasterio Sancte Marie Aquefrigide ad oram Larii lacus, cuius monachi ad Ticinensem Caretusiam fuerant tum traslati, eiusdem tabularii charte ac diplomata ad Mediolanense Sancti Ambrosii cenobium transferrentur. Hec porro monumenta reverendissimus P. D. Angelus Fumagalli, tunc Clarevallensis abbas ac regiminis caput, committi mihi voluit ut quod cum Clarevallensibus chartis fueram executoris, idipsum cum istis prestarem.
Alie preterea hisce adiecte fuere que reverendissimus P. D. Pompeus Casati, postremus Aquefrigide abbas, et tunc abolito Sancti Faustini de Insula seu Sancti Iohannis de Campo parthenone ordini Sancti Benedicti, acquisierat.
Prompto igitur alacrique animo, traditam mihi novam hanc provinciam adorsus concreditas mihi cartas, omnes in ordine redigi easque ad seculum usque quartum decimum transcripsi, additis chartarum synopii, notis ac multiplici indice eandem prorsus rationem secutus ac methodum qua Clarevallenses digesseram.
Exempla tabularum utriusque monasterii, quibus etiam ora intexta sunt, que ad cenobium Sancti Benedicti montis Altironi olim pertinuerant, tribus voluminibus conclusi reliqua (…) suppeditabit» [48].
Queste parole del Bonomi sono cariche di molteplici preziose informazioni. Segnalano che le trascrizioni dell’Acquafredda fecero seguito immediato a quelle relative alle carte del monastero di Chiaravalle; il nostro monaco vi aveva atteso tra il 1785 e il 1789 [49], allorché ricopriva la carica di archivista e di bibliotecario presso quel cenobio [50]. Lo stesso testo introduttivo del Bonomi documenta la sede delle trascrizioni: vennero realizzate presso il monastero di Sant’Ambrogio di Milano dove egli era tornato a risiedere, con la carica di archivista, proprio a partire dal 1789 [51]. Esplicita che l’incarico di quel lavoro gli era stato assegnato dallo stesso abate Fumagalli. Sottolinea il ruolo attivo che il monaco e collega diplomatista Pompeo Casati ebbe, tanto nel reperimento delle scritture quanto nella cura dei loro trasferimenti. Informa che egli in persona aveva posto già in ordine cronologico i documenti dei tre monasteri e che le scritture, al momento della loro copiatura, erano frammiste («intexta sunt»). Avverte infine, riguardo al metodo di trascrizione adottato, della scelta di conformità agli stessi criteri già applicati in relazione alle carte del monastero di Chiaravalle.
Videro così la nascita i tre volumi di trascrizioni dell’Acquafredda curati da Ermete Bonomi, che sono oggi conservati presso la Biblioteca Braidense di Milano [52]. Si tratta dei:
«Diplomatum aliorumque ex membranis monumentorum ad cænobia Sancti Benedicti et Sanctæ Mariæ Aquæ Frigidæ nec non Sancti Faustini parthenonem prope Larium existentia olim pertinentium transumpta exempla, multiplici indice ac notis illustrata a don Hermete Bonomi cistercensi monacho et sacerdote».
Il contributo di tale lavoro è per noi oggi particolarmente prezioso, soprattutto in relazione alla sorte che toccò, in seguito, alle carte dell’Acquafredda. Quelle trascrizioni costituiscono infatti un sicuro orientamento per ritrovare quella facies settecentesca a cui si faceva riferimento in apertura. Tanto più utili in quanto le vicende occorse alle scritture dei tre monasteri non erano terminate. Dal cenobio di Sant’Ambrogio sarebbero passate, pochi anni dopo, alla Biblioteca Ambrosiana di Milano.
Le scritture presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano
Dal 1789 e ancora per un indeterminato numero di anni immediatamente successivi (almeno quelli necessari al Bonomi per il completamento dei tre volumi di trascrizioni) le carte dei tre monasteri comaschi rimasero presso il monastero di Sant’Ambrogio di Milano.
Di un altro dato abbiamo piena certezza: al principio dell’Ottocento le scritture dell’Acquafredda non erano più presenti nell’archivio di Sant’Ambrogio. Quell’antico cenobio infatti, soppresso nel marzo del 1799 [53], era divenuto proprietà del Governo e, in quel frangente, l’autorità civile aveva avviato la ricognizione sistematica di quanto conservato nel prestigioso tabularium [54]: ma le carte dell’Acquafredda non vi compaiono.
Invero, i mesi immediatamente precedenti alla soppressione risultano esser stati decisivi per determinare un’ampia dispersione anche di manoscritti. Come aveva già rilevato e ampiamente documentato Anna Maria Ambrosioni, «è fuori dubbio che molto fu venduto alla vigilia della chiusura del monastero, e molto fu portato via dai monaci stessi e venduto in seguito» [55].
Fu in questi frangenti che la Biblioteca Ambrosiana si pose sul mercato come uno degli acquirenti più interessati e competitivi. La prestigiosa istituzione si mosse con profonda oculatezza e consapevolezza e poté essere avvantaggiata, come già si dichiarava in apertura, anche a motivo di rapporti consolidati con numerosi religiosi appartenenti alle istituzioni soppresse. La Biblioteca Ambrosiana poté procedere così a numerosi preziosi acquisti [56].
Per gli scopi della presente indagine ha un significato rilevantissimo la notizia dell’avvenuta compera di ventisei cartelle contenenti 1.266 pergamene. Vennero cedute alla Biblioteca Ambrosiana nel marzo del 1799 dall’abate stesso del monastero di Sant’Ambrogio, Angelo Fumagalli. Questo monastero era stato soppresso il 20 marzo, mentre è datato 28 marzo il mandato di pagamento a favore del proprefetto Bugati: la somma di 300 lire venne devoluta dall’Ambrosiana per il saldo delle suddette membrane [57].
La coincidenza cronologica dona corpo all’ipotesi di identificazione di queste pergamene con quelle provenienti dall’Acquafredda. Parimenti il riscontro numerico [58], condotto sull’intero corpus del fondo Pergamene dell’Ambrosiana, si presenta quale conferma dell’ipotesi stessa. Tanto che il dato che le ventisei cartelle contenessero le scritture dell’archivio dell’Acquafredda, assume dei connotati che lo qualificano ben più che come semplice ipotesi.
Un altro fattore avvalora l’idea avanzata. A partire dagli anni ‘60 dell’Ottocento, Antonio Ceruti [59], che di lì a pochi anni avrebbe ricoperto il ruolo di viceprefetto della Biblioteca, iniziò la compilazione dei regesti delle Pergamene dell’Ambrosiana; il suo lavoro vide la conclusione certamente prima del 1880 [60]. Ora, questi regesti ‘fotografano’ questa collezione di membrane, ordinate cronologicamente, in consonanza con la dottrina archivistica lombarda dell’epoca [61]. Nei regesti del Ceruti compaiono anche i documenti dei tre monasteri lariani. Ed è utile rimarcare –allo stato attuale degli studi– che tra il 1800 e il 1860 non risultano esservi state, da parte della Biblioteca, altre acquisizioni così corpose di membrane.
Una volta entrate all’Ambrosiana, le scritture dell’archivio dell’Acquafredda furono inserite nel Diplomatico della Biblioteca. Così avvenne che le carte dei tre monasteri comaschi si fondessero e si confondessero con quelle degli archivi di altre istituzioni. Questo progetto di ricerca ha costituito una iniziale occasione feconda per ripercorrere la strada verso le origini.
Note
[1] A questi 144 documenti di provenienza certa, va aggiunto un documento edito in Appendice e di provenienza incerta. Esso, risalente al 978 e conservato in copia, costituirebbe il termine cronologico più remoto. Tuttavia l’incertezza della sua afferenza all’archivio di Acquafredda (o a quello di San Benedetto), suggerisce cautela – almeno allo stato attuale delle conoscenza – nell’arretrare l’estremo cronologico di quasi un secolo. In questa presentazione generale delle scritture si farà riferimento alle carte di provenienza certa, mentre per questa – l’unica tra l’altro ad essere attualmente conservata in ASMi – si rimanda allo specifico testo introduttivo (doc. n. 146). Si precisa inoltre che in una seconda appendice viene edita una fonte memoriale conservata all’interno di un codice della biblioteca monastica. Anche per questo caso, si rimanda allo specifico testo introduttivo (doc. n. 145).
[2] Per una riflessione riguardo ad un simile contesto archivistico affrontato con analogo approccio, si rimanda a: GHIGNOLI, Introduzione, in Carte della Badia di Settimo, pp. XIV–XX. Inoltre si confronti almeno: CAVAZZANA ROMANELLI, Gli archivi dei monasteri benedettini del Veneto, pp. 70–85.
[3] Cf. le edizioni di documenti a cura di Antonio Ceruti, dottore dell’Ambrosiana dal 1870, pubblicate nell’Appendice al Liber statutorum consulum Cumanorum; del 1876; quelle di Karl Meyer in Blenio und Leventina; pubblicate nel 1911; quelle curate da Carlo Manaresi nell’«Archivio Storico della Svizzera italiana» del 1927–1928 e nei volumi degli Atti privati milanesi e comaschi del 1960–1969. Si tratta di edizioni di selezioni di documenti, legate a uno specifico tema o a uno specifico contesto territoriale indagato.
[4] Vide infra nota 7.
[5] Per le collezioni documentarie, e loro differenze sostanziali con gli archivi, soprattutto: VALENTI, Nozioni di base per un’archivistica come euristica delle fonti documentarie, p. 218. Riguardo alla Biblioteca Ambrosiana, nell’Introduzione al catalogo della mostra La Biblioteca delle meraviglie, Continisio–Frosio–Riva scrivono: «A partire dal 1601, la ricerca di libri e manoscritti si fa più incalzante e attenta, e si trasforma in una vera e propria politica di acquisti di straordinaria apertura culturale e geografica». Il riferimento delle curatrici è all’acquisto di codici; tuttavia – sebbene con proporzione d’interesse inferiore, come attesta la stessa consistenza quantitativa delle Pergamene rispetto al patrimonio di codici – i dottori dell’Ambrosiana seppero riconoscere con acuta sensibilità l’opportunità di acquisizioni di fondi documentari o di singoli pezzi sciolti considerati di pregio. Un esempio eclatante è costituito dal caso del monastero di Santa Maria Teodote di Pavia, dal cui archivio l’Ambrosiana poté acquisire un nucleo documentario particolarmente prezioso: ventisei diplomi regi e imperiali. In dettaglio tredici diplomi del IX secolo (833–900), 9 del X (901–996), 4 dell’XI (1001–1196): Cf. ANSANI–BARETTA, Le carte del monastero di Santa Maria del Senatore, Introduzione. E i diplomi di questo monastero pavese costituiscono ancora oggi la parte più antica della collezione di pergamene dell’Ambrosiana.
[6] Il dato appare con chiarezza costante nei volumi che percorrono, dalle origini sino ai tempi recenti, la storia della prestigiosa istituzione milanese. Il riferimento è in particolare ai quattro volumi di Storia dell’Ambrosiana, editi tra il 1992 e il 2001 da Banca Intesa.
[7] Il riferimento è alla relazione, da me curata, dal titolo Angelo Fumagalli e le pergamene della veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano: riflessioni di metodo ed episodi. Essa sarà pubblicata negli atti della giornata di studio che si terrà il 7 giugno 2011: «Un tesoro infinito inveduto». Erudizione e documentazione a Milano tra XVII e XIX secolo (Archivio di Stato di Milano, Sala conferenze), promosso dall’Università degli Studi di Milano–DipartimentoDipartimento di Scienze della storia e della documentazione storica, dall’Archivio di Stato di Milano, dall’Associazione “Archeion” e dalla Società storica lombarda.
[8] A Milano, a partire dal 1781, gli archivi degli enti ecclesiastici soppressi furono concentrati in San Fedele, ex Collegio dei gesuiti (una sintesi dei ben noti fatti in Formazione e vicende storiche dell’Archivio di Milano, in Archivio di Stato di Milano, ora distribuito anche in formato digitale all’url: <http://archiviodistatomilano.it/storia/>; cf. anche la bibliografia citata alla nota n. 54). A titolo comparativo, si riferisce l’analogo caso di dispersione delle scritture avvenuto a Pavia e indagato da Mirella Baretta. Annota la studiosa: «È a questo periodo <epoca delle soppressione e successivo trasferimento in San Fedele, ndr.> che si può attribuire la sparizione di numerosi documenti dagli archivi di provenienza e la loro raccolta in collezioni private, spesso con la complicità dei superiori stessi dei monasteri, che pensavano così di salvaguardare la memoria del loro istituto. Una parte di tale materiale documentario si può trovare oggi nelle raccolte membranacee della biblioteca Universitaria e della biblioteca civica “Carlo Bonetta” di Pavia, dove è pervenuto in seguito ad acquisti o donazioni»: ANSANI–BARETTA, Le carte del monastero di Santa Maria del Senatore, testo in corrispondenza della nota 12, a cura della studiosa.
[9] Questa prospettiva di ricerca è stata efficacemente esplorata particolarmente negli studi di Ezio Barbieri. Cf., ad esempio: BARBIERI, Per l’edizione del fondo documentario di S. Giulia, pp. 49–92; IDEM, L’archivio del monastero di San Benedetto di Leno, pp. 255–262.
[10] LUCIONI, Insediamenti monastici medievali, p. 85.
[11] In relazione all’esperienza benedettina, si richiamano le limpide parole di P. Zerbi nel delineare questa ‘direzione comasca’, in particolar modo durante l’episcopato del vescovo Rainaldo (1063–1084): «L’espansione di Como, lungo i laghi e fin oltre lo spartiacque alpino, era stata impressionante per la sua profondità. La Chiesa comasca, al tempo di Rainaldo, esercitava la giurisdizione spirituale su un territorio che comprendeva , in più dell’attuale, una estesa parte del Canton Ticino, con quasi tutto il lago di Lugano, quindi, e un angolo del Maggiore, e, come oggi, buona parte del lago di Como, nonché tutta la Valtellina con Chiavenna e Bormio, giungendo ad assestarsi oltre la linea alpina di displuvio (…). I monasteri (…) sono punte avanzate di questa arrampicata verso le Alpi, nella quale Como trova, naturale e formidabile concorrente, Milano, egualmente importante per la politica imperiale e del pari lanciata verso i laghi e i valichi montani, per dare sempre più largo spazio e respiro ai suoi traffici»: ZERBI, Il vescovo comense Rainaldo, pp. 23–24.
[12] In primo luogo, circa i secoli centrali del medioevo, il riferimento va all’esperienza del Codice diplomatico della Lombardia medievale (secoli VIII–XII), progetto promosso da oltre dieci anni dall’Università degli studi di Pavia – Dipartimento di Scienze storiche e geografiche “C. M. Cipolla” (responsabile scientifico M. Ansani), on line all’url <https://www.lombardiabeniculturali.it/cdlm>. Il riferimento non è ovviamente soltanto alle edizioni di Area comasca, ma anche a quelle esperienze editoriali di carte afferenti a istituzioni protagoniste di quella «arrampicata verso le Alpi» (di cui si faceva riferimento nella precedente nota). Il riferimento è soprattutto all’edizione delle Carte del monastero di Sant’Ambrogio, a cura di Marta L. Mangini (III/1:1101–1180) e di Ada Grossi (III/2: 1181–1200). È inoltre preziosa la recente edizione di scritture del monastero di Sant’Abbondio di Como, a cura di Liliana Martinelli Perelli: Carte del monastero di Sant’Abbondio di Como. Infine è da ricordare l’edizione in corso delle carte della canonica di Santa Eufemia dell’Isola Comacina, a cura di Patrizia Merati (progetto dell’International Research Center for Local Histories and Cultural Diversities dell’Università dell’Insubria).
[13] ZERBI, Il vescovo comense Rainaldo, p. 37.
[14] Sul significato del termine conversi in questo contesto cf. LUCIONI, Insediamenti monastici medievali, p. 71, il quale opportunamente rimanda a BECCARIA, I conversi nel medioevo, pp. 120–156.
[15] Su questi aspetti si rimanda a XERES, La riforma ecclesiastica del sec. XI, p. 67, nonché IDEM, Uno sguardo da Delebio, relazione tenuta durante il convegno La nascita del comune rurale nelle Alpi, convegno organizzato su iniziativa del comune di Delebio e dell’Amministrazione Provinciale di Sondrio, in occasione della celebrazione degli ottocento anni dalla redazione dei più antichi testi statutari comunitari noti (il riferimento era al doc. oggi conservato in BAMi, Pergamene, n. 1515, riguardo alla cui natura si fa cenno nell’introduzione al doc. n. 142). Gli atti di quel convegno, purtroppo, sono ancora in attesa di stampa.
[16] COTTINEAU, Répertoire topo–bibliographique, II, p. 2608. Lo studioso rileva in particolare l’erroneità della posizione dell’Ughelli, Lubin e Ballarini, che vorrebbero il San Benedetto filiazione dell’ordine cisterciense, con evidente anacronismo. Probabilmente tale equivoco fu ingenerato dalla unione con Acquafredda nel 1431, di cui si tratterà in seguito.
[17] LONGATTI–XERES, Fondazioni monastiche in diocesi di Como, pp. 80–81.
[18] BUSTAFFA, Monastero di San Benedetto (sec. XI – sec. XV): <http://www.lombardiabeniculturali.it/istituzioni/schede/11500663/> .
[19] BELLONI, Il San Benedetto in val Perlana.
[20] L’autore aveva già pubblicato una serie di interventi in vista del restauro e miranti alla valorizzazione del complesso architettonico. Qui si ricordano soltanto: I monumenti romanici della pieve d’Isola, del 1962; e San Benedetto in Val Perlana. Si deve intervenire puntando a rivitalizzare l’intero complesso, del 1985.
[21] Gli studiosi sopra citati sono coautori della tesi di laurea discussa nell’ a.a. 1988–89 presso il Politecnico di Milano–Facoltà di Architettura: Analisi storico–tipologica del monastero di San Benedetto, rel. C. Perogalli.
[22] Episodiche menzioni si trovano anche all’interno delle ‘classiche’ opere di storiografia comasca (Tatti, Cantù, Rovelli … cf. la bibliografia generale a questa edizione): il lettore ne troverà puntuale informazione nelle note introduttive a ciascun documento.
[23] Ma cf. anche: ASCARELLI D’AMORE, Notizie e documentazioni storiche (con alcune imprecisioni nelle date croniche di alcuni documenti regestati); VACCANI, San Benedetto in val Perlana. I primi documenti, pp. 243–259; IDEM, San Benedetto in val Perlana. I documenti dell’archivio, pp. 379–387; RUSCONI, L’abbazia di San Benedetto al Monte in Val Perlana, pp. 415–427.
Infine, entro una prospettiva di ampio respiro, il già citato: ZERBI, Il vescovo comense Rainaldo, pp. 23–44 (p. 38)[24] MONNERET, L’Isola Comacina, p. 3.
[25] GRILLO, L’abbazia cistercense dell’Acquafredda, pp. 129–176.
[26] LUCIONI, Insediamenti monastici medievali, pp. 83–88.
[27] GRILLO, L’abbazia cistercense dell’Acquafredda, p. 133, ove rimanda a JANAUSCHEK, Originum Cistercensium, p. 75, n. 184; MONNERET DE VILLARD, L’Isola Comacina, pp. 3–243. Cf. inoltre le seguenti schede sintetiche: L’abbazia dell’Acquafredda, a cura di Mario Longatti e Saverio Xeres, pp. 86–87; Acquafredda (Lenno, CO) – Monastero di Santa Maria di monte Oliveto, a cura di F. BUSTAFFA, scheda pubblicata on line, nell’ambito del progetto Civita, all’url: <http://www.lombardiabeniculturali.it/istituzioni/schede/11500657/?view=toponimi & hid=3003016> (ultimo aggiornamento 2006). Infine, si veda anche il recente studio di sintesi curato da MASCETTI, Il priorato di Piona e l’abbazia dell’Acquafredda di Lenno, pp. 163–175. Per una maggiore completezza di informazione si ricordano pure i due seguenti lavori di intento divulgativo: CETTI, L’abbazia dell’Acquafredda di Lenno, pp. 309–325 e ARCARI–COSTAMAGNA, L’abbazia dell’Acquafredda.
[28] Per questa peculiare problematica si rimanda alla introduzione del doc. n. 30. Ivi sono presentati gli elementi documentari e le notizie storiografiche ad oggi disponibili. Si rimarca che essi vengono addotti a modo di uno status quaestionis. Ai dati esposti andrà dedicata, specialisticamente, acribìa interpretativa e severo vaglio esegetico.
[29] Edite in MONTI, Le carte di S. Fedele, p. 283 (vide la nota seguente). Cf. CONTINI, Il liber mensurarum, pp. 213–214. Cf. inoltre DI MARCO, Terre contadini e massari, pp. 311–370 (p. 314), tratto dalla tesi di laurea: I possessi del Capitolo cattedrale di Como in valle di Muggio.
[30] In particolare: «(…) Quia utique hominum obliterata oblivio difficultates implicat futurorum et omnium habere memoriam pocius divinum dicitur quam humanum presenti, nostro decreto constitucionis disponimus firmiter observandum ut singuli prelati, abbates, archypresbiteri, prepositi, capellani et alii ecclesiarum rectores cumane civitatis et diocesis de singulis possessionibus ipsarum ecclesiarum soliciter et fideliter inventarium faciant, et sive scriptum, in quo suarum ecclesiarum possessiones distincte et particolariter annotentur, cum confinibus, limitibus et lateribus et ordinatis: quas possessiones cum perticis mensurari precipimus, et ipsarum perticarum numerus in predicto scripto sive inventario, quod in thesauro sive archivio ecclesie perpetuo conservari decernimus ascribatur (…)»: MONTI, Le carte di S. Fedele, p. 283.
[31] Si richiama il caso di Santa Maria Vecchia di Como, del 1255: «Ec est memoria (…) illarum terrarum et sediminum et aliarum rerum quas et que monasterium Sancte Marie Feminillis quod dicitur Monasterium vetus de porta Monasterio de civitate Cumana habet (…)../ in loco et territorio de Soco et de Fine et de Vertemate (…), et quas et que <massarii predictorum locorum> demonstraverunt me infrascripto notario ordinante ex precepto comunis Cumarum occaxione inventariorum communis» (Le carte di Santa Maria vecchia di Como (secoli XI–XIII), a cura di L. Biondi, L. Martinelli Perelli, R. Perelli Cippo, p. 80). Cf. anche l’analoga esperienza del monastero di San Faustino dell’Isola Comacina (del 1254), ricordata nell’introduzione alle sue carte in corrispondenza della nota 28, che è molto probabilmente da ricollegare a questa stessa prescrizione del comune di Como.
[32] Il riferimento è al’inventario di documenti dell’ospedale di San Lazzaro, caratterizzato da evidenti finalità archivistiche e da caratteri formali di chiara natura inventariale: MERATI, Un inventario di documenti dell’ospedale di San Lazzaro in Como, pp. 57–84; inoltre mi permetto di rimandare a PEZZOLA, Le carte degli ospedali, in particolare cf. il paragrafo L’archivio degli ospedali: l’età medievale (testo da nota 54 a nota 83); EADEM, Item canevarius habet, pp. 229–352.
[33] TISCHLER, Tabula abbatiarum Cisterciensium Bambergensis, pp. 73–98.
[34] Sono soprattutto gli studi di area tedesca ad aprire piste pionieristiche in tale prospettiva. Ad esempio: CYGLER–MELVILLE–OBERSTE, Aspekte zur Verbindung von Organisation und Schriftlichkeit im Ordenswesen, pp. 205–280; SCHREINER, Verschriftlichung als Faktor monastischer Reform, pp. 37–75; GOEZ, Pragmatische Schriftlichkeit und Archivpflege der Zisterzienser.
[35] Così, nella nota dorsale riferibile alla fasa A del doc. n. 62, si legge: «Pena et pene contra | turbatores monasterii | nostri».
[36] Così, ad esempio, nei docc. n. 83 e n. 123 .
[37] BAMi, Pergamene, 411, 3372 bis, 3379, 3380, 3380 bis, 3381, 3382, 3383, 3388 bis. A questo proposito soprattutto: BELLONI, Il san Benedetto in val Perlana, p. 10.
[38] Riguardo a una esperienza di segnature alfanumerica sulla base dei negozi, in questo caso documentata come settecentesca, spunti interessanti in FOIS, Le pergamene del secolo XIII della chiesa di Santo Stefano di Vimercate, pp. VI–XI.
[39] Vengono qui computati anche i regesti relativi all’anno 1200, che nel Sommario cronologico vengono compresi all’interno del 13° secolo.
[40] Spicileggio, c. 1r. Questa fonte è stata edita e studiata da CORTESE ESPOSITO, Lo Spicilegio dell’abazia, pp. 280–294.
[41] ROVELLI, Storia di Como, pp. 218–219. Inoltre, scrive Cesare Cantù: «<Nel monastero d’Acquafredda> i frati durarono finché Giuseppe II, nel 1785, non volle più di questi oziosi, preferendo i soldati. Il convento era ricchissimo di pergamene. Queste seppellironsi negli archivii; le proprietà si vendettero per poco o per tanto a un Mainoni, da cui li comprarono dappoi i signori Stampa»: Storia di Como, p. 1168.
[42] Sul programma del governo austriaco: VITTANI, Ordini religiosi e studi in un grandioso disegno di riforma, pp. 262–270 e AMBROSIONI, Per una storia del monastero di S. Ambrogio, pp. 291–317 (pp. 302–305).
[43] Riguardo a questo abate, si rimanda alle seguenti schede biografiche: CASIRAGHI, Fumagalli Angelo, pp. 1295–1297; nonché: Angelo Fumagalli, a cura di CONTE, in Ermete Bonomi archivista cistercense, pp. 186–188.
[44] ASMi, Atti di Governo, p. a., Culto, Conventi cistercensi, b. 1659, allegato alla nota 24 maggio 1774. La trascrizione della proposta dei cistercensi del 1774 si ha in VITTANI, Il primo governo austriaco, pp. 155–190 (pp. 184–190).
[45] ASMi, Culto, p. a., c. 1658, c. 1659, cit. in CONTE, Ermete Bonomi archivista cistercense, p. 153.
[46] I quattro maestri sono, oltre a Pompeo Casati, Giovanni Venini, Pio d’Adda ed Ermete Bonomi. AMBROSIONI, Per una storia del monastero di Sant’Ambrogio, p. 302.
[47] Per un ricco profilo biografico di questa figura si rimanda a: RATTI, Del monaco cisterciense don Ermete Bonomi, pp. 303–382; CONTE, Ermete Bonomi archivista cistercense.
[48] BBMi, AE XV 33, pp. 3–4.
[49] Ne derivarono i 14 volumi di trascrizioni delle scritture chiaravallensi: Biblioteca Braidense di Milano, AE XV 20–32 e 37.
[50] Egli stesso nelle prefazioni delle trascrizioni claravallensi si qualifica come «D. Hermete Bonomi bibliothecae ac tabularii coenobii eiusdem praefecto», cit. in CONTE, Ermete Bonomi archivista cistercense, p. 158.
[51] ASMi, Amministrazione Fondo di religione, conventi Milano: S. Ambrogio, b. 1848, cit. in CONTE, Ermete Bonomi archivista cistercense, p. 158.
[52] BBMi, AE XV 33–35. A seguito della morte di Ermete Bonomi tutti i suoi volumi di trascrizioni, tra i quali quelli relativi alle carte dell’Acquafredda, passarono al nipote, e infine, nel 1894, furono donati alla Braidense.
[53] A questo proposito soprattutto VISMARA CHIAPPA, Monastero di Sant’Ambrogio, che fa parte del più ampio contributo Le soppressioni di monasteri benedettini, pp.138–201 (pp. 196–198).
[54] Nel 1802 l’archivio santambrosiano fu trasferito al Palazzo Nazionale in vista di una conservazione considerata più onorevole; in quella sede iniziò un lavoro di ricognizione sistematica dei fondi, finalizzata alla creazione di un grande Diplomatico: ne fu ideatore Luigi Bossi, prefetto generale degli Archivi e delle Biblioteche della Repubblica Cisalpina e storico di fama. Per questa ricognizione fu incaricato lo stesso Bonomi. Il sopra citato Luigi Bossi, nel 1804, scrisse al ministero dell’Interno per un ragguaglio circa la prosecuzione del lavoro: «Il cittadino Bonomi, in questi due anni, ha ordinato gli archivi diplomatici di Chiaravalle, di Morimondo, dei canonici di Sant’Ambrogio maggiore, del monastero antichissimo di Sant’Agostino, di quello di Cairate egualmente, se non ancora più antico, e del clero minore del duomo, ossia dei decumani; e sta attualmente travagliando sopra le carte antichissime del monastero di S. Apollinare (…). Tutti questi archivi, essendo rigorosamente diplomatici e ricchi delle carte più preziose e di molti documenti anche anteriori al X secolo (…) formar debbono il nocciuolo del grandioso archivio diplomatico da erigersi, giusta le disposizioni già date dal vice presidente della Repubblica» (cit. in NATALE, Il Museo diplomatico dell’Archivio di Stato di Milano, p. XI). Ma, soprattutto, pare degna di rilievo la numerazione delle membrane del Diplomatico che Michele Daverio notificò a Luigi Bossi il 21 febbraio 1809, articolate per archivi di provenienza: “N. 263 pergamene del Capitolo minore della Metropolitana di questa città; n. 1473 del monastero Maggiore; n. 381 del monastero di Sant’Agostino, detto d’Aurora; n. 437 del monastero di Sant’Apollinare; n. 793 dei canonici di Sant’Ambrogio; n. 619 di San Giorgio in Palazzo; n. 379 del monastero della Vittoria; n. 1915 dei cistercensi di Chiaravalle; n. 622 dei cistercensi di Morimondo; n. 229 del capitolo di Casorate e Rosate; n. 91 delle monache di Cairate; n. 23 della certosa di Parma; n. 196 del monastero di San Benedetto di Cremona», cit. in NATALE, Il Museo diplomatico dell’Archivio di Stato di Milano, pp. 10–11.
[55] L’espressione è di AMBROSIONI, Per una storia del monastero di S. Ambrogio, pp. 305–306, di questo contributo si vedano anche le pagine successive, che documentano ampiamente tale fatto (purtroppo non vi sono riferimenti ai documenti dell’Acquafredda).
[56] È fondamentale a questo proposito lo studio di C. PASINI, Le acquisizioni sotto la prefettura di Baldassarre Oltrocchi, contenuto all’interno del più ampio contributo: Libri e manoscritti entrati in Ambrosiana tra il 1695 e il 1815, pp. 113–165 (pp. 146–147).
[57] Mandato n. 8, trascritto dal Gramatica in C 322 inf., inserto 6, parte I, f. 56, cit. in PASINI, Le acquisizioni sotto la prefettura di Baldassarre Oltrocchi, p. 147, p. 164n.
[58] Al fine di avere una misura indicativa della consistenza del fondo, evidentemente ben lontana da esiti di definitività e di precisione, si è provveduto alla interrogazione dei regesti delle Pergamene della Biblioteca Ambrosiana, realizzati da Alessandro Bianchi e disponibili on line sul sito della Biblioteca Ambrosiana (<http://office.comperio.it/ambrosiana/pergamene/search/nor?q=> ). Si è pertanto interrogato il motore di ricerca – ovviamente non sono stati immessi filtri riguardo alla cronologia – con inserimento delle seguenti parole chiave: “Acquafredda” (tot. 479 restituzioni), “Faustino” (tot. 234 restituzioni), “Benedetto” (tot. 526 restituzioni). Si è quindi provveduto ad uno spoglio delle date topiche dei documenti restituiti e si è potuto rilevare che essi risultano nella quasi totalità relativi all’area comasca. Complessivamente le restituzioni sono state 1.239. Questo dato mi pare particolarmente interessante per disporre di una iniziale unità di grandezza delle scritture cristallizzatesi intorno all’archivio di Acquafredda. Il lettore valuti inoltre ‘il peso’ delle pergamene di Acquafredda–San Benedetto–San Faustino nel contesto del Diplomatico ambrosiano: costituiscono circa un decimo dell’intero patrimonio membranaceo posseduto.
[59] Riguardo a questa figura si rimanda a C. PASINI, Il collegio dei dottori e gli studi all’Ambrosiana, pp. 77–127 (pp. 93–100). Qui si ricorda soltanto che Antonio Ceruti (1830–1918), prete milanese, ordinato sacerdote nel 1853, fu nominato dottore dell’Ambrosiana nel 1870, a seguito di una esperienza come archivista aggiunto presso l’archivio diocesano milanese. Negli anni Settanta assunse il titolo di Viceprefetto. Accanto all’Inventario del fondo antico dei manoscritti dell’Ambrosiana, in 33 volumi, noto come Inventario Ceruti, che è la sua principale opera realizzata nel contesto dell’Ambrosiana, va ricordata anche la regestazione delle pergamene, di cui si tratterà nella nota successiva.
[60] Il Ceruti suddivise le membrane in diplomi, bolle e carte pagensi; ordinò cronologicamente le membrane per centurie e le numerò progressivamente con un pastello rosso, ripartendo da “1” secolo per secolo. Il suo lavoro è documentato nei cinque volumi I 144–148 suss. di regesti: I 144 per i diplomi; I 145–146, 147 per le carte pagensi; I 148 per le bolle. A partire dal lavoro del Ceruti, Alessandro Bianchi regestò le pergamene dell’Ambrosiana in undici volumi, secondo la loro collocazione fisica. L’opera reca la seguente intestazione: «Sacerdote Alessandro Bianchi dottore della Biblioteca Ambrosiana. Inventario delle pergamene della Biblioteca Ambrosiana, numeri di collocazione: 843–1756». Per ogni documento, il curatore si premurò di fornire in modo schematico, entro una predisposta tabella a stampa: numero di collocazione (con numeratore automatico); anno, mese e giorno; indizione; luogo; notai; argomento; osservazioni (di solito in questo riquadro il Bianchi indica la presenza di sigilli o note dorsali reputate di particolare rilievo. In particolare il Bianchi segnala sempre la segnatura del Ceruti e rimanda pure all’eventuale edizione curata dal Della Croce. I regesti del Bianchi sono corredati da un dodicesimo volume di Repertori per materie: Atti papali in ordine cronologico (p. 5); Monasteri, ordini e congregazioni religiose in ordine alfabetico (p. 189); Milano e diocesi: arcivescovi, duchi, capitolo metropolitano in ordine cronologico; Capitoli diversi, chiese, ospedali, scuole, luoghi e istituti vari, luoghi della diocesi in ordine alfabetico (p. 249); Indici vari per soggetti (p. 409); Cronologia degli arcivescovi di Milano e piante della città e diocesi di Milano antiche (p. 489).
[61] L’esperienza di riordinamento di questo fondo dell’Ambrosiana deve essere letta in parallelo a quella occorsa al Museo Diplomatico oggi presso l’Archivio di Stato di Milano: «L’archivio diplomatico si deve considerare il prodotto della dottrina archivistica lombarda, ch’ebbe origine e culto nell’archivio del monastero di Sant’Ambrogio di Milano»: NATALE, Il Museo Diplomatico, p. VII. Inoltre, del medesimo autore, Il Museo diplomatico dell’Archivio di Stato di Milano, p. 5, ove si legge che «le origini e le vicende di tale raccolta <il Diplomatico> vanno ricercate nello svolgimento storico dell’archivistica in Lombardia, durante l’età moderna».