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Radulfi tituli Sancti Georgii ad Velum Aureum cardinalis sententia
<1186, estate, Verona>.
Rodolfo Nigellus, cardinale diacono di S. Giorgio al Velabro, esenta l'abate del monastero di S. Maria di Morimondo dalla prestazione del giuramento nella definizione della causa vertente fra il medesimo e la pieve di S. Vittore di Casorate, annullando in tal modo parte della sentenza pronunciata in precedenza da Gibuino, preposito di S. Giorgio al Palazzo, e da Enrico, arciprete della canonica dei decumani di Milano.
Menzione nei docc. nn. 343, 344, 345, nonché in litterae di Innocenzo III del 1201 febbraio 6, Laterano (ASMi, AD, pergg., cart. 688 = BONOMI n. 292; POTTHAST: -; Die Register Innocenz' III.: -) e nell'exemplum testium conservato ivi, cart. 689 = BONOMI n. 1 (1201 ottobre 13, 16; 1202 gennaio 10).
Regesto: KEHR, Italia Pontificia, VI, I, p. 131, n. *6, e p. 133, n. *1 (alla data 1185-1187).
Le prime, dettagliate informazioni relative alla sentenza cardinalizia sono contenute nelle allegazioni di diritto (n. 343) esibite dai periti morimondesi a Giustamonte de Turre e Pietro Gaspare Menclocius, giudici delegati da papa Innocenzo III, nel maggio del 1199 (doc. n. 340), a esaminare e decidere la controversia tra Morimondo e la pieve di Casorate, e soprattutto a reindagare sul merito del precedente pronunciamento di Gibuino, preposito di S. Giorgio al Palazzo, e di Enrico, arciprete della canonica dei decumani di Milano (per il relativo doc., deperdito, cf. n. 279), non disponendo il pontefice di informazioni adeguate al riguardo (nobis de rei veritate non constitit: doc. 121). Il verdetto del cardinale di S. Giorgio al Velabro, Rodolfo Nigellus (Raul nelle allegazioni; creato cardinale da Lucio III nel 1185, dal 1188 ha il titolo di S. Prassede: cf. KARTUSCH, Das Kardinalkollegium, p. 000, nonché MALECZEK, Papst und Kardinalskolleg, pp. 248, 257-8), non è però menzionato dalle litterae innocenziane, mentre costituisce, sul piano documentario, l'elemento cui viene conferito il maggior valore probatorio dai sapientes di parte monastica, tesi a dimostrare l'infondatezza e la non effettività, sotto l'aspetto puramente giuridico, del verdetto emesso da Gibuino e da Enrico. La sentenza di Rodolfo costituisce, nell'ordine, la quarta pezza d'appoggio elencata nel consilium, corrispondente a una carta (oggi deperdita, a differenza di altre utilizzate all'epoca dai giurisperiti) retrosegnata con la lettera D. Le allegazioni, tuttavia, ci restituiscono al riguardo solo notizie adeguate alla natura del contesto, strumentali cioè a un discorso giuridico, di efficace contrapposizione argomentativa; ma si avvalgono anche di due fondamentali testimonianze di uomini legati al monastero, rese al cospetto dei giudici delegati in data 1200 ottobre 25, e poi da questi fatte pubblicare (insieme al libellus del preposito di Casorate) in margine alla sentenza (doc. n. 345), e che pertanto conviene prendere in considerazione per prime.
Le dichiarazioni di Guascone e di Alberto de Sexto, conversi di Morimondo, convergono quasi totalmente. Entrambi si trovavano a Verona presso Urbano III in loco abbatis quando il cardinale, agendo in loco prefati domini pape, aveva assolto il monastero dalla sentenza di Gibuino et a sacramentis delatis ab ipso magistro Gibuino super causa illa; concordano nel sostenere di aver ricevuto dal cardinale lettere sigillate contenenti il tenore della sentenza. Entrambi, poi, dichiarano che il verdetto cardinalizio era stato emesso absente ipso preposito, quia noluit audire sententiam, e che lo stesso Pagano non solo era stato presente in placitando, ma aveva bene introdotto le sue ragioni ed esibito la carta sententie Gibuini. Questi ultimi due particolari sono estremamente significativi, poiché un paio d'anni più tardi Pagano affermerà (ci si riferisce all'exemplum testium conservato in ASMi, AD, pergg., cart. 689 = BONOMI n. 1, già utilizzato nella nota che accompagna qui il doc. n. 279) di non essere a conoscenza della sentenza emessa dal cardinale Rodolfo (ed è difficile stabilire se in ciò vada letta una negazione del fatto in sé, o soltanto una parziale conferma di quanto affermato dai due conversi, laddove questi ne avevano sottolineato l'assenza al momento del verdetto; vero è che, nell'àmbito del processo amministrato da Giustamonte e da Pietro, la strategia della pieve presupponeva il rigetto totale della sentenza cardinalizia); così come retrospettivamente interessante, per noi, risulterà la deposizione di Gibuino, laddove indicherà in tale dominus Guasconus uno dei fratres morimondesi che avevano presenziato al suo pronunciamento, contraddicendo - se v'è coincidenza tra i due personaggi - ciò che il converso dichiara al cospetto dei giudici delegati, e cioè di non aver partecipato all'atto conclusivo della causa pendente sotto Gibuino, e di non possedere al riguardo che informazioni incerte - o di non possederne affatto -, riportate peraltro in maniera piuttosto generica e (volutamente o meno) congetturale, e ripetute con pressoché perfetta corrispondenza dall'omologo Alberto de Sexto. L'interrogatorio dei due conversi lascia emergere ulteriori dettagli circa la fase curiale del contenzioso; nessuno dei due, però, è in grado di circoscrivere con precisione nel tempo i fatti di cui recano testimonianza, e interrogati dai giudici a più riprese e nel contesto di domande diverse, concordano nel non ricordare il giorno; Alberto sostiene che la sentenza fu pronunciata post commestionem, Guascone che ebbe come teatro il palazzo ubi stabat predictus cardinalis; entrambi, messi di fronte all'alternativa tra inverno ed estate, situano il dibattimento nella stagione estiva: sicché, poiché le allegazioni (n. 343) segnalano l'appello in curia Romana come proceduto immediatamente di seguito al responso di Gibuino (1186 aprile 19), si dovrà per forza di cosa pensare che l'estate in questione debba essere quella del 1186 (e con tale, generico dato è stata qui introdotta la ricostruzione del relativo regesto). Un ultimo fattore da prendere in considerazione riguardo alla sentenza di Rodolfo è quello relativo alla discussa autenticità del documento che l'avrebbe tramandata, privo di data e di sottoscrizioni testimoniali. La questione torna a galleggiare nella trasposizione formale del contradditorio tra il preposito Stefano e l'abate Pietro che, nel documento fatto elaborare dai giudici apostolici, segue il libello petitorio di Pagano e precede il dispositivo della sentenza (doc. 344), ed entro cui vengono ripresi tutti i punti che si sono già ampiamente analizzati. Il preposito, difatti, nega che Rodolfo abbia pronunciato la sentenza, e getta dei sospetti pesanti sulla prova documentaria esibita dalla controparte: nec ex scripto quod ab ispo abbate producitur esse probatum, cum illa scriptura privata sit nec aliquam formam publice scripture obtineat, nisi quod sigillum quod dicitur eius fuisse in ea pendet, quod multis modis contra veritatem potuit accidisse; la dose viene rincarata invocando la particolare posizione dei testimoni presentati dal monastero, trattandosi di conversi che in sua causa, sicut dicunt, videntur testificari. Non viene riportata la replica dell'abate circa i sospetti - in sostanza - di falsificazione del documento cardinalizio, mentre il tema è solo sfiorato dagli autori del consilium, che di fronte all'obiezione del preposito, perplesso dinanzi a un doc. sine die et testibus (n. 343), si limitano a replicare che in curia Romana hee solempnitates recesserunt ab aula nec servantur, et alie consuetudines servantur (ivi); certo è che, proprio in quegli anni, Innocenzo III, condannando un fenomeno sempre più diffuso, avvertiva delle modalità sempre più sofisticate attraverso cui si procedeva alla fabbricazione di documenti falsi, includendo tra queste proprio il 'trucco' sospettato dal preposito di Casorate: il collegamento di un sigillo autentico, chirurgicamente recuperato da contesti autentici, a una pergamena ospitante scritture non veritiere, o magari semplicemente ma abilmente interpolate (cf. la lettera innocenziana indirizzata all'arcivescovo di Milano e ai canonici della metropolitana inserta in Decretales Gregorii IX, V, tit. XX, De crimine falsi, cap. V: Friedberg, II col. 000|00; sul tema cf. BRESSLAU, Handbuch der Urkundenlehre, II, pp. 15 ss., e il più recente HERDE, Die Bestrafung von Fälschern, pp. 596 ss.). Naturalmente, la scomparsa dal tabularium monastico del pezzo in questione non ci consente di aggiungere altro; né altro aggiungono i giudici milanesi, che per la stesura della loro sentenza non sembrano aver ritenuto indispensabile una perizia 'diplomatistica', essendosi limitati a confrontare le proprie opinioni coi pareri di molti sapientes, le une e gli altri formatisi sulla base degli instrumenta e delle allegationes esibite dalle parti, valutando le testimonianze di questa causa e riesaminando quelle già prodotte dinanzi a Gibuino e all'arciprete dei decumani. Conseguendo, si direbbe, solo labili sicurezze, ben riflesse da un verdetto che, se risulta complessivamente favorevole al monastero, appare manifestamente interlocutorio nella parte che vorrebbe mettere un punto fermo sulla questione della sentenza cardinalizia, deferendo il sacramentum all'abate ut iuret per suum advocatum quod credit quondam dominum Radulfum, tunc Romane Ecclesie cardinalem, absolvisse abbatem sive monasterium de Morimundo a prestatione iuramenti, sicut in scripto quod dicit esse predicti quondam Radulfi continetur et per suos dicit testes probatum (doc. n. 344). Il giuramento viene rimesso dal preposito; ma ben difficilmente egli poteva accettare, senza riservarsi di adire nuovamente le vie legali, che la prova circa l'autenticità del documento-cardine del processo si dovesse infine formare con la dichiarazione giurata sulle sacre scritture. La mancata valutazione 'tecnica' della prova esibita costituiva potenzialmente un vizio procedurale, non l'unico addebitabile ai giudici delegati. Ciò comporterà l'apertura di una nuova fase del contenzioso, di cui purtroppo ci verrà a mancare la documentazione decisiva (si veda, al riguardo, la nota introduttiva al doc. n. 346).
Edizione a cura di
Michele Ansani
Codifica a cura di
Gianmarco Cossandi