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Gibuini prepositi Sancti Georgii in Palatio et Henrici archipresbiteri decumanorum arbitralis sententia
<1186 aprile 19, Milano>.
Gibuino magister, preposito della chiesa di S. Giorgio al Palazzo, nonché Enrico, arciprete della canonica dei decumani della Chiesa milanese, essendo stati incaricati - dietro pagamento di cauzione e con la comune fideiussione di Ottacio de Rastello e di Guascone de Casorate - da Pagano, preposito della pieve di S. Vittore di Casorate, da una parte, e da Guglielmo, abate del monastero di Morimondo, dall'altra, di dirimere la controversia relativa al manso che era detto Farizola, a un sedime, ai cimiteri delle chiese di S. Ambrogio presso Coronate e di S. Giorgio in Fallavecchia, a certi diritti di decima, nonché agli arredi dell'anzidetta chiesa di S. Giorgio, valutate le testimonianze definiscono le ragioni del monastero, subordinandole alla prestazione di apposito giuramento, circa il possesso del manso e del sedime, stabilendo il buon diritto del preposito, pure condizionandolo al giuramento, su tutte le altre questioni.
Menzione nei docc. nn. 340, 343, 344, 345, nonché in litterae di Innocenzo III del 1201 febbraio 6, Laterano (ASMi, AD, pergg., cart. 688 = BONOMI n. 292) e nell'exemplum testium conservato ivi, cart. 689 = BONOMI n. 1 (1201 ottobre 13, 16; 1202 gennaio 10).
Cf. TURAZZA, Casorate Primo, p. 120 (alla data 1182-inizio 1183); BELLINI, Le origini di Morimondo, p. 53.
La sentenza di Gibuino ed Enrico, così come quella successiva del cardinale Rodolfo (n. 280), non ci sono pervenute; è pressoché certo, d'altra parte, che la prima non venisse neppure conservata dal tabularium monastico, mentre la seconda era sicuramente sul tavolo dei sapientes collegati a Morimondo e da essi ampiamente utilizzata a supporto del consilium (n. 343) - inoltrato ai giudici delegati apostolici Giustamonte de Turre e Pietro Gaspare Menclocius in vista del loro pronunciamento, occorso il 1200 gennaio 10 (n. 344) -, insieme agli altri docc. ritenuti indispensabili, e come quelli signata nel verso con una lettera dell'alfabeto (nel caso specifico con la lettera D). Data la loro importanza, sono state ambedue inserite autonomamente in questo volume, sebbene in forma di semplici regesti, ricostruiti tenendo conto delle informazioni reperibili nella documentazione superstite, mediante le quali si è anche in grado - almeno per quanto riguarda il verdetto di Gibuino - di stabilire una cronologia attendibile, valida anche quale terminus ante quem, come si è visto, per le testimonianze prodotte dalla pieve nel quadro di questa fase processuale (cf. n. 278 e relativa nota introduttiva).
Circa l'operato di Gibuino e del suo 'socio' Enrico le informazioni più dettagliate ci sono restituite da un verbale di testimonianze - ancora di parte pievana - rese fra il 1201 ottobre 13 e il 1202 gennaio 10 (ASMi, AD, cart. 689 = BONOMI n. 1) durante un ulteriore sviluppo del contenzioso (su cui si veda, per maggiori ragguagli, la nota introduttiva al doc. n. 346). In data 1201 ottobre 13 viene chiamato a deporre Pagano de Sancto Benedicto, già preposito di S. Vittore, autore del libellus petitionum presentato ai delegati apostolici Giustamonte e Pietro (e inserto nei docc. nn. 344 e 345), ma che aveva ceduto la carica (per motivi che ci sfuggono), prima del verdetto, a tale Stefano, che interpreterà le ragioni della pieve, di fronte all'abate di Morimondo, nel dibattimento processuale. Pagano viene sollecitato dunque, alla data anzidetta, a fornire la propria versione di una vicenda evidentemente non ancora chiarita. Egli ricorda quod de causa que modo vertitur ... deposuit, cum erat prepositus ipsius plebis, nomine ipsius plebis, querimoniam sub Mediolanensi Ecclesia, ma che la controparte aveva ritenuto di sottrarre la materia alla giurisdizione arcivescovile, ricorrendo al pontefice, qui tunc erat Verone, qui vocabatur Lucio (Lucio III, eletto l' 1 settembre 1181, recatosi a Verona nell'estate del 1184 per incontrarvi Federico I e regolare alcune materie rimaste aperte anche dopo la pace di Costanza: cf. FOREVILLE-ROUSSET DE PENA, Dal primo Concilio Lateranense, pp. 663 ss.; WOLTER-BECK, Civitas medievale, pp. 119-20) . L'abate - prosegue Pagano - inviò presso Lucio due monaci, Girardo et alium cuius nomen ignoro, poi raggiunti dal preposito in persona (et ego similiter ad eum accessi); ciò accadeva, tuttavia, in coincidenza con la morte del pontefice (set tunc ipse Lucius obiit), occorsa il 25 novembre 1185, cui tenne dietro, alla medesima data, l'elezione del milanese Uberto Crivelli, che prese il nome di Urbano III (et Urbanus fuit ellectus): cf. JAFFÉ-L., II, pp. 492-3; FOREVILLE-ROUSSET DE PENA, p. 668; WOLTER-BECK, p. 120. Dopo la consacrazione (1 dicembre), ma prima di Natale, le parti si incontrarono col pontefice, il quale dixit quod aut conveniremus inter nos de potestatibus vel alio modo, aut reverteremur ad eum; rispettando l'indicazione di Urbano, vennero concorditer nominati gli arbitri, post festum Natalis (dunque tra fine 1185 e inizio 1186) nelle persone di Gibuino e di Enrico, sub quorum examine diutius fuit litigata seu agitata causa illa, sancendo il compromesso mediante un instrumentum ... confectum per Iacobum de Brissio (il doc. è deperdito, né altre menzioni di esso consentono di meglio precisarne la data e il contenuto) e vincolante le parti al rispetto della sentenza arbitrale sub obligatione .C. librarum, con la nomina di un unico garante (fideiussor ex utraque parte) nella persona di Ottacio Rastellus, di Casorate (su quest'ultimo particolare la versione di Pagano sarà confermata in pieno da Giovanni de Rastello, di Casorate, genero di Ottacio, chiamato a testimoniare lo stesso giorno di Pagano, la cui deposizione è preceduta da quella di Airoldo de Rozio, pure di Casorate, il quale aggiunge però che tale Guasco de Casorate fuit fideiussor in cautione illa cum Ottone Rastello). Pagano presegue ricordando la quantità delle testimonianze prodotte e degli instrumenta esibiti ex utraque parte, sulla cui base gli arbitri sententiam in scriptis promulgaverunt, ut in sententia inde scripta continetur, subordinando al giuramento di ambo le parti gli effetti della decisione; fu stabilito il giorno, concorditer sub potestatibus, quo sacramenta predicta debebant fieri ab utraque parte vel remitti, et hoc ad locum ubi erat discordia. All'appuntamento gli arbitri si erano presentati in compagnia di due assessores, Rogerio de Sedriano e il giudice Passaguerra; Pagano, ad postulationem eorum, sotto giuramento indicò gli antichi percorsi (vias vetteres) delle litanie che, partendo dalla pieve, raggiungevano le chiese da essa dipendenti, e che i monaci erano accusati di aver ostruito o danneggiato al fine di impedire quelle processioni; inoltre, otteneva dai cisterciensi la restituzione di libri e paramenti e della campana di S. Giorgio di Fallavecchia nonché la somma di sei lire di terzoli, quod per longum tempus tenuerant; infine i giusdicenti, secundum suam voluntatem, cimiterium Sancti Ambroxii determinaverunt. Pagano ricorda, inoltre, che era stato proprio l'abate di Morimondo, Guglielmo, ad accettare il tenore della sentenza; richiesto di specificare a quale parte di essa avesse aderito, assicura: totam sententiam. L'interrogatorio prosegue in maniera spedita, registrando le risposte negative dell'ex preposito in merito alla strategia che era stata adottata dal monastero: Pagano nega che vi sia stato un appello, dichiara di non essere al corrente circa la sentenza formulata dal cardinale Rodolfo su mandato del papa, ma ignora anche le decisioni di Giustamonte de Turre e di Pietro Menclocius; viceversa, si mostra ancora discretamente informato circa la data della sentenza di Gibuino - respondit quadam die sabati, ut credit, in camera sua, in mense aprilis - nonché sui nomi di coloro che erano stati presenti alla promulgazione: Rogerius de Sedriano
<et>
Passaguerra iudice, assessoribus, Arderico de Bonate, Pellegrino de Pozobonello, Airoldo de Roçia, Guascone de Casorate, Ottacio Rastello et Petro de Trivulci. Si sarà notato che Pagano, limitandosi a ricordare come l'abate morimondese avesse accondisceso alla sentenza di Gibuino, non dice (forse in assenza di specifiche sollecitazioni da parte degli investigatori) se ciò avesse poi comportato l'effettiva prestazione del giuramento. Al riguardo si rivela molto più informato il teste successivo, Airoldo de Rozio, già indicato da Pagano nel novero di coloro che avevano presenziato alla pubblicazione della sentenza, e probabilmente proprio per questo chiamato a deporre. Airoldo, confermata tale circostanza (ego fui ibi intus canonicam decumanorum ubi causa que vertebatur inter plebem ... et monasterium ... sub domino Gibuino ... et archipresbitero decumanorum fuit causata, et ubi de causa illa per eos lata fuit sententia), dichiara che delatum fuit a potestatibus sacramentum abbati, ibi presenti, ut iuraret quod ipsa terra de qua agebatur non erat in toto nec in parte predicte plebis (si trattava dunque del manso e del sedime rivendicato da Casorate), e che si era stabilito come, qualora l'abate non volesse giurare, il sacramentum sarebbe stato rimesso al suo avversario; l'abate, a questo punto, aveva chiesto dieci giorni di tempo per deliberare sul da farsi, ottenenendo l'autorizzazione degli arbitri. Airoldo non aggiunge altro, né si dichiara informato sugli sviluppi successivi della causa; come Pagano, però, ha memoria sufficiente per dire che la sentenza di Gibuino fu pronunciata de feriis Pasce, de mense aprilis, e in canonica decumanorum. Questi elementi, del tutto compatibili con quelli offerti da Pagano, circoscrivono entro la settimana post-pasquale del 1186 la data di promulgazione della sentenza: cadendo la Pasqua, in quell'anno, il 13 aprile, e combinando il riferimento de feriis Pasce (Airoldo) con quello al giorno di sabato (Pagano), otterremo la data del 19 aprile.
Tornando nel merito della sentenza arbitrale, tutt'altro che secondaria dovrebbe essere la testimonianza di Gibuino stesso, nel frattempo promosso alla carica di primicerius della Chiesa milanese (cf. POGLIANI, Il dissidio fra nobili e popolari, p. 17, nota 41, nonché le fonti e la bibliografia ivi utilizzate), messa a verbale il 1201 ottobre 16; ma egli non si rivela particolarmente loquace, limitandosi a confermare di aver pronunciato, insieme ai suoi sotii, la sentenza in questione, sicut continetur in scriptio sententie (sottolineando, si direbbe, la perfetta corrispondenza tra ciò che il documento a suo tempo perfezionato tramandava e la decisione manifestata dagli arbitri); per il resto, conviene che quel verdetto non diede luogo ad aliqua intencio vel rumor seu discordia, né quod ipsi de Morimondo contradisisserunt sententiam aliquo modo, nec in toto vel in parte, ritenendo quod abbas habuit ratam et firmam illam sententiam, né che ad essa, per quel che gli consta, si fosse appellato, e tanto meno si dichiara a conoscenza di come abbia poi agito il cardinale Rodolfo (nescio, est alienum a me); ricorda con precisione, viceversa, che l'abate di Morimondo era presente alla proclamazione della sentenza, ma al riguardo non affiorano alla sua memoria altri nomi, salvo uno, ma piuttosto importante, come vedremo, poiché si tratta di tale dominus Guasconus, un frater morimondese, probabilmente un converso, e perciò forse proprio quello stesso converso la cui testimonianza era stata decisiva nella formazione del verdetto emesso, all'inizio dell'anno precedente, da Giustamonte de Turre e Pietro Menclocius (cf. doc. n. 345).
L'ultima, assai sintetica ma importante testimonianza di cui disponiamo è quella di Passaguerra, un giudice, colui che, insieme a Rogerio de Sedriano, aveva affiancato Gibuino ed Enrico nell'indagine e nella definizione giudiziaria, in qualità di assessor et consciliarius; conferma di sapere per certo quod delata fuerunt sacramenta utrique parti, ma crede soltanto (lasciando perciò margini al dubbio) di poter affermare quod prepositus sua sacramenta prestitit, altera vero pars non; con maggiore titubanza, interrogato si dominus abbas habuit firmam sententiam illam, risponde sic credo, set aliter non sum certus.
Dunque, a oltre quindici anni di distanza, oggetto della controversia era ancora la sentenza di Gibuino e dell'ormai defunto Enrico (cf. doc. 344); d'altra parte, la strategia processuale del pievano di Casorate, già nella causa discussa davanti ai delegati apostolici Giustamonte e Pietro, era mirata ad ottenere l'esecuzione di quella parte di essa che era stata condizionata al giuramento dell'avversario, come risulta del tutto evidente nel libellus presentato da Pagano ai giudici delegati: poiché l'abate, anno et die transacto, si era sottratto a tale obbligo, il preposito reclamava la restituzione del manso e del sedime nonché la cessazione della fabbrica e la rimozione dalle fondamenta della nuova chiesa monastica; quanto meno, domandava la remissione del giuramento (docc. 344 e 345). Il presupposto che viceversa aveva ispirato la strategia del monastero consisteva nella delegittimazione della sentenza di Gibuino, tecnicamente argomentata ricorrendo al Codex, al Digestum, al Decretum Gratiani e ad altre norme canoniche poi confluite nelle Decretali di Gregorio IX (si vedano le allegationes et defensiones edite al n. 343), supportando la giurisprudenza con stringenti prove documentarie, messe accuratamente sul tavolo dai periti a fianco dei testi di diritto, rafforzando le più deboli di esse con deposizioni ad hoc. L'obiettivo è, appunto, quello di privare d'ogni fondamento di legittimità il verdetto di Gibuino ed Enrico. Innanzitutto, perché contrario alla sentenza pronunciata a suo tempo dall'arcivescovo di Milano Oberto de Pirovano (Le carte di Morimondo, I, n. 155, pp. 303-6), che aveva già dato ragione al monastero per la questione delle terre rivendicate dalla pieve; la sentenza di Gibuino, in eo quod sacramentum abbati dedit, era da ritenere ipso iure nulla (doc. 343): res iudicata pro veritate accipitur (ivi), e tanto più che la sentenza di Oberto, evidentemente allora non reperibile, non fuit hostensa seu demonstrata magistro Gibuino et sotio eius (ivi), come lo stesso Gibuino avrebbe poi ammesso dinanzi ai giudici delegati (ivi: non possediamo tuttavia la registrazione scritta della testimonianza) ammettendo implicitamente che, occasione instrumenti postea reperti (ivi), la causa avrebbe dovuto essere ritrattata. Quanto al punto su cui insistono gli avversari del monastero (e su cui insisteranno anche le testimonianze del 1201-1202), relativo alla dichiarata accettazione della sentenza da parte dell'abate, si afferma che quod fecit, potius et sequenti compromisso et sententia seu etiam fine fecit, quam ex sententia suprascriptorum Gibuini et sotii (ivi), con riferimento a due transazioni perfezionate dopo il pronunciamento degli arbitri, di cui una soltanto (doc. n. 294) ci è pervenuta, ma delle quali non v'è menzione nelle litterae commissionis indirizzate da Innocenzo III a Giustamonte de Turre e Pietro Menclocius (doc. n. 340), che sarebbero perciò da considerarsi impetrate tacita veritate (n. 343). Soprattutto, la strategia difensiva impostata dagli esperti punterà a valorizzare, contrapponendola a quella di Gibuino, la sentenza del cardinale Rodolfo (n. 280); anche supponendo che la prima fosse perfettamente legittima, dicimus tamen ab ea fuisse appellatum et contradictum, et postea in contrarium iudicatum quantum ad sacramenta, quod manifeste ex eo videri potest quod dominus Raul cardinalis, homo sapiens et discretus, iudicavit (n. 343). Altre, interessanti argomentazioni sarà possibile verificare leggendo le allegazioni di diritto, sebbene non direttamente collegabili all'episodio analizzato entro queste note; mentre nessun altro elemento di merito emerge dalla restante documentazione, nemmeno di provenienza pontificia, in grado di illuminare con ancora maggiore grado di definizione contenuti e forme della deperdita sentenza di Gibuino.
Edizione a cura di
Michele Ansani
Codifica a cura di
Gianmarco Cossandi